1982, SF, “Saluto alla Vergine”

Il “Saluto alla Vergine” e la pietà mariana di Francesco d’Assisi, SF, 1-2 (1982) pp. 55-64 ; poi Literary.it (2016).

Titolo e Testo dell’articolo

Il “Saluto alla Vergine” e la pietà mariana di Francesco d’Assisi

«Ti saluto». La composizione mariana di san Francesco è all’inizio determinata, strutturalmente, dal saluto evangelico dell’angelo[1]. Ma ciò in cui essenzialmente l’Autore segue, nell’insieme dello scritto, il racconto biblico è nell’inquadrare con essenzialità familiare e rispettosa insieme la figura del singolare personaggio. Quanto al resto, egli si eleva e si mantiene in una dimensione poetica del tutto originale.

Il linguaggio e lo stile, semplicissimi e limpidi seconda la consueta scrittura del Cantore assisiate, sono altrettanto incisivi ed attenti. La parola è scavata, ma senza ostentazione; è lirica, ma con naturalezza. Manca l’enfasi, e c’è la commozione. Potremmo dire subito però che non è, questa poesia, una poesia. È un colloquio attraverso il saluto, è dichiarazione ammirata, è preghiera cadenzata; ma il colloquio è soave, l’ammirazione è affettuosa, la preghiera è un canto. Le prerogative della «Signora» esprimono ciò che di più dolce può sentire un innamorato, e lo dicono più nella dolcezza dell’incanto ispirato che nei singoli titoli in se stessi, quali «madre», «sposa», «signora santa», «casa», ecc.

Con uno stato emotivo inebriato spiritualmente e umanamente, ma con la massima pacatezza e discrezione, Francesco ha creato la poesia mariana più bella forse di tutti i tempi, degna del livello della preghiera dantesca. E se un confronto con quella del Paradiso, XXXIII, non può essere instaurato, è perché la Salutatio Virgini (Saluto alla Vergine) trascende lo stesso orizzonte letterario. In questo senso dicevamo che questa splendida lirica, nel suo latino a volte scorretto ma sempre tagliente, non è una poesia: è più che poesia, è un canto che, nella sua semplicità interiore, si impone senza volerlo ai più alti livelli lirici.

«Ti saluto, Signora». Il femminile, «domina», richiama tradizionalmente il «Dominus», Dio. Ma l’irrompente sostantivo in posizione privilegiata non può non richiamare la figura della «Signora del castello», di cultura provenzale. Se è così, e ciò non appare dubbio, Francesco si pone con ingenuità, ma non meno con forza, tra la poesia «cortese», che egli conosceva, ed il suo sviluppo stilnovistico; erede nella cultura e nella spiritualità.

Infatti dice: «Ti saluto, Signora santa». Se l’attribuzione di «santità» non è nuova in mariologia, è degno di nota che il Poeta non va a specificare la «Signora» con qualifiche proprie della «signoria», come pur avrebbe fatto un francescano, Giacomino da Verona, vissuto in un contesto tuttavia feudale[2]. Il primo attributo è, invece, «santa», che non esclude il diritto al «vassallaggio», ma lo purifica da ogni morbosità della cultura contemporanea[3].

Inoltre, già il primo versetto, concettuoso teologicamente ma vivo e fresco, mostra una poetica mariana più semplice anche delle più popolari e antiche Laudes. Fra queste, la lauda maggiormente ricca di umanità e più immediata si rifà, con spirito liturgico, all’annuncio evangelico, ma non riesce a semplificare l’idea e, pur restando suggestiva, manca della partecipazione lirica dello splendido illetterato san Francesco: «Ave Maria, de gratia piena – […] o salve, regina»[4].

Il crescendo grammaticale e concettuale fa balzare, poi, con lo scatto di tre passaggi, l’immagine di Maria nel centro del suo universo divino: «[…] santa, santissima, Madre di Dio». È solo ora, dopo il suo collocamento giusto, che compare il termine «Vergine»: «che sempre sei Vergine». Abitualmente san Francesco non chiama Maria con l’aggettivo sostantivato di «Vergine», se non quando esso è imposto dal riferimento preciso a tale prerogativa: «Ecco, ogni giorno (Gesù) si umilia, come quando dalla sede regale discese nel grembo della Vergine»[5]. In genere egli parla di «Vergine Madre» o di «Vergine Maria»[6]. Nel Saluto, egli inoltre esprime la prerogativa mariana con una proposizione. E ciò non può essere ozioso, in un poeta dalla scrittura essenziale. Francesco contempla la Vergine nel suo essere, e il verbo al presente, «sei», lo sottolinea. Ma lo contempla nella sua dimensione storico-temporale. Con ciò l’Assisiate trascende la speculazione patristica e medioevale sui tempi fisici e successivi della verginità della Madonna, e al contempo non sorvola, anzi incalza stilisticamente, sulla effettività del valore verginale. Qui, Francesco si dimostra non soltanto un mistico, né soltanto un teologo lucido e consapevole, ma un poeta forte, che trova nell’intuizione estetica l’unità fra la contemplazione e la cultura teologica[7].

«Madre di Dio, Maria»: espressione ovviamente comune, né più né meno di «Santa Vergine» dell’«Antifona» dell’Ufficio della Passione, uno scritto di san Francesco da lui stesso recitato. Ma, nel Saluto, l’espressione tradizionale e scontata, seguendo l’incalzare degli aggettivi culminanti nel grado assoluto e anticipando il nome proprio di «Maria» a conclusione dei sostantivi «Signora», «regina», «Madre», si carica di una partecipazione gioiosa alla «maternità» e, insieme, di una gratitudine cordiale per la funzione di lei.

In effetti, egli «circondava di indicibile amore la Madre del Signore Gesù, per il fatto che ha reso nostro fratello il Signore della Maestà, e ci ha ottenuto la misericordia»[8]. San Bonaventura è uno dei migliori interpreti del Fondatore, e noi ravvisiamo nella causale («perché ha reso nostro fratello…») la verità di quella compartecipazione e gratitudine cui accennavamo. Nella seconda parte del verso 6 riscontriamo una ripetizione: «Ti saluto, sua Madre».

Ma non è una ripetizione. Qui non c’è più la maternità «regale» del primo verso; c’è solo maternità. In quel possessivo «sua», poi, è contenuta la gioia dell’«aver reso nostro fratello il Signore Gesù» indicato, all’inizio del Saluto, come «santissimo Figlio diletto». Questi è il Verbo, Figlio di Dio; ma, per l’accentuazione del termine «madre», egli appare anche proposto come «fratello» dell’uomo. Il francescano Jacopone esprimerà addirittura l’idea della «fratellanza» del fedele nei confronti di Maria: «Tu (Maria) sai che ti son prossimo e fratello»[9]. Nel Saluto, san Francesco è, possiamo dire, dalla parte di Dio; ma nella riconoscenza gioiosa a motivo della funzione di Maria nei riguardi degli uomini, come sarà ancora sottolineato dal francescano Giacomino da Verona, il quale chiama la Madonna «tutrix, nostra confalonera», disposta ad accogliere «entre soe brace i suoi fedeli»[10].

In questo senso dobbiamo affermare che la venerazione di Francesco d’Assisi per la Madonna era, in particolar modo, per la «Madre della misericordia», come si esprime san Bonaventura, secondo il quale ella «ottenne con i suoi meriti che lui stesso concepisse e partorisse lo spirito della verità evangelica»[11]. Il concetto bonaventuriano, inserito in un contesto apologetico teso a presentare, in una concezione ortodossa ed equilibrata, la figura del rivoluzionario Fondatore in perfetta coerenza con la «verità evangelica» di cui egli rappresenterebbe il «nuovo araldo», è di fatto ravvisabile nella poesia stessa. Mirabilmente originale, nell’uso «sacrale» della parola essenziale e profonda, Francesco non ricorre al termine «misericordia»; ma sottende l’idea non solo nel termine «madre», che di per sé è riferito al rapporto Maria-Dio, ma anche e soprattutto nel finale della lirica. Qui il Poeta saluta le virtù.

Egli non pensa soltanto alle virtù della Vergine. Infatti dice: «siete infuse nei cuori dei fedeli». Apparentemente, questo potrebbe sembrare un salto di temi, dalla Madonna alle virtù. In realtà il «saluto» alle virtù consegue a tutta la contemplazione degli attributi mariani precedenti. Quello che Bonaventura annotava come una grazia concessa specificamente da Maria a Francesco, Francesco lo spera, con la gioia del saluto festoso e sicuro, per tutti i fedeli, come ricordano e ricorderanno anche le Laudes: Maria è «magistra de cortesie e de grand humilitae»[12]. Con il pudore tipico di Francesco, che molto crede e poco dice, che molto insegna senza tante parole, la poesia dice solo: «voi tutte, sante virtù». Essenziale e tremendo. Qui non trovi le caratterizzazioni della cultura feudale, non ravvisi né polemiche né esaltazioni settoriali: «voi tutte, sante…». Non c’è neppure il riferimento terminologico, benché personalizzato, ai testi biblici come nell’elencazione degli attribuiti mariani indicati dal Poeta nei versi 4-6. Le virtù o sono «tutte», o nessuna di esse vale, come Francesco stesso afferma nelle Lodi delle virtù: «Chi ne ha una e le altre non offende, le ha tutte, e chi ne offende una non ne ha alcuna e le offende tutte; e ciascuna (virtù) confonde i vizi e i peccati» (vv. 6-8). Può sembrare strano che il «Poverello» non menzioni in particolare la povertà; ma vedremo che essa c’è, e l’Autore la indica, nella composizione, in modo diverso che con la parola. È questione, per Francesco, di delicatezza, non di dimenticanza; egli si rivolge alla Madonna, e parla per tutti i «fedeli»: non potrà imporre la propria specificità. Francesco è «piccolino e servo», e non esalta, qui, l’umiltà fra le virtù; ma l’ha in mente, la fa capire, la connota, con discrezione ardente, con severa modestia in quella semplice verità, in cui veracemente consiste l’umiltà e fuori della quale essa è un gesto, non una convinzione: «(virtù), che per grazia e lume dello Spirito Santo»… Il testo latino dice «illuminationem», di agostiniana ed anche liturgica memoria, ma esprime francescanamente l’atto e la funzione globale dello Spirito di Dio. È in lui e da lui soltanto che si danno le virtù, se virtù ci sono, «nei cuori dei fedeli»; poiché esse sono «ricevute», o «infuse», come dice il Poeta. E solo mediante l’operazione dello Spirito Santo può compiersi quell’elevazione a Dio della vita umana, cui l’Autore efficacemente si riferisce nell’ultimo verso della lirica, e che idealmente spiega molto bene la nota preghiera francescana: «Chi se’ tu, che sono io?»[13].

Se il Saluto inizia con la «Signora» e finisce con «Dio», vuol dire che esso contiene la fede francescana – che qui è ispirazione poetica – nella funzione mediatrice e ispiratrice di Maria. Di essa, testimonianza biografica è la Porziuncola, ricordata da tutti i biografi e scultoreamente da Bonaventura: «[…] amò questo luogo più di ogni altro nel mondo»[14]. Qui Francesco riteneva avvenuto l’inizio dell’Ordine e, ricorda san Bonaventura, «per i meriti di lei». A parte la devozione universale del Medioevo verso la Madonna, qui c’è da rilevare la ragione specifica della pietà e dell’ammirazione di Francesco per la Madre di Dio.

Dai «dicta» di san Francesco consta che egli soleva attribuire a Maria l’aggettivo «poverella». Egli «non poteva pensare senza piangere in quanta penuria si era trovata in quel giorno (del Natale) la Vergine poverella»[15]. Una volta, mentre mangiava, Francesco, ricordandogli un frate «la povertà della beata Vergine», scoppiò a piangere e continuò a consumare «il resto del pane sulla nuda terra». È, questo, un pianto non di compatimento, né solo di compassione, ma di compenetrazione e partecipazione all’affettuosa sofferenza e privazione accettate da Maria, insieme con Gesù, per l’uomo. Spiegando l’amore di san Francesco per la povertà Bonaventura lo giustifica riportando l’idea del Fondatore: «perché la si vede brillare così fulgidamente nel Re dei Re e nella Regina sua Madre»[16]. Ma dobbiamo anche segnalare, entro il contesto globale della mentalità francescana, quello che il medesimo Bonaventura premette al brano citato: il rapporto fra «le ricchezze della semplicità» e l’«altissima povertà», grazie al cui «amore» la semplicità si nutre e cresce autenticamente. «Povertà» e «umiltà» sono, nelle Lodi delle virtù, 2, «sorelle» fra loro, e vengono subito dopo la «santa semplicità», «sorella» primigenia, «pura e santa», addirittura della «regina sapienza» (v. 1), e ad essa è attribuito di «confondere ogni sapienza di questo mondo e la sapienza della carne» (v. 10). Noi riteniamo che proprio nelle composizioni, in se stesse, di Francesco si imponga, nell’amore per la povertà ammirata nella Madonna, tutto il valore spirituale e letterario di quella ricca «semplicità», la quale si manifesta nell’immediatezza dell’ispirazione, estetica e religiosa insieme, e si concreta nell’uso della parola come «necessità»[17], per dirla con il Getto. In questa «necessità» c’è l’urgenza, ma anche il rispetto, c’è l’ammirazione, ma anche il pudore.

È ragionevole pensare che il giovane Francesco, appena smesso l’abito secolare, e quando fu colpito dal «misero stato» della chiesa di Santa Maria degli Angeli, abbia congiunto nel suo vissuto la povertà e la Madre di Dio[18]. Non è forse ozioso confrontare la descrizione di questa «antica chiesa in onore della Beata Vergine Maria Madre di Dio», chiesa «ormai abbandonata e negletta», «trascurata e abbandonata[19], con le vicissitudini della povertà scolpite mirabilmente nel Paradiso, XI, 64-66. Qui si riscontra l’attribuzione «dispetta e scura» che, se non lessicalmente, senz’altro semanticamente collega la condizione della «povertà», sposa di Francesco, con la chiesa, in cui avvenne il matrimonio.

Ma ben più vasta è la simbologia, insinuata dalla poesia dell’Autore dello Specchio di perfezione, fra la Porziuncola e la Chiesa di Dio: «Era tutta in rovina e Francesco la restaurò»[20]. Ciò è detto della chiesetta, ma corrisponde, strutturalmente, al noto comando divino: «Francesco, va’, ripara la mia casa, che, come vedi, va tutta in rovina»[21]. Secondo i biografi, l’invito era da intendersi nel senso della Chiesa spirituale, «che Cristo acquistò con lo scambio del suo

sangue, come lo Spirito Santo gli (a Francesco) avrebbe insegnato ed egli stesso (Francesco) in seguito avrebbe rivelato ai suoi intimi». La citata poesia dello Specchio di perfezione, indicando i diversi fatti avvenuti in «Santa Maria degli Angeli», vi annette, come tutti gli altri biografi ma con una sottolineatura particolare, l’inizio della conversione di Francesco, la «rinascita» della povertà, l’umiliazione della «vanagloria», la glorificazione della Croce, la «pace», la consolazione dello «spirito». Ora, questa accentuazione, oltre alla ritmicità innodica, riveste una simbologia lirica così generalizzata, che è difficile non scorgervi un profondo riferimento alla stessa «Maria regina» degli Angeli. La chiesetta sembra essere, nella composizione citata, in primo piano, ma come significante, e la Madonna essere, invece, in primo piano come significato.

Se è così, l’Autore dello Specchio di perfezione sembra aver interpretato, con biografico dispiegamento di ricordi, l’enunciato del Saluto di san Francesco: «Tu in cui fu ed è ogni pienezza di grazia e ogni bene», «in qua fuit et est omnis plenitudo gratiae et omne bonum». La «pienezza di grazia» è un titolo che risale al saluto evangelico, entrato con ovvietà nella tradizione letteraria mariologica, fra cui quella dei Laudari, sì che Jacopone inizierà la lauda sull’Incarnazione proprio con: «Ave Maria, gratia piena». E se anche il termine «plenitudo» è ereditato, questa volta da san Paolo, benché in un insieme stilistico del tutto personale al Poeta d’Assisi, la seconda parte del verso citato ha un sapore ed una caratterizzazione del tutto francescana: «et omne bonum».

Il «bene» sta, fondamentalmente e teologicamente, per «Dio», che è «pienezza di bene, totalità di bene, completezza di bene […], che solo è buono, misericordioso e mite, soave e dolce, che solo è santo, giusto, vero e retto, che solo è benigno, innocente e puro»[22]. Ma, anche, il termine sta ad esprimere l’idea dell’essere in Dio, con Dio e da Dio, poiché «tutti i beni sono suoi e di tutti rendiamo grazie in quanto procedono tutti da Lui»[23]. È da Lui che « viene ogni bene»[24]. Ordunque, poiché è da «attribuire a Lui ogni bene»[25], allora il saluto a Maria è anch’esso una lode a Dio. Tuttavia, ella è l’unica, dopo Dio, cui sia attribuito il bene. E ciò non solo nel senso che ella ebbe ed ha, come madre di Dio, la fonte di ogni bene («Tu in cui…»), ma anche nel senso che ella è tale bene, in forza di un privilegio divino dovuto all’«elezione», cui il Poeta fa riferimento in questa stessa parte della lirica. In tal modo Maria si offre, nell’ispirazione poetica di Francesco, come il modello di ogni virtù, l’esempio di ogni bene.

L’espressione jacoponiana, «Per grazia fusti eletta»[26], coerente con la lirica mariana del ‘200, ha in Francesco una formulazione più semplice ma non meno decisa, per il rapporto con la causa efficiente che è Dio. Con estremo rigore teologico, nonostante l’apparenza «ingenua» del Santo, e comunque nella potenza dell’intuizione poetico-estatica, l’Autore riferisce l’«elezione» al «santissimo Padre celeste», inizio e fonte trinitaria di ogni «elezione» originaria, compresa quella di Gesù. «Con» il Padre, il «santissimo Figlio diletto» e lo «Spirito Santo Paraclito» completano e consumano l’elezione mediante la «consacrazione». Il Poeta non si sofferma sui rapporti di Maria con la Trinità, pur menzionati dalla patristica e dai Laudari; egli sottende tali rapporti nell’enunciazione dell’opera trinitaria stessa: quanto è necessario, e sufficiente, per fissare poeticamente e con sobrietà tale «consacrazione» di Maria.

Lo stesso discorso poetico e teologico vale per la «Reina rosa aulente», per dirla con Jacopone da Todi. Molte sono le Laudes del ‘200 che insistono sia sulla regalità, sia sulla «florealità» della figura mariana[27]: e ciò imprimerà, letterariamente, un carattere alla figura stilnovistica della donna[28]. Ma, anche in questo caso, Francesco è essenziale. L’elogio è tutto fondato, e risolto, nel rapporto trinitario visto dalla parte di Dio. In tale raffigurazione si nota tutta l’attenzione del poeta alla sostanza della santità di Maria e la sua pura contemplazione senza travalicamenti retorici. Il «Benedetta infra le donne» jacoponiano, che tanta suggestione, immaginificamente, offrirà alla poesia del Due-Trecento, è, in Francesco, scavato in un unico participio: «consacrata». Tuttavia, nell’«Antifona» dell’Ufficio della Passione del Signore san Francesco, biblicamente più dispiegato, anticipa stilisticamente il Dolcestilnovo[29]: «non vi è alcuna simile a te, nata nel mondo, fra le donne, dice l’Assisiate in modo più asciutto e «prosaico», ma più suggestivo ad esempio della lauda bolognese: «fusti a Dio tanto piacente – più che neuna altra mai sia»[30].

È su tale elezione e consacrazione che Francesco fonda la sua sicura e tenera fiducia nella Madonna. «In lei principalmente, dopo Cristo, riponeva la sua fiducia, e, perciò, la costituì avvocata sua e dei suoi. In suo onore digiunava con grande devozione dalla festa degli Apostoli Pietro e Paolo fino alla festa dell’Assunzione»[31]. È degno di nota che il termine «avvocata», che sarà invece molto comune nelle Laudes mariane, non compare nel testo francescano, nonostante la precisa concezione dell’Autore al riguardo. Anche in questo, Francesco si rivela il delicato amante quale è: non pensa a sé, pensa a lei. Ed è qui l’essenza dello spirito del «Poverello».

Anche la «regina», di cultura cortese e poi stilnovistica, come dimostra l’uso fatto dal Cavalcanti all’Alighieri, sebbene con termini sinonimici, non conosce in Francesco altra aggettivazione che: «santissima». Inoltre, tutti i titoli mariani del Saluto sono, sì, di dignità sovrana, ma di una dignità accogliente. Ella è «palatium», «tabernaculum», «domus», «vestimentum»; ella è ciò che contiene colui che la sublima.

Se è vero che i simboli sono biblici e patristici[32], il loro senso è tutto francescano. Il «palatium» – si badi bene: l’Assisiate non usa il termine «tempio», pur molto più diffuso e sacro! – non è il luogo della castellana, ingentilita dal possesso del palazzo. In Francesco, il «palazzo» è di Dio, «suo»: Maria trova dunque dignità nell’essere l’accoglimento di Lui. Come il «palazzo» è preso da Pier Damiani[33], il «tabernaculum» è preso, originariamente, da Esodo 26, 1. Esso indica la compiacenza di Dio fra gli uomini, e, nell’episodio della Trasfigurazione, la soddisfazione dell’uomo di stare con il Cristo. Ma in Francesco non manca il riferimento al «tabernaculum» eucaristico, il quale rivela, secondo il suo stesso pensiero[34], l’umiltà addirittura di Dio! Il «vestimentum» conferma questa umiltà, sia per la concezione francescana del vestire, sia per il sotteso rapporto all’Eucaristia.

«Ti saluto, sua ancella».  Anche questa è espressione tradizionale e usata, di origine ovviamente scritturistica e raccolta poi nel verso jacoponiano: «Sono l’Ancella del Signore». Ma, anche qui, l’umiltà della parola non emerge tanto nella definizione, quanto nella modestia dello stile. Con «sua ancella» è detto tutto.

Poi il saluto trapassa nell’atmosfera più dolce e familiare: «Ti saluto, sua Madre», parola che, nel testo latino, è con la lettera minuscola. Da notare che, oltre a quello di Dio e di Spirito Santo, l’unico sostantivo ripetuto una seconda volta nel Saluto è «madre». Non v’è dubbio che ciò connoti accenni alla misericordia materna, con reminiscenze autobiografiche. La madre di Francesco fu comprensiva e compassionevole con lo strano figlio[35], e Francesco stesso ricorderà proprio l’amore «materno» come quello cui deve ispirarsi l’affetto tra i frati[36]. È indicativo che tale richiamo sia stato lasciato nella Regola bollata e ripreso dalla Bolla di papa Innocenzo IV; sta di fatto che una lauda mariana del ‘200, di Garzo dall’Incisa, dirà che la «natura della Madre» è di «compiacere al fiolo in ogni cosa». Francesco sottolinea dunque con ciò sia l’obbedienza di Maria a Dio, nella cui sottomissione egli faceva consistere l’essenza della santità, sia la sua capacità misericordiosa nei confronti dell’uomo, nella quale egli faceva consistere l’essenza del ruolo gerarchico nel suo Ordine[37].

Teologicamente, la Salutatio glorifica la grandezza di quell’umiltà, esemplificata nell’ancella per antonomasia, che è espressa ripetutamente negli scritti del Santo: «secondo il beneplacito di Dio». Questo atteggiamento, pur in tutt’altro stile, infonderà alla poesia dei francescani, fra cui lo stesso austero Jacopone, un tono di umanità e di soavità, forte, senza debolezze. Ma, indirettamente, il Saluto di Francesco ha un’altra eredità: il «saluto» dolcestilnovista, ben diverso ideologicamente ma soffuso di quell’alone soave, specialmente nell’Alighieri, che rimanda in parte alla spiritualità francescana[38].                                                                                  Francesco di Ciaccia

 

[1] Per il testo in traduzione italiana, cfr. Francesco Mattesini, Scritti di Francesco d’Assisi, in Fonti Francescane, Assisi 1978, p. 176. Testo latino in Opuscula S. P. Francisci Assisiensis, a cura di Caietanus Esser, Grottaferrata 1978, pp. 299-300. Per tutte le citazioni in tr. it. degli scritti francescani e degli scritti biografici, cfr. le stesse Fonti Francescane.

[2] Laude mariane, in Mustafia, «Sitzungsberichte d. Kaiserl. Akab. d. Wissenschaften», apr.-mag. 1864, pp. 191-196. Lo stesso discorso si può fare per Jacopone da Todi, nell’Ave Maria, gratia plena, che pure, soprattutto nella canzone Maria Vergine bella ha recepito tanto dell’insegnamento francescano.

[3] Per l’ideologia della poetica «cortese», cfr. A. Hauser, Storia sociale dell’arte, Torino 1955, pp. 318-331; G. Dugy, L’arte e la società medievale, Bari 1977, pp. 318-321. – La conoscenza di Francesco della cultura provenzale è nota; per l’aspetto specifico del «cavalierato», si ricorda Leggenda perugina, 71, Specchio di perfe-zione, I, 72.

[4] De ve salve, virgina Maria, in E. Monaci, Crestomazia italiana dei primi secoli, II, Città di Castello 1889-1912, p. 456, vv. 20-21.

[5] Ammonizioni, I, 16.

[6] Solo per fare un esempio, cfr. Ufficio della Passione del Signore, Vespro di Natale, 3: «(che) nacque dalla beata Vergine Maria».

[7] Si consideri, ad esempio, la strofe jacoponiana di Ave Maria, gratia plena, vv. 41-45: «Or da noi si crede e legge – Che vergine concepesti – e vergine partoresti, e po ‘l parto permanesti – Verginella al santo Sposo», che è teologica, ma pesante.

[8] Bonaventura, Leggenda maggiore, II, 8; cfr. anche Tommaso da Celano, Vita Seconda, CL, 198.

[9] Maria Vergine bella, vv. 31-32.

[10] Lauda cit., vv. 62 e 58.

[11] Leggenda maggiore, III, 1.

[12] Laudes B.M. Virginis, v. 16, in G. Mariotta, Lirica mariana, Torino 1932, p. 24.

[13] Fioretti di san Francesco, «Della seconda considerazione delle sacre sante Istimate».

[14] Leggenda maggiore, II, 8.

[15] Tommaso da Celano, Vita Seconda, CLI, 200. Stessa referenza per la citazione successiva.

[16] Leggenda maggiore, VII, 1; cfr. anche Leggenda perugina, 3.

[17] Letteratura religiosa dal Due al Novecento, Firenze 1967, p. 35.

[18] Tommaso da Celano, Vita prima, IX, 21, per le due referenze.

[19] Idem, Ibidem; cfr. anche Bonaventura, Leggenda maggiore, II, 8.

[20] Specchio di perfezione, IV, 84.

[21] Bonaventura, Leggenda maggiore, V. Stessa referenza per la cit. successiva.

[22] Regola non bollata, XXIII, 28-29. Cfr. anche Lodi per ogni ora, 10.

[23] Regola non bollata, XVII, 17.

[24] Commento al «Pater noster», 4.

[25] Parole del Santo in Tommaso da Celano, Vita Seconda, XCVII, 134.

[26] Maria Vergine bella, v. 25.

[27] Ad es., «fresca rosa sì vermiglia», «roxa del giardino», in Ave, verzene Maria, v. 12, in Regola dei Servi della Vergine gloriosa, Bologna 1281, pubbl. da G. Ferrero, Livorno 1875. Cfr. tuttavia anche Garzo dall’Incisa. Per Jacopone, Ave Maria, gratia plena, v. 61.

[28] Cfr. G. Guinizelli, XV, 2; G. Cavalcanti, III, 1; V, 7; VI, 1: «rosa novella»; Lapo Gianni, V, 1.

[29] Ad esempio, già in G. Guinizelli, XIV, 7-8: «Non credo che nel mondo sia cristiana – sì piena di beltate e di valore». In Cino da Pistola, XLIX, 51: «v’elesse Dio fra gli angeli più bella»; XLVI, 21: «Non po’ dir né saver quel che simiglia». In Lapo Gianni, IV, 6: «il novo esemplo ched ella simiglia».

[30] Ave, verzene Maria, cit., vv. 21-22.

[31] Bonaventura, Leggenda maggiore, IX, 3.

[32] Stanislao da Campagnola, Introduzione alle Fonti Francescane, cit., p. 84.

[33] Sermo de Nativitate B.M. Virginis, in Archivum Franciscanum Historicum, 20 (1927) pp. 13-14.

[34] Lettera al Capitolo generale e a tutti i frati, II, 36.

[35] Cfr. Tommaso da Celano, Vita Prima, VI, 13.

[36] Cfr. Regola bollata, VI, 10.

[37] Cfr. Lettera ad un ministro, 8-11, uno dei più lirici brani, in prosa, di Francesco d’Assisi.

[38] È una tesi, questa, che andrebbe studiata a parte.

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