1983, VM, P. Pio. Un ricordo

P. Pio da Pietrelcina. Un ricordo, «Vita Minorum», 6 (1983) 558-562 ; poi Literay.it [2016] e «La Vita di Padre Pio», 10 (2016), La vita di Padre Pio. Calendario 2017, Edizioni Gamma 3000. [Denominazione di “Pietralcina” corretta, nel titolo e nel corpo del testo il 29 ottobre 2016]

Titolo e Testo dell’articolo

P. Pio da Pietrelcina. Un ricordo

Spesso i carismi spettacolari che lo Spirito Santo dona a certi cristiani per l’edificazione della Chiesa, vengono identificati semplicemente con la santità. Così molti, anziché edificati, per loro difetto, restano abbagliati, fermandosi ad ammirare con stupore il segno (il carisma) anziché considerare la virtù che manifesta.

Il ricordo personale del P. Pio, che l’A. qui descrive, tende a riportare la figura di P. Pio alle proporzioni dell’umano e dell’imitabile, senza nulla detrarre al fulgore della sua straordinarietà. [Redazionale]

 

 

Sul frate del Gargano, le pubblicazioni sono, oggi, ormai numerose, ed alcune di notevole consistenza biografica. Altre sono di profonda spiritualità. Noi non ci cimentiamo, qui, con le prime, perché ci basta un ricordo; né con le seconde, perché non ne siamo all’altezza.

Entrai in sacrestia all’improvviso, subito dopo che egli aveva celebrato la messa; si svestiva dei paramenti, si voltò mi guardò, e, mentre mi stavo avvicinando, mi venne incontro sorridendo, mi abbracciò, poi riprese a svestirsi degli abiti liturgici. C’era un frate, in sacrestia: guardava e non si mosse di un passo. Quel vecchio del Gargano mi sembrava, in quel momento, un ragazzino: mi stupiva la differenza, notata nel pesante andamento durante la celebrazione, rispetto a quella impulsività giovanile, tanto più che egli non mi conosceva. Ma ciò non mi interessava. Né interessano le cose che mi disse, e come andai da lui nei giorni successivi, quando i frati, a causa dei miei studi che svolgevo sul francescanesimo, mi accordarono l’ingresso in convento.

Mi disse: l’eucarestia non è il sacrificio nostro. È il sacrificio di Cristo. E ciò dicendo, appariva quasi oppresso da un peso; lo stesso che mostrava durante la messa, sì che non si distingueva tra sacrificio di Cristo e sacrificio di lui che lo ripresentava. Meditammo a lungo su quel significato, e come mai il sacrificio di un altro potesse essere pesantemente sentito da chi proclamava di non essere lui a compierlo. La verità è che la nostra persona non può presumere di compiere un sacrificio, anche se chiamata a farlo, se non come vicaria, cioè partecipe dell’olocausto di Gesù. Con ciò, l’uomo sembra scomparire anche di fronte al valore della sofferenza. L’obiezione contrasta, però, con la cura sentita, profondamente, da un uomo che si preoccupa e patisce per tutti i sofferenti: nell’anima e nel corpo. Nessuno, ad esempio, che «non ricordi» più le offese ricevute può essere considerato un uomo disimpegnato nel sacrificio, che è un patire per amore. E proprio lui, impegnato nella battaglia per modificare il mondo, sapeva «perdonare». Sapevo di questa «leggenda» circa il frate; ma non avevo approfondito perché le offese ricevute non lo avessero mai fatto prevaricare nel rancore, o nel difetto di indulgenza. Poteva essere per debolezza, o per incoscienza, o per cinismo? Allora ritornai a parlare del sacrificio eucaristico.

Disse che le nostre sofferenze sono «povere cose», ma la sopportazione che noi accettiamo è, fra le tante possibilità, un dolore assunto per amore: e già assunto dal Cristo, il quale è lui che lo ripresenta, ricompreso nel proprio sacrificio, a Dio, nell’umanità e per l’umanità stessa. Per se stessi, i «nostri» sacrifici non valgono. Se è questo che insegna il sacrificio eucaristico, esso dice anche che noi non siamo liberi di fronte alla sofferenza: perché – egli mi disse – è «Cristo che si sacrifica». Capii molto da ciò. E ci guardammo a lungo. In silenzio. Ma io ero un po’ assente. Tutto quello dunque che credevamo aver fatto – ma, in realtà, proprio niente: lo si capisce da vecchi! –, era niente. Una sola cosa restava, una sola cosa sarebbe restata: il dolore accolto non per se stessi, l’offesa perdonata, lo sberleffo che fa piangere, ma senza risentimento, anche la ingiuria respinta, ma senza l’amarezza che rioffende: perché questo è sacrificio di Cristo. La presunzione di sé, mortificata, è anch’essa sacrificio di Cristo. Se non si vuol essere, contro la verità, ostinati, questa è verità da assumere su di sé, e da lasciar consacrare.

Mi piacque seguire il frate incalzato dalla gente. Abitualmente burbero, forse un poco assente, sembrava, spesso, che «snobbasse» la moltitudine. Una posa, oppure è la coscienza che ci si sta abbagliando? che si sta scambiando il sacrificio di Cristo con il sacrificio di un pover’uomo? Curioso, chiesi allora ai frati il permesso di salire in convento per parlare, a scopo di studio, con il Padre. Egli sostava del tempo in una saletta, in cui erano ammessi anche uomini laici. Dissi che volevo chiedergli alcune spiegazioni. Mi guardò come a dire: «Che cosa vuoi sapere? », e allora dissi: «Francamente, niente». Mi guardò ancora un istante, e poi si mise tranquillo, silenzioso, come uno che pensa, o medita, per conto suo. Mi misi seduto, e stetti in silenzio anch’io. Allora dopo un quarto d’ora domandai: «Ha qualcosa da dirmi, che mi debba ricordare? ». «No. Non sono io che devo dire qualcosa». Non gli chiesi: e chi deve dirmi qualcosa? Guardandoci, io capii che era come se egli dicesse: non sono mica un vate, io.

Lo rividi tra la gente, scontroso, quasi nervoso: salvo che non gli si chiedessero preghiere, o non gli si confidasse qualche pena. Allora capii: la gente credeva che lui fosse il vate. Egli sapeva di essere solo un frate. La gente voleva una sua parola, mentre egli sapeva che la sua parola era solo a Dio, e di Dio attraverso un povero frate. La gente credeva di vedere in lui il bene, mentre il bene, aveva già insegnato Francesco d’Assisi, appartiene solo a Dio, e può manifestarsi al mondo attraverso, soltanto, uno strumento fraterno. Conobbi in seguito un nativo di San Giovanni Rotondo, il quale è anche l’autore di una raccolta di poesie su Padre Pio; egli, in effetti, mi ha rivelato che il Padre è stato sempre benevolo con lui, e di tanto in tanto, scherzosamente, gli prodigava anche qualche consiglio, posandogli magari la mano sulla testa. Tale assenza di «schermi», a mio avviso, dipendeva dal fatto che l’uomo anzidetto, pur avendo grandissima stima del frate, si rapportava a lui con animo fraterno, cioè ponendo il frate nella dimensione, giusta, di uomo di Dio.

Volli conoscere l’uomo, conoscere il frate. Ottenni un permesso per introdurmi nel coretto, durante una funzione in chiesa, in cui c’era grande folla. Padre Pio era nel coretto. Pregava. Era seduto. Guardavo altri frati, ed erano tutti uguali. Come gli altri, Padre Pio non faceva scena. Come gli altri, scostava ogni tanto la testa, per guardare ora l’altare ora la gente. Come gli altri, egli era raccolto, meditabondo, e poi di nuovo scostava la testa per guardare ora l’altare ora la gente. Sembrava esattamente un frate minore. Nessuno, là, lo infastidiva credendolo «maggiore»: niente di peggio, per un frate minore, che essere ritenuto maggiore, magari perché, semplicemente, può soffrire dei segni di Cristo, o magari perché, semplicemente, può aver salvato qualche vita, dato conforto a qualche disperato, guarito qualche ammalato. Mentre, in realtà, tutto ciò non è del frate minore, ma è solo di Dio.

Mi ricordai allora di ciò che avevo letto: quel frate, a tempo debito, sapeva anche scherzare, sapeva anche esilarare il proprio prossimo: come qualunque frate minore.

Un giorno, confessandomi da lui, gli consegnai un’offerta per le opere. Egli si portò il danaro nella «tasca» sul petto, con gesto che appariva abituale. Perché nessuna riluttanza? Ma, una riluttanza, perché? Per niente. Si sapeva che egli godeva del permesso di ricevere elemosine per la «Casa Sollievo», e molti gliene offrivano. La falsa strategia delle cerimonie non appartiene ai semplici: a coloro che trattano il prossimo in rapporto al prossimo stesso, indipendentemente dall’avere. Una seconda volta non gli diedi niente. Identico era il suo volto.

In uno degli incontri con il frate, tra il pubblico, ricordo che un giovane-religioso sottopose a padre Pio la questione se andare in missione, come gli sarebbe stato gradito, o non andare, per riguardo ai propri genitori, vecchi e malati. Mi aspettavo la famosa risposta «profetica». Padre Pio chiese: «Che cosa dicono i tuoi superiori?». «Dicono che posso andare». «Allora vai». Tutto qui. Ed è più di un pronunciamento profetico. È buon senso, ma anche, in quella parola pronunciata quasi con stanchezza, è l’affermazione che vale più di profezie: il principio dell’obbedienza come polarizzazione verso il punto di vista dei superiori. E mi sembrò che il frate avesse accolto la richiesta di lumi con attitudine di perplessità, come a indicare che il giovane avrebbe potuto chiedere la stessa cosa a chiunque. E ciò riassunse per me tutto quello che era stato scritto sull’obbedienza del frate. Molti hanno recepito queste, e simili, risposte di padre Pio come «illuminazioni» speciali. Ma essa è più di qualcosa di speciale: è la semplice comunione con lo Spirito di Dio, che allo spirito dell’uomo ispira, con naturalezza, la certezza più «soprannaturale» che ci sia, e cioè quella del «Padre» di tutti. Sotto questo influsso, che non ha nulla di mistico in qualche modo magico, quindi distorto, le parole sono esperienza quotidiana dell’uomo che, nella fraternità con Gesù e in comunione con il suo Spirito, dice ai fratelli, necessariamente, ciò che ai fratelli è bene. Abbiamo avuto modo di costatarlo più volte in padre Pio.

Non partii senza provocare il frate su qualche giudizio di grande importanza. «Scusi, ma Lei che cosa pensa di tutta questa gente?». Divenne severo come tra la gente. Poi disse: «Ma lascia che vengano. Capisci che non è per me?». E mi guardò come un frate minore.

Mi congedai con un semplice: «La saluto. Vado via». «Se non ritorni, ricordati per di me». Mi sorrise.

Non ritornai. Ricordo però un frate minore, che prega in coro piegando ogni tanto la testa ora per guardare la folla, ora per guardare l’altare, come fanno nel mondo tanti frati minori. Un frate minore che non sa cosa sia celebrare se stesso, o umiliare se stesso, se non nella verità del sacrificio che è di Gesù Cristo.

Con semplicità dunque lo abbiamo ricordato, poiché abbiamo visto in lui non altro che la «umanità» e la «benignità» che appartiene al popolo del «figlio di Dio». E alla famiglia di san Francesco d’Assisi. FRANCESCO DI CIACCIA

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