1985, MI, Torquato Tasso

Il messaggio universale della devozione mariana: “A la Beatissima Vergine di Loreto” di Torquato Tasso, in «miles immaculatae», Anno XXI, 1-4 (1985) pp. 302-307; poi Literay.it [2016].

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Il messaggio universale della devozione mariana: “A la Beatissima Vergine di Loreto” di Torquato Tasso

Quando Torquato Tasso si recò a Loreto il 27 ottobre 1587, scrisse una Canzone che il critico Fabbroni definì «gravissima e piena di sublimi sentimenti ispiratigli dalla santità del luogo»[1].

Il poeta, da più di un anno ormai uscito dall’isolamento di Sant’Anna, avverte con evidente soddisfazione il largo panorama che gli si presenta intorno: da una parte, il «grande e spazioso mare» (v. 2), e dall’altra l’alta rupe, ov’in marmorea mole è «custodita l’umil casa» che «il mondo onora e cole» (vv. 19-20).

Il sollievo dell’autore è ravvisabile già all’inizio della Canzone, in quel suo contemplare lo «splendor» della «santa Stella», che lo ha «scorto» «fra le tempeste e i fieri venti» (v. 1), e in quel suo riguardare al luogo «ove il tuo lume scintillando appare / e porge al dubbio cor dolce conforto» (vv. 5-6).

C’è, in tutta la prima stanza, il sentimento gratificato del salvato, con l’intuizione e l’espressione che era stata già di Dante: lo scampato dalle onde si volge indietro a riguardar il pericoloso tragitto, e, ormai raggiunta la sicurezza del «lido» o «porto» (v. 10), si ripensa «in terribil procella ov’altri è morto» (v. 7).

Nel suo smarrimento dell’Inferno (canto I), Dante aveva usato appunto la stessa immagine, e francamente con molto più efficacia (vv. 22-24): «E come quei che con lena affannata / Uscito fuor dal pelago alla riva / Si volge all’acqua perigliosa, e guata».

Anche per l’Alighieri, come ora per il Tasso, il pericolo era costituito dalle «fiere» che impediscono all’uomo di camminare per la retta via, e, ancora per i due poeti, la salvezza sarebbe venuta grazie all’intercessione di Maria, «donna del ciel».

Ma nel Tasso – senz’altro più che in Dante, la cui determinazione psicologica e forza decisionale valevano da efficace difesa sia contro i «colpi di sventura» sia contro le «bramose voglie» –, la gioia del pericolo scampato contiene tutta l’amarezza di quel pericolo medesimo, vissuto nella sua possibilità negativa e sottolineato dallo spavento per le «tempeste»: termine che, strutturalmente, appare ossessionante con tutte le sue varianti lessicali.

Sono ricordati, con sollievo ma con pesante insistenza, i «fieri venti» e l’onda «della vita mortal» (v. 11), «in cui affonda» (v. 12) spesso l’«alma gravosa e carca» (v. 13).

Ancora grava sull’animo dell’autore la terribile esperienza dei conflitti interiori e della malattia mentale. È vero che anche in Dante, sperduto nella «selva oscura» «aspra e forte / Che nel pensier rinnova la paura», si erano alternate speranza[2] e disperazione[3], orrore per il male minacciante[4] e fiduciosa allegrezza[5]; ma bisogna dire che Dante era avvantaggiato dalla mediazione della ragione. Il Tasso è, invece, più sensitivo e tormentato psicologicamente, e per un certo verso più ancora di Francesco Petrarca, indeciso sì, ma con dei riferimenti ideologici più sicuri. Non dimentichiamo che Torquato Tasso vive in un secolo che aveva lasciato, in buona parte, alle sue spalle la problematica religiosa e che, se la riconquista, la riconquista nell’ambascia.

Tuttavia, è proprio per questo che, nel Tasso, ottiene una particolare valenza l’umiltà della preghiera mariana del poeta: non già perché nei più grandi autori precedenti la Vergine non si sia imposta nella sua imponente figura mediatrice; ma perché nel Tasso questa maternità benigna è vissuta con spirito forse più disarmato che in altri, più ancora che nello «sconsigliato»[6] Petrarca. Qui il Tasso esprime tutta la sua fragilità umana, la sua anima sofferente, le sue paure, e insieme tutto il suo abbandono quasi infantile.

Fin dalla prima stanza è rimarcabile la contrapposizione costante fra male e bene, tempesta e sereno: ciò evidenzia, qui, il messaggio tassiano. Tutto il panorama naturalistico ha, simbolicamente, un riferimento morale: alla tempesta fa contrasto la stella (v. 3), ripetuta nella seconda stanza con insistenza stilisticamente enfatica, a fine di verso e ad inizio del successivo. Il termine, usato da San Bernardo[7] e, dopo di lui, molto comune nella poesia mariana del ‘200[8] e del secolo successivo, giustificato semanticamente da Tommaso d’Aquino[9] ed introdotto ufficialmente sia nella liturgia sia nei documenti pontifici[10], ha qui una coreografia appropriata nel contesto marittimo preso sia come significato poetico sia come significato etico.

Maria «dimostra co’ raggi / i sicuri viaggi» (vv. 8-9), e il suo brillare conduce l’uomo, con sicurezza, là «onde nacque la serena luce, / Luce di non creato e sommo Sole». Il termine «luce» è anch’esso classico per significare Gesù, addirittura biblico e poi divenuto pacifico nel dominio letterario; il «Sole» rimanda all’Apocalisse[11].

Servendosi di questa terminologia, il Tasso opera una descrizione trinitaria tentando, nella iterazione di «luce», di imitare Dante[12]. Non è all’altezza, onestamente, del poeta teologo. Ma il Tasso perviene ad un apice di bellezza stilistica e poetica nell’affettuosa contemplazione della casa «che già Maria col santo Figlio accolse» (v. 41). Accogliendo la tradizione sulla «casa di Loreto» il poeta continua sul filone strutturale del mare, poiché gli angeli «portar (“il santo albergo”, v. 40) sovra i nembi e sovra l’acque» (v. 42).

Dunque, «Questo è quel monte ch’onorar ti piacque / delle tue sante mura, / Vergine santa e pura» (vv. 46-48). Su questa base, egli eleva il «miracol grande» (v. 43) alla contrapposizione teologica tra il prodigioso divino, «a cui sollevo ed ergo / la mente» (vv. 43-44), e il prodigioso umano: quest’ultimo è, per quanto mirabile, pur sempre limitato e, in fondo, avvilente, tale che sotto di esso l’anima «oppressa giacque» (v. 45).

L’orizzonte teorico è certamente pessimistico; ma non bisogna trascurare sia il sottofondo controriformistico dell’epoca, sia la conflittualità dello stesso autore, sia il debito letterario dal «classicismo» petrarchesco. Ma, a parte ciò, non bisogna neppure dimenticare che per la stessa spiritualità testamentaria il mondo umano, pur esaltato e ingrandito dalla presenza del Creatore e del Padre, risulta, nei riguardi di quella centralità assoluta che è il divino, senz’altro inferiore e «posto nella contraddizione».

Di fronte a questo segno del divino che è la casa di Loreto, il Tasso si sofferma, con una serenità che si configura anche in una stilistica classicheggiante, sull’eccezionalità di ciò «ch’io rimiro» (v. 60): realtà più grandiosa delle «altre meraviglie antiche» (v. 56), soprattutto perché – e questo è l’importante rilievo teologico – le opere di Loreto sono «d’umiltà» (v. 65).

Infatti, al monumento lauretano hanno contribuito scultori superiori ai «magisteri […] di Fidia» (vv. 72-73), i quali hanno cinto di «marmo» la «viva pietra / sì rozza» (vv. 66-67) della casa di Maria; vi hanno contribuito pittori con «il color, lo stile» degni del santuario.

Ma tutto ciò è stato compiuto in modo da esprimere il senso dell’umiltà interiore e della pietà commossa (cfr. vv. 76-78).

Arte e doni, opere dell’ingegno e offerte materiali (cfr. v. 95) sono ordinati ad esaltare colei che «tutto il cielo onora» (v. 70), per rendere omaggio alla mediatrice di ogni grazia (cfr. v. 69), e così gli uomini da tante parti del mondo sono attratti a «rimirar la santa immago» (v. 79). Ed è questa, sostiene il Tasso, la grandezza essenziale della casa lauretana.

Questa convinzione emerge dall’intrecciarsi costante degli elementi celebrativi e di quelli teologici. Da qui risulta che la composizione tassiana, pur occasionale e galvanizzata dallo stupore di fronte allo scenario del luogo e della Basilica, ha la sua ispirazione fondamentale nel pensiero cattolico della grazia che passa attraverso Maria, e dell’umiltà dell’uomo che onestamente trova, attraverso di lei, fiducia in Gesù Cristo. Neppure la struttura classicheggiante (cfr. in particolare vv. 107-117), del resto drammaticizzata come in tutta l’opera tassiana dal travaglio della problematica intimista, può riuscire ad offuscare la teologia, e soprattutto la pietà, di questa Canzone.

L’espressione «celeste Diva» è di gusto classico, ma, nella sostanza, non è estranea alla patristica e alla liturgia. L’aggettivazione è giustificata nella Canzone dal merito speciale di Maria, «che scaccia i nostri mali» (v. 86), e «il cui pregar per grazia al cielo arriva» (v. 88).

È qui ripreso, con qualche eco anche stilistica e lessicale, il concetto dantesco del Paradiso, XXXIII, 14 e petrarchesco della Vergine bella che di sol vestita, 42. In questa poesia del Tasso specificamente intonata alla figura lauretana, l’eccezionalità di Maria, distributrice di grazia, trova quasi una materializzazione iconografica nell’«immagine esaltata» (v. 106) posta all’interno della Basilica, simbolo di colei che è «sublime / sovra ogni altezza de’ celesti cori» (vv. 106-107): ciò che ricorda, letterariamente, il «trono celeste» menzionato da Sisto IV, ancora nel sec. XV, e poi l’immagine liturgica[13].

Alla fine della Canzone, il materiale composito si determina con chiarezza emotiva sul tema più intimo di tutta la problematica tassiana: il bisogno di misericordia. Se fin dall’inizio l’ispirazione poetica verte sul bisogno di pace, qui essa si formalizza come urgenza intuitiva del pensiero. Succede, ora, una stesura di umile preghiera.

Ancor sempre in uno schema tradizionale di dichiarazione della propria insufficienza a parlare della Vergine («di lodare il tuo nome indegno io sono», v. 120), seguito già da Dante in forma ben più aulica, il Tasso pone un principio essenziale alla religiosità cristiana. Egli ritiene che non sia tanto importante il «canto», quanto il «pianto» (v. 121):

«Quel ch’io sperai cantando, / vagliami de’ lamenti il mesto suono» (vv. 126-127).

Con una perifrasi allegorica, e forse un po’ appesantita da un uso già barocco della metafora, come quell’«onde / dell’amorose lacrime» (vv. 121-122), il poeta «chiede», in sostanza, la risurrezione grazie ai meriti di Maria («sicch’io per te risurga», v. 132) «dal fondo di mie colpe oscure ed atre» (v. 34). E questo, riformulato senza gli orpelli rinascimentali di imitazione petrarchesca, significa conversione, «caro della tua grazia e santo dono» per colui «che sovente impetrò pace e perdono» (vv. 123-124).

Pur nel suo debito letterario petrarchesco, il Tasso si distacca spiritualmente e ideologicamente dal più compiaciuto poeta del Trecento nel non fare alcun assegnamento ai propri scritti, anche se è cosciente delle «cangiate rime» (v. 109) rispetto alla letteratura profana prodotta (cfr. vv. 33-34).

Alla «Regina del ciel Vergine e Madre» (v. 131), alla «consolatrice degli uomini che mai si stanca di intercedere davanti al Re», come diceva Sisto IV, il Tasso chiede l’essenziale: di salire «ove tua gloria alfin rimiri / … / su nel sereno dei lucenti giri» (vv. 135 e 137). Al seguito dell’immaginazione poetica di Dante, il Tasso congiunge così il travaglio soggettivo con il concetto teologico, in cui esso si sublima religiosamente, come aveva unito, nella stessa Canzone, il momento coreografico della «casa di Loreto» con il momento devozionale. Francesco di Ciaccia

 

[1] Per il testo, cfr. Rime sacre e morali di Torquato Tasso, in Scelta di poesie liriche, Firenze 1939, pp. 624 ss. Più recentemente, in Poesie, a cura di F. Flora, Milano-Napoli 1952.

[2] Inferno, I, 41 e 43: «Sì che bene sperar m’era cagione /…/ L’ora del tempo e la dolce stagione».

[3] Inferno, I, 54: «Ch’io perdei la speranza dell’altezza».

[4] Cfr. ibidem, vv. 57, 90, e passim.

[5] Cfr. ibidem, vv. 133 ss.

[6] Vergine bella che di sol vestita, v. 26.

[7] «Homilia II super “Missus est”», in Xenia Bernardina, Vienna 1891.

[8] Es., in Garzo dall’Incisa, nelle laudes in generale, in Francesco Petrarca, ecc.

[9] Expositio salutationis angelicae: «Maria significa “stella del mare”».

[10] Es., in Sisto IV (1471-1484). Cfr. E. CATTANEO, Il culto cristiano in Occidente. Note storiche, Roma 1978, p. 315.

[11] Ap 22, 5.

[12] Paradiso, XXX, 40. Cfr. la perfetta definizione trinitaria, ibidem, XXXIII, 124.

[13] «Exaltata est sancta Dei Genitrix super choros Angelorum ad coelestia regna», Assunzione di Maria.

 

 

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