1983, FF, La pace secondo san Francesco

La pace secondo San Francesco d’Assisi, «Frate Francesco», 4 (1983) pp. 241-254.

Testo dell’Articolo

Il «ricordo» della pace

La preghiera, attribuita a san Francesco e accolta «trionfalmente in tutto il mondo» (1): «Signore, fa’ di me uno strumento della tua pace», è significativa per la sua stessa falsa attribuzione, congiuntamente al periodo in cui essa è stata composta: la prima guerra mondiale.

Nel Testamento Francesco d’Assisi inserisce, con una variante, quel «saluto» di pace che era gi nelle Regole (2). Nei testi legislativi, esso, con citazione di Luca 10,5, è indicato con un congiuntivo esortativo, il quale, per il genere stesso dello scritto, ha valore di imperativo morale. Ma, mentre l’esortazione fa seguito, nella Regola bollata, III, 11, ad un brano di espliciti inviti, nel Testamento, 27, forse proprio perché non vincolante legislativamente, il «saluto» è connesso ad una «rivelazione». Nello stesso Testamento, 8 e 16-17, l’autore attribuisce, direttamente o indirettamente, altre scelte all’ispirazione divina, di cui la fondamentale è «vivere secondo la forma del santo Vangelo». In altri casi, invece, il testatore si richiama di fatto alla propria autorità, anche per impegni di fondamentale rilievo, quali la povertà, l’obbedienza, la fedeltà alla Chiesa {Testamento, 28-29). Se è vero che, circa il «saluto» di pace, l’autore parla in qualità di privato – e la stessa conversione «a vivere secondo la forma del santo Vangelo» si inscrive, nel Testamento, in una storia individuale –, mentre contenuti richiamanti norme legislative era logico avessero una formulazione più perentoria anche nello scritto privato, ciò tuttavia non spiega tutto. Infatti, non solo il «non volevamo aver di più», ma anche l’opera di redigere, «con poche parole e semplicemente», la nuova esperienza evangelica sono riferiti, nel Testamento, 21 e 10, a decisione puramente umana e personale. Si capisce facilmente che è l’umile e saggio realismo del «Poverello» – diverso da tanti profetismi un po’ presuntuosi e sicuri di sé – ad impedirgli di attribuire a rivelazioni, in qualche modo d’eccezione, le proprie istanze spirituali. Ma neppure questa spiegazione è completa: proprio perché, in alcuni casi, invece, egli fa riferimento ad una ispirazione del Signore.

Riteniamo di poter concludere, dunque, che la ragione di fondo del ricordo della «rivelazione» dipenda dal fatto che il «saluto di pace» sta, rispetto alle diverse altre esperienze pur importanti e ai vari inviti pur essenziali, nello stesso rapporto del «vivere secondo la forma del santo Vangelo»: cioè, come fondamento originario e come dimensione totalizzante. E, in quanto tale, come vocazione non ingiungibile (3).

Se per Francesco la povertà non vale, in sostanza, come una delle varie «virtù» particolari, ma come radicale compimento morale del «fattosi povero» cristologico, lo spirito di pace è la possibilità di quella «incarnazione» di povertà, e viceversa.

Si comprende allora come la pace sia «alle radici, ideali e storiche, del movimento che da san Francesco prese il nome» (4), e che, a parte anche l’eredità scritturistica delle sue formule espressive, le quali possono essere state intese, per tale motivo (5), «rivelate», essa si impone come originale «novità» (6) della riproposta evangelica dell’Assisiate. Tale originalità, evangelicamente «rivelata», è tradita, ad esempio, dalla fedeltà e costanza con cui le Costituzioni cappuccine rammentano questo «ricordo» del Testamento quando ordinano l’«evangelico saluto» (7).

Ancora nel quadro di presentazione, rileviamo che nel Testamento la «rivelazione del saluto» segue immediatamente l’esortazione a chiedere, quando non venga data la «ricompensa del lavoro», «l’elemosina di porta in porta». Il testo trapassa, dal resoconto narrativo, ai consigli per il futuro. Mentre ciò è comprensibile – la «porta» evoca il «salutare» –, non lo è, a prima vista, il repentino mutamento di impostazione del prosieguo, il quale contiene ammonizioni circa la povertà delle chiese e delle abitazioni. In parallelo ai numeri 23-26 – nei quali il testatore, ricordato il lavoro come mezzo, da lui assunto, di sostentamento, lo propone di conseguenza ai frati –, ci si aspetterebbe anche per il «saluto» una cordiale esortazione. Invece no. La spiegazione non sta dunque, totalmente, nell’associazione spontanea tra casa e saluto, ma tra la pace e la povertà umile.

Nelle Regole, il saluto di pace è connesso al «non portare niente», al «mangiare e bere quello che ci sarà», al «non resistere» al malvagio (Regola non bollata), al «non litigare» e «non giudicare», all’«essere miti, pacifici, mansueti e umili», ancora alla rinuncia al superfluo cavalcare e, di nuovo, con intento legislativo, a «mangiare di tutti i cibi che saranno presentati» (Regola bollata). Tutto ciò, nell’insieme, significa disponibilità ad accettare così l’offerta del perdono come il rifiuto del necessario («se non ci fosse dato… »): del tutto aliena da ogni narcisistica passività, siffatta impostazione è quella della povertà come pura e semplice offerta del proprio servizio nella pace. Tolta la ragione del proprio diritto è tolta l’occasione non solo del litigare, ma anche del giudicare: perché solo per amore si può ricevere e si può dare, in una dimensione di pace perfetta.

Ma non sono anche gli altri, essi stessi, nella medesima condizione di principio, di non possedere cioè alcuna cosa se non per amore, tenuti quindi, essi stessi, a disporre di tutto a vantaggio dei fratelli, per lo stesso amore, in servizio fraterno al Signore? Certamente. Ma il punto è proprio questo: o il principio della povertà della pace è tenuto fermo nonostante le prevaricazioni, o esso si converte in una strategia «politica» che di quel presupposto fa un uso conflittuale, uno stratagemma che, comunque, non rende povero nessun uomo e servizievole nessuna società. Ben è vero: questa pace è un’occasione propizia per chi vuole, approfittandone, sfruttare il prossimo: ma è anche vero che essa sola – felicemente operativa come vedremo – invece che assistere all’avvicendamento sulle poltrone dei prepotenti – qual è l’obbiettivo delle politiche che pur proclamano la «pace» –, può cambiare davvero i prepotenti (8). Il saluto di pace, dunque, non è relativo ad un bene ricevuto (9), e, se è contro-offerta di un rifiuto, veramente realizza la pace. La giustizia non si dà senza una forza che vinca l’ingiustizia: e questa forza è la pace.

La riscoperta del saluto di pace, anche se in esso «si esprime uno dei grandi impegni missionari di Francesco e dei suoi frati» (10), apostoli «della pace e del bene» (11), non è di Francesco d’Assisi. Per esempio, l’aveva imposto ai monaci già Benedetto da Norcia, ma rapportato ad un contesto favorevole con il prossimo (12). La medesima istanza evangelica era contemporanea in Domenico di Guzman (13); ma solo in san Francesco la pace si erige a «vocazione», catalizzando l’attenzione dei più antichi scrittori (14). Infatti, se essa ha pur sempre una connessione generale al rapporto con Dio e al frutto dello spirito del Signore (15), coltivato nella tranquillità interiore già raccomandata dal Concilio di Calcedonia (l6), in Francesco ritrova la sua ampiezza di implicazioni e di esiti.

Essendo «la pace di tutte le cose la tranquillità dell’ordine» (17), e implicando un rapporto (intersoggettivo) esente da violenza, essa si rappresenta come «conciliazione» delle entità diverse, permettendo a ciascun soggetto una «adeguata» collocazione secondo la sua natura o personalità (18). Questo concetto, già classico, pur teoricamente esatto, non sfugge alla relatività dell’idea di «ordine», e difetta inoltre di una universalità della costituzione del «ruolo» in cui ciascuno debba consistere. In effetti, dopo Cartesio (per ricordare solo alcuni momenti precipui), messa in crisi l’eguaglianza e la differenza metafisicamente fondate, la pace venne a configurarsi come «coesistenza (tra) esseri posti (…) su uno stesso piano»: in una teorizzazione per, tutto sommato, di congiunturale difesa degli interessi individuali (19).

Anche l’apporto «nuovo» del cristianesimo, grazie al quale nasce l’idea, non più semplicemente politica, «di una pace universale», assicurata al contempo dall’«esercizio quotidiano della giustizia» e non soltanto dal «superamento della guerra» (20), risulta una possibilità vanificata o mortificata, se non garantisce tutte le sue istanze e non realizza tutti i suoi fattori.

«Questo semplice saluto (di pace), che sembra quasi ingenuo, ha profondamente colpito i discepoli e i contemporanei di san Francesco» (21): c’era quindi qualcosa che impediva di coglierne la semplicità. E non solo allora. «forse sette secoli di storia francescana in Oriente hanno bene dimostrato quanto sia difficile (…) vivere in ‘pace’ con tutti; e non sempre i figli di san Francesco vi sono riusciti» (22).

Nell’Assisi del ‘200, i conflitti erano, anche allora, economico-monetari, erano guerreschi, tra città e città e fra città e poteri centrali, tra «majores e minores» (23), risoltisi, questi, in fin dei conti con il cambio del dominio feudale dei «boni homines» con il dominio comunale al quale tutti, come «cives», erano sottoposti nell’eguale figura di «liberi-vassalli»: e, storicamente, questo è già molto. Ma la reazione della gente al saluto francescano turbò i frati stessi: segno che quella pace, augurata dietro indicazione del «pazzerello» d’Assisi, trascendeva anche ogni forma di concordia sociale. Francesco colse allora l’occasione, secondo la Leggenda perugina, per pronosticare la futura «riverenza» del mondo verso i frati dipendente, addirittura, da questo saluto così semplice – che egli avrebbe poi usato anche «prima di cominciare la parola di Dio al popolo» (24) –, e lo Specchio di perfezione ne introduce, nel medesimo episodio, l’elemento qualificante: la «minorità» del «piccolo popolo» (25), il «non possedere nulla» se non «Lui solo». Non era dunque solo questione di disabitudine degli Assisani al discorso di «pace»: era questione di impostazione del problema della pace.

Il santo si trovava a Rivotorto, presso cui doveva passare Ottone IV (26). Francesco non mosse un piede per incontrarlo, né lo permise ai frati. La noncuranza ascetica produrrebbe il silenzio; invece Francesco parla, e manda un frate ad annunciare con fermezza all’uomo del potere la fugacità della gloria. Non si tratta tanto di insegnare la vanità del mondo, come interpreta il Celano, e ancor meno di mortificare un uomo (27); né è decisiva l’ipotetica intenzione celaniana di mostrare un Francesco preveggente: l’azione di Francesco va alla radice della stessa attitudine ascetica, in quanto egli avverte, di fronte alla «corona della terra», che non è per essa che nasce la pace ed il bene, ma soltanto e formalmente in grazia della «dimora» che è il «cuore». Non a caso il Celano, forse inconsapevolmente, contrappone nel racconto la corona dell’imperatore e il tugurio di Francesco: il mondo è la «regio dissimilitudinis» (28); «l’uomo buono davvero» (29), che non vuole nessun possesso è l’esatto opposto del punto di vista del potere.

 

Il senso della pace francescana

La pace è nel «cuore»: un’idea individualistico-medioevale, una tranquilla alienazione dalla pace reale. Tutto al contrario.

Agli inizi della sua conversione Francesco, per «lasciar tempo all’ira» del padre, si nasconde in una fossa. A parte la formulazione scritturistica, lo stratagemma, pur «vile» – dichiareranno Francesco e poi Bonaventura –, avverte che affrontare un «animo sconvolto» (quale era di un Pietro di Bernardone) con animo sconvolto non conduce al superamento dello sconvolgimento dell’ira (30). Il primo necessario, non definitivo però, atto di pace è vincere, in prima istanza, non già l’opposizione altrui, ma la propria reazione.

Creare «tutto un terreno di concordia nella (…) (propria) vita» (31) è pregiudiziale per il superamento delle dinamiche di «tornaconto» che originano il conflitto. Del lebbroso guarito (32), i Fioretti sottolineano l’amarezza del poveraccio «incomportabile» e protervo, addirittura perverso. A lui Francesco augura: «Iddio ti dia pace, fratello mio carissimo». Ma non è nelle parole la efficienza della pace: è nella volontà servizievole, contro ogni ragionevole giudizio: «Ci che tu vorrai, io farò». Ti laverò le piaghe, ascolterò i tuoi sdegni, come tuo servo, e tu come mio signore: anche se tutto fosse inutile. Il prosieguo dei Fioretti potrebbe essere leggenda; ma non questo: lavare un lebbroso è possibile senza amore, per un ragionevole interesse, ma obbedire «carissimamente» ad un uomo fatto fratello non è possibile senza amore.

Il medesimo spirito informa sia il comando di mangiare ciò che sarà loro (ai frati) posto innanzi, sia la disponibilità a «fare ciò che tu vorrai». La pace non si inizia con le chiacchiere (33).Perciò Francesco capì la pace, ancora all’inizio della sua nuova vita, accostando il lebbroso gratuitamente: donare, in questo modo, è ricevere (34). Cioè, ricevere nulla, che è il principio della pace: se non la possibilità di donare. Per questo il Vangelo di Matteo e la Leggenda dei tre compagni, là dove parlano del saluto e della «vocazione» di pace, introducono il curare gli infermi e le ferite, e ricordano la povertà. Umiltà, povertà, carità e pace sono tutt’uno. La pace esige la penitenza della «crescita spirituale» ed una longanimità armata di pazienza: «A furia di sopportare quell’intrattabile cavaliere dal carattere insopportabile, Francesco ristabilì la pace fra tutti» (35). «Se uno percuote i frati su una guancia, essi gli offrano l’altra(36). Dalla prima esperienza, giovialmente naturale, l’Assisiate è passato alla violenza della pace, che è trasgressione di segno esattamente contrario alla offesa.

Nel contesto di Matteo, da cui ricavata la citata ammonizione francescana, in un discorso sulla pace, compare, all’inizio di tutti i presagi e avvertimenti («guardatevi da»), di tutti gli esiti (il «giorno del giudizio», il fratricidio, ecc), il saluto: «Pace a questa casa», con il seguito sublimemente pacifico: se la casa è atta a riceverla, la riceve; se non lo è, la pace non si perde. Ritorna su di voi. Ora, questo ritorno presuppone, quanto meno, che il rifiuto della pace non stimoli la guerra nel cuore dei discepoli. Né devono «adirarsi», avverte l’Assisiate, né «giudicare» neppure coloro che vivono nel lusso e nel fasto (37). Ciò non vuol dire chiudere gli occhi di fronte alle differenze; è, invece, rifiutare di rispondere alle differenze, che offendono, con l’offendere, e cioè è respingere il criterio stesso della prevaricazione. «Ma piuttosto – continua la Regola bollata – ciascuno giudichi e disprezzi se medesimo»: per escludere, all’origine, senza autolesionismi, che il cuore si chiuda alla pace con l’uomo.

La pace, che non sia cerebralità o tattica politica, ha inizio con il compagno a fianco: «E non litighino tra loro né con altri», «ma siano miti, pacifici e modesti, mansueti e umili (…)» (38): in sintesi, siano «piccoli» e «servi inutili». Nell’episodio dell’«anziano» povero mendicante Bartolomeo (39), forse il Celano stesso non ha avvertito che il punto forte del racconto non è la guarigione, mail saluto di pace che anticipa tutto il seguito. La guarigione è importante in quanto procede da un affetto di pace (40), in quella dimensione di dolcezza pacifica – quale, ad esempio, individuata in un Giovanni XXIII (41) – da cui scaturisce la dolcissima «benedizione» di Francesco ad uno dei fratelli più prossimi, frate Leone pecorella di Dio, così come l’augurio di pace ai Superiori e ai fedeli: tutti inclusi nella delicatezza di un «Angelo della pace» (42).

L’episodio dei ladroni (43) mostra che la pace, come metodo da seguire, è una diffusione di bene operata dalla «fraterna carità» attiva e rivoluzionaria (44). Qui valgono solo alcune osservazioni. I frati che credettero opportuno dare l’elemosina ai briganti lo facevano per compassione e sperando di indurli a penitenza, dice lo Specchio di perfezione. La compassione è all’origine del perdono e della pace, e la Leggenda perugina la motiva con l’umiltà della richiesta dei ladroni «sospinti da grave necessità». Ma per la pace perfetta non basta mettersi nei panni altrui: è necessario togliere positivamente la differenza. Ciò, ancora una volta, non significa appiattimento delle trasgressioni – il quale deriva da una generalizzazione vanificante delle responsabilità –, ma identificazione fraterna, che toglie la differenza nell’umiltà del servizio obbediente (per il quale Gesù, essendo senza peccato, si fece peccato, con umiltà, per i fratelli). «[…] Venite», siamo anche noi «vostri fratelli», disse Francesco ai ladroni. Oltrepassata anche la compassione commiserevole, è posta la «fraternità» per la quale la dualità è tolta nella paternità di Dio (45). Il resto è relativo, inventato di volta in volta dall’intuizione di pace: invitare i briganti dai frati, che lietamente e umilmente li servono: buon pane, vino buono, tovaglie (un’eccezione per la prodigalità della pace!), poi uova e cacio, ma soprattutto gioia e letizia. La «conversione» è conseguenza, non scopo della pace: tanto più efficace quanto più la gioia del servizio è limpida e senza scopo. In questo senso la pace di Francesco, che è «de li santi» e «reconcilia li homini» (46), è radicalmente il riconoscimento del «fratello», per cui «tutti gli uomini sono in posizione di eguaglianza» di fronte all’Altissimo del Cantico delle creature (47): altrimenti l’uomo può rischiare di trovarsi strumentalizzato da sofisticate strategie di pace. Constatare l’offesa «bene-dicendo e bene-facendo» (48) è possibile se quanto meno l’uomo «non si turba e non si irrita di nulla, e men che meno degli errori altrui»: l’irritazione è un segno del possesso segreto di sé.

«In san Francesco la pace non è (né solo) armonia, (né solo) esperienza di pienezza interiore […]. La pace è Dio […], nel quale l’uomo (la) trova» (49) pienamente. Ed è perciò «aggressiva», in quanto radicale trascendimento dell’orizzonte dell’egoismo. Tale orizzonte ultimativo non è stato, a proposito di Francesco, abbastanza evidenziato da scrittori timorosi di «alienare» la dignità umana; ma, se la pace è «dell’umanità nel suo insieme» può essere garantita solo da una forza «esteriore» all’umanità stessa – poiché senza di essa si hanno solo «finzioni» di un «concetto vuoto» di pace (50) –, la pace francescana e cristiana, invece, universalmente intesa, ha questa garanzia.

Invece di soffermarci sulla pace operata dall’Assisiate a Bologna, Arezzo e Siena (51), segnaliamo, a proposito dell’intervento di Francesco nella lite fra il vescovo di Assisi ed il podestà, una espressione il cui valore affonda le radici oltre l’apparente disagio sociologico e di parte: «Grande vergogna per noi […]» (52). La pace è opera di tutti; la contesa è «vergogna» di tutti. La pace o è totale, o non è affatto. Notate: il podestà dichiara che il suo perdono è universale e assoluto (cioè non relativo al solo suo «signore», il «messer vescovo», ma «anche a chi mi avesse assassinato il fratello o il figlio», egli dice, e quindi non legato ad accorgimenti o vincolato a risarcimenti (così, almeno, nelle fonti francescane, e a parte le dinamiche storiche dei fatti). Per evitare le responsabilità delle contese e della guerra occorre saper perdonare, rammenta Giovanni Paolo II (53). Il vescovo, da parte sua, confessa la propria mancanza di umiltà, e riconosce, con ciò, che, in fondo, la conflittualità scaturisce essenzialmente dal di dentro, anche se è occasionata contingentemente da questioni oggettive, sulle quali in effetti non si fa che scaricare le ragioni interiori della discordia. Invece, l’uomo pacifico ha essenzialmente un atteggiamento di serenità e di fiducia nel domani, nell’umile coscienza della generosità di colui la cui «speranza non delude», e nella certezza di poter risolvere, perciò, le divergenze oggettive mediante il proprio servizio di comprensione umile e fiduciosa. Pertanto egli non dispera neppure dinanzi alle delusioni, quali, per la libertà dell’essere umano, hanno frustrato ad esempio anche l’opera di pace di Francesco a Perugia o di un Antonio di Padova a Verona (54). Ma, nel fallimento, Francesco ribadisce la dinamica della guerra, alla quale egli, anche se sconfitto, tuttavia non cede: tu, Perugia, credendoti superiore, ti arroghi il diritto di offendere!

La pace francescana è radicale nella rinuncia al solo rischio dell’offesa. Crediamo che si inserisca anche in tale ambito concettuale il rapporto stabilito dall’Assisiate fra povertà e pace: i beni conducono alla discordia per il loro possesso (55). Nell’episodio del pettirosso, che rompe la concordia perseguitando con superbia gli altri, più piccoli, perché, pieno e sazio lui, è invidioso degli altri fratelli affamati (56), è indicata l’intrinseca alienazione dallo spirito di pace: veder solo il proprio interesse, e costituire l’altro come antagonista, volendo aver di più invece che di meno, come ricordava Giovanni XXIII, o comunque volendo avere per se stessi senza riguardo agli altri, o addirittura contro gli altri. «Gelosia, malizia, rancore, diverbi, sospetti, amarezza» derivano dalla mentalità del possesso (raggiunto o da raggiungere, non importa), contro cui Francesco pone la povertà di sé e delle cose, presupposto della concordia unita alla serenità (57).

Non è dunque questione di «pauperità», ma anche di quella benevolenza per la quale Francesco ordinò: recandosi anche tra gli infedeli, i frati «non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio» (58). Il «gesto di pacificazione» (59) portato in Egitto costituisce il «superamento di ogni forma di fariseismo e di manicheismo che dividono sommariamente il bene tutto da una parte e il male tutto dall’altra». Avendo Francesco «sentimento di profonda stima di fronte a ciò che c’è in ogni uomo» (60) e cercando nel Sultano «la sua fede più profonda» (61), egli si faceva povero anche della fede, confessando il dono, non una proprietà privata, poiché nessuno possiede in proprio nessun bene, eccetto colui che è Buono.

Visto come la «bestia» dell’Apocalisse e «ministro dell’antico serpente», di una razza «perfida e corrottissima» (62), il musulmano è, all’inizio e alla fine di ogni considerazione, un fratello, per Francesco: il quale poté sostituire il colloquio alle armi, «far leva su ogni grammo di positività» che l’animo buono e pacifico sa capire, e rispettare la libertà (63) del fratello fino a obbedirgli, in tutto ciò che non fosse contro coscienza. Una pace siffatta «non è la vittoria di una parte, ma il superamento delle parti», e «dal cambiamento degli altri può sbocciare la pace» (64).

Non prendiamoci in giro. La pace di Francesco, coltivata nelle proprie stesse contrarietà e infermità, attinta nella preghiera tranquilla e raccolta, severa contro ogni causa di discordia, contraria alla ideologia dei «vincitori e vinti» (65), si contrapponeva, mostrando ai suoi fratelli la via della povertà e della pace, anche alla «arroganza della Chiesa che credeva di poter regnare (con la) ricchezza e (la) forza». Ma la violenta accusa degli errori della Chiesa – visto poi che, storicamente, essi si ripropongono, ma anche si superano sempre grazia a qualcuno cui il Cristo dice: «Va’, ripara… – non è un atteggiamento di pace (66).

Francesco non rompe con il «Costantinianesimo» (67) innanzitutto, ma rompe con il mondo, e, di conseguenza, con costantinianesimo pure. La radicale opposizione alla guerra sta nell’essere «uomini di purezza e di pace» (68), e se Francesco «ha sconvolto la coscienza cristiana» con il suo «approccio che smontava ogni spinta conflittuale e costruiva agganci fruttuosi di pace» (69), era perché aveva realizzato la pace «con Dio, con le cose, con le situazioni. Il tutto come maturazione umana». In questo senso completo, la pace è realmente uno dei valori globali vissuti da Francesco, sì che Jacopone poté definirlo per il saluto di pace che «en bocca gli è trovato» (70). A questa «legatio» (71) di Francesco – benché neppure lui, come ha detto giustamente David Maria Turoldo, esaurisca tutta la ricchezza del Vangelo – possono ancor oggi ispirarsi, come avvenne già per Pacifico, l’uomo e la società, poiché essa è «libertà completa dal male e progresso di bene» (72), è «la vittoria del valore sulla logica dell’interesse» (73). [Francesco di Ciaccia]

 

(1) K. Esser, Gli scritti di San Francesco d’Assisi, tr. A. Bizzotto e S. Cattazzo, Padova 1982, p. 72.

(2) Cfr. E. Esser, Il Testamento di San Francesco, Milano 1978, pp. 151-152 e 223. Le successive citazioni di Esser riguardano questa opera. Regola non bollata, XIV, 2; Regola bollata, III, 14.

(3) Cfr. A. Matanić, Presentazione e analisi storico-critica degli scritti di San Francesco, in AA.VV., Approccio storico-critico alle Fonti Francescane, Roma 1979, pp. 65 ss. Cfr. Giovanni Paolo II, Lettera ai Ministri Generali degli Ordini Francescani, in «Forma Sororum», 6 (1982) p. 303, il quale accosta Efesini 2,14 e la Lettera al capitolo generale, 1,14 di san Francesco.

(4) A. Matanić, Adempire il Vangelo, Roma 1967, p. 81.

(5) K. Esser, op.cit., p. 152. A. Matanić, Presentazione e analisi…, cit., p. 65: «Generalmente si crede che con questa frase lui indica proprio il Vangelo, non una rivelazione privata». Concordiamo con questa linea interpretativa, che tuttavia non contraddice le osservazioni sopra indicate.

(6) Cfr. Giovanni Paolo II, Discorso al popolo, in «Forma Sororum», 4 (1982) p. 31, che cita il Celano proprio per l’aspetto specifico della pace. Soprattutto grazie ad essa, possiamo forse dire, l’Assisiate «esercita tuttora un grande fascino sui lontani»: Giovanni Paolo II, Discorso alla C.E.I., loc. cit., p. 5.

(7) Le Prime Costituzioni dei Frati Minori Cappuccini, a cura di Catalano e Cargnoni, Roma 1982, p. 39, e l’edizione critica, a cura di G. Santarelli, p. 180. Per le successive redazioni, cfr. Constitutiones Ordinis Fratrum Minorum Capuccinorum saeculorum decursu promulgatae, vol. I, Romae 1980, rispettivamente: per quelle del 1552, p. 97; del 1575, p. 166; del 1638, p. 350; del 1643, p. 591.

(8) Cfr. G. Polidoro, La pace, Assisi 1983, p. 41.

(9) Cfr. il nostro art. La missione inutile della semplicità francescana nel fra Galdino manzoniano, ne «L’Italia Francescana», 1 (1983) p. 16.

(10) K. Esser, op.cit., p. 152.

(11) O. van Asseldonk, Francesco e i suoi seguaci come testimoni della gioia di Cristo, in AA.VV., Lettura spirituale-apostolica delle Fonti Francescane, Roma 1980, p. 149.

(12) È contemplato anche l’«osculum pacis» ai pellegrini, debitamente «oratione praemissa»: Regula Monasteriorum, cap. LIII. Divo Barsotti sostiene che, nonostante la probabile eredità del saluto francescano dal monachesimo benedettino, «la pace distingue la spiritualità francescana»: Le lodi di Dio Altissimo, Milano 1982, p. 98.

(13) Cfr. H. Vicaire, Storia di San Domenico, tr. A. Ferma, Alba 1959, p. 534.

(14) Leggenda dei tre compagni, 58; Bonaventura, Itinerarium mentis in Deum, prol.; Matteo d’Acquasparta, Sermo I Sancti Francisci, 2; Giuliano da Spira, antifona del Mattutino, v. 29; Rainerio Capocci, Plaude turba paupercula, vs. 6.

(15) D. Barsotti, op. cit., p. 99, che cita la Regola non bollata, XVII, 15. È ovviamente sottesa tutta la teologia della pace, secondo cui essa è vocazione universale (Colossesi 3,15) e possesso dei figli del regno (Romani 14,17), da donare (Matteo 10,12; Romani 12,18) scambievolmente (Marco 9,50). Cfr. anche Giovanni 14,27 e 16,33; Matteo 5,9.

(16) Canone 4, in Mansi, Conc. Coll., VII, p. 360. Il riposo temperante di Francesco per «ritrovare la pace» è in prospettiva diversa dal «quietismo» esicasta. Cfr. Specchio di perfezione, 84.

(17) Agostino d’Ippona, De civitate Dei, 19,13.

(18) B. Manin, Pace, in Enciclopedia, Einaudi, Torino 1980, vol. 10, pp. 297 e 296.

(19) Cfr. Idem, ibidem, p. 307. Da qui, il «contrattualismo». Non prendiamo in considerazione, in questa sede, le immagini della pace emerse nel liberismo e nell’illuminismo alla Montesquieu, perché palesemente difformi dalla presente tesi.

(20) E. Ruffin, in Nuovo dizionario di spiritualità, Roma 19792, p. 174. Sul «nuovo» apporto del cristianesimo, cfr. B. Manin, op. cit., p. 305, L’autore spiega la «teocrazia» in questa ottica di «pacificazione» politica: ibidem, pp. 304-305. Quanto a Kant, è certo che la sua concezione di «pace universale» ha radici nell’istanza cristiana.

(21) K.Esser, op.cit., p. 151. Cfr. Leggenda perugina, 67 e Specchio di perfezione, 26. Cfr. O. Schmucki, San Francesco d’Assisi messaggero di pace nel suo tempo, in Studi scelti di Francescanesimo, 5, Napoli 1976, pp. 7-24.

(22) Citiamo da G. Basetti-Sani, Per un dialogo cristiano-musulmano, Milano 1969, p. 424. (Benché io capisca che il problema è complesso, credo tuttavia che, se lo Spirito Santo fosse stato, come voleva l’Assisiate, Ministro generale dell’Ordine, l’Ordine sarebbe stato migliore. Nazareno Fabbretti mi permetterà umilmente questa mia battuta «idiota», contro la sua indicata ne Il buon senso uccide l’utopia, in AA.VV., Francesco un «pazzo» da slegare, Assisi 1983, p. 328.

(23) Cfr. G. Mira, Aspetti di vita economica nell’Assisi di San Francesco, in AA.VV., Assisi al tempo di San Francesco, Assisi 1978, p. 167. Circa la guerra di cui Francesco conobbe gli «orrori», cfr. R. Garaudy, Per un dialogo delle civiltà, in Francesco un «pazzo» da slegare, cit., p. 208. Per tutta la questione storica della «concordia» del 1210, che non dipese dall’opera di pace di san Francesco, cfr. A. Bartoli Langeli, La realtà sociale assisana e il patto del 1210, in Assisi al tempo di San Francesco, cit., pp. 310-311.

(24) Tommaso da Celano, Vita prima (sigla I Celano), 23; Bonaventura, Leggenda maggiore, III, 2. Cfr. Leggenda dei tre compagni, 26 (che ricorda la «rivelazione» ricevuta dal santo).

(25) Il rapporto tra «minorità» e il «piccolo popolo» è anche nella Leggenda perugina, 67, ma richiamato prima dell’episodio del «saluto di pace». La connessione fra «apostolato della povertà e (quello) della pace» è stato sottolineato anche da R. Garaudy, op. cit., p. 205. Rimandiamo al riguardo anche a Stanislao da Campagnola, La società assisiana nelle fonti francescane, in Assisi al tempo di San Francesco, cit., pp. 376-377.

(26) Cfr. R. Manselli, Assisi tra impero e papato, in Assisi al tempo di San Francesco, cit., pp. 356-357.

(27) Per questa linea interpretativa, pur in contesto concretamente diverso, cfr. il nostro art. L’elemosina come socialità radicale in Francesco d’Assisi, in «Studi e Ricerche Francescane», 1-4 (1982) pp. 167.

(28) L. Iriarte, Vocaçao Franciscana, Petrópolis 1977, p. 124. Cfr. le riflessioni di L. Bettazzi, La «pazzia» della pace, in Francesco un «pazzo» da slegare, cit., p. 236.

(29) E. Leclerc, Desterro e ternura, Braga 1974, p. 235.

(30) Lo insegnerà anche Teresa di Lisieux, Storia di un’anima, 293. Ella ammette: «Non era un atto di grande valore, è vero, ma credo tuttavia sia meglio non esporsi alla battaglia quando la sconfitta è sicura». C’è sempre qualcuno, che è più buono e pacifico di noi, il quale potrà sradicare la violenza che è nel «mondo» dentro di noi: ed è l’Agnello che toglie il male dal mondo.

(31) G. Polidoro, op.ct., pp. 49 e 122. Delle pubblicazioni riferentisi al messaggio di pace di Francesco d’Assisi, quella del Polidoro, semplice e sincera, ispira, a differenza di alcune altre, invece che la guerra, la pace.

(32) I Fioretti, XXV.

(33) Anche in questo senso va inteso, noi crediamo, il detto di Riccardo: «Chi vuol essere in pace, taccia»: Cronache e altre testimonianze francescane, tr. F. Olgiati, in Fonti Francescane, Assisi 1978 (sigla FF), p. 2026.

(34) Cfr. il nostro art. La «festa» in San Francesco d’Assisi, in «Communio», 64 (1982) p. 100. Per il primo incontro con il lebbroso, cfr. L’elemosina come socialità radicale in Francesco d’Assisi, loc. cit., pp. 164-165.

(35) Sulla corrispondenza tra «crescita spirituale» e «pace», cfr. G. Polidoro, op. cit., pp. 53-56. Per l’episodio, cfr. La «festa» in San Francesco d’Assisi, loc. cit., pp. 92-93.

(36) Regola non bollata, XIV, 4. Ci piace ricordare una pratica molto semplice, eppure proficua per lo sviluppo sia psicologico sia culturale, instaurata tra noi e i nostri discepoli, che cioè, quando uno di noi compie un’ingiustizia, sia pur involontaria, egli lo confessa con serenità ma a chiedere scusa è colui che ha patito per l’ingiustizia. Con ciò sono evitati i sensi di colpa, almeno in parte, e d’altronde è incentiva la carità, che è fondamento della pace, perché ciascuno si impegna, non per proprio orgoglio ma per delicatezza verso il prossimo, ad evitare quanto è possibile ogni prevaricazione.

(37) Leggenda dei tre compagni, 58; cfr. Regola non bollata, XI, 6-8.

(38) Rispettivamente, Regola non bollata, XI, 1, e Regola bollata, III, 12. Per la citazione successiva, II Celano, 46, e Regola non bollata, XI, 1.

(39) I Celano, 135.

(40) Al riguardo, citiamo un’osservazione di Paul Sabatier, Vita di San Francesco d’Assisi, tr. G. Zanichelli, Milano 1978, p. 194: «I miracoli di Francesco sono tutti atti di amore […]. I suoi sguardi così dolci, così compassionevoli e anche potenti, che sembravano essere quasi i messaggeri del suo cuore, bastavano spesso a far dimenticare ogni sofferenza a chi lo vedeva». Indicativo è, per l’autore, che le guarigioni fossero in genere di «gravi malattie nervose».

(41) E. Balducci, Papa Giovanni, Firenze 19654, pp. 55-66.

(42) Per l’«Angelo della pace», cfr. Bonaventura, Leggenda maggiore, prol., 1.

(43) I Fioretti, XXVI; Specchio di perfezione, 66; Leggenda perugina, 90. Lo hanno ricordato, ad esempio, G. Polidoro, op.cit., p. 116, e L. Boff, Francesco d’Assisi una alternativa umana e cristiana, tr. B. Pistacchi, Assisi 1982.

(44) Acta Capituli Generalis specialis, II, 438, n. 85: «non solum ore annuntiemus, sed opere fraterna caritate animato diffundamus».

(45) Nella fraternità è annunciata la «paternità di Dio», nel quale non si danno «nemici»: «e allora tutti sono […] fratelli»: N. Fabbretti, op.cit., pp. 318 e 325.

(46) A. Clareno, Expositio, 93, e Brendulino, Expositione, f. 72v, ne «L’Italia Francescana», 6 (1981) p. 563, nota 34.

(47) G. Polidoro, op.cit., pp. 118-119. Cfr. p. 116: «quando uno ti butta così, in faccia, la pace, non riesci ad ostacolarlo e ne sei coinvolto, perché la pace ti aggredisce».

(48) O. van Asseldonk, op. cit., p. 147. Per la citazione successiva, E. Leclerc, Il Cantico delle creature, Torino 1971, p. 247.

(49) D. Barsotti, op. cit., p. 99.

(50) B. Manin, op. cit., p. 313. Cfr. Giovanni Paolo II, La pace dono di Dio affidato agli uomini, messaggio del 1982, sull’universalità e trascendenza della pace, fondata sull’iniziativa di Dio, della quale, in sostanza, l’uomo è obbediente servitore divenendo «costruttore» di pace.

(51) Per le vicende storiche, cfr. Stanislao da Campagnola, op. cit., pp. 376 e 385, e nota 80. Ci piace ricordare questa continuità pacifica nella riforma cappuccina, in un periodo in cui la «piaga della discordia non rispettava nemmeno i vincoli della parentela»: C.Urbanelli, Storia dei Cappuccini delle Marche, parte I, vol. II, Ancona 1978, pp. 541-542, e, sulla predicazione di pace, p. 543.

(52) Specchio di perfezione, 101. Per l’analisi storica, cfr. Stanislao da Campagnola, op. cit., pp. 385-386; Leggenda perugina, 44. Stessa referenza per la citazione successiva.

(53) «La pace, però, secondo la persuasione di Francesco, si fa dando il perdono»: Lettera ai Ministri Generali, loc. cit., p. 303.

(54) II Celano, 37. Leggenda perugina, 35. Per Antonio di Padova, cfr. D. M. Turoldo, Perché a te, Antonio?, Padova 1983, pp. 111-112

.(55) Leggenda dei tre compagni, 35; Anonimo perugino, 17. Cfr. R.Garaudy, op.cit., p. 205.

(56) II Celano, 47.

(57) I Celano, 41. Per la connessione «carità-pace», cfr. Specchio di perfezione, 78.

(58) Regola non bollata, XVI, 7, che cita I Pietro, 2,13.

(59) L. Boff, op. cit., p. 144. Cfr. I Celano, 57. Bonaventura, Leggenda maggiore, IX, 7-8. Leggenda perugina, 37. I Fioretti, 24. E. Caroli, Francesco un «pazzo» da slegare, cit., Presentazione, p. 10: «Nacque (così) il grande dialogo ecumenico, nel cuore stesso della storia delle crociate».

(60) Giovanni Paolo II, Redemptor hominis, 12. Per il concetto successivo, cfr. lo stesso, Lettera ai Ministri Generali, loc. cit., p. 303.

(61) R.Garaudy, op.cit., p. 209: «nell’umiltà profonda dell’umanità». L’autore ricorda che il saluto: «la pace del Signore sia con voi» è la traduzione letterale del «b ‘slama alikoum» (ibidem, p. 210). Ciò significa non che Francesco avesse bisogno di prendere in prestito dall’islamismo espressioni di pace, ma piuttosto che egli, secondo la sua autentica vocazione di pace, cercava non ciò che divide, ma ciò che unisce, come direbbe Giovanni XXIII.

(62) Rispettivamente, Innocenzo III, in Mansi, Coll. Conc., 22, 956-960, e idem, Benedicti vos in Domino, 3 febbraio 1209. Lucio III a Enrico II d’Inghilterra, nel 1212, in Mansi, op. cit., 22, 475-476.

(63) G. Polidoro, op. cit., p. 122. Giovanni Paolo II, Costruire la pace nella verità contro la violenza, messaggio del 1980, avvertiva di respingere la più infida falsità: di non credere in tutte le potenzialità positive dell’uomo, e al contempo di non credere l’uomo stesso bisognoso di liberazione dal male.

(64) L. Boff, op. cit., pp. 146-147.

(65) G. Polidoro, op.cit., p. 51.

(66) Sulla «follia» della guerra crociata, cfr. l’utile L. Bettazzi, La «pazzia» della pace, in AA.VV., Francesco un «pazzo» da slegare, cit., pp. 231-233.

(67) R.Garaudy, op.cit., p. 203.

(68) F. Allam, Islam e cristiani: conoscersi e costruire la pace, in AA.VV., Francesco un «pazzo» da slegare, cit., p. 213. Stessa referenza per la citazione successsiva.

(69) G. Polidoro, op.cit., p. 117. Per le citazioni successive, p. 118.

(70) Jacopone, Lauda LXII, vs. 27 b.

(71) Leggenda dei tre compagni, 39.

(72) Bonaventura, Expositio, III, 15, in A. Matanic, Adempire il Vangelo, cit., p. 81.

(73) D. M. Turoldo, trasmissione radiofonica «A confronto», 19 aprile 1983. Ci piace ricordare un intervento appassionato del medesimo, trasmissione del 12 aprile 1983, che disse: «Io non dormo, io peno per uno solo che muore ucciso dalla guerra in Libano, in Vietnam, in Afganistan, ecc, anche se quell’uomo non lo conosco», poiché «siamo tutti fratelli».

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