1986, SFSL, La carne e la morte

La carne e la morte nella predicazione cappuccina del Seicento. Un testo inedito sulla morte, «Studi e Fonti di Storia Lombarda. Quaderni Milanesi», 11 (1986) pp. 61-81 ; poi Literay.it [2016].

Titolo e Testo dell’articolo

La carne e la morte nella predicazione cappuccina del Seicento. Un testo inedito sulla morte

Una caratteristica della predicazione cappuccina, dalla sua origine cinquecentesca fino al ‘700 inoltrato, fu l’equilibrio nel proporre la morale sessuale, nonostante il rigorismo dell’etica coeva. Tale discrezione correggeva la rigidità ascetica interna all’Ordine, grazie ad un’attenzione, realistica e comprensiva, alle condizioni del popolo. Se non altro, ciò conferiva alla parola cappuccina quel tono di umiltà che la rendeva ben accetta presso la gente, anche quando le proposte etiche erano commisurate all’ideale religioso-conventuale più che alle effettive risorse morali di un uditorio implicato nelle difficoltà del mondo. È un fenomeno, questo, storicamente il più accettabile e psicologicamente molto significativo.

Per capire la temperanza oratoria del Seicento cappuccino, si rammenti l’atteggiamento del padre Cristoforo manzoniano, che addolcirà anche il rigido fra Fazio: egli non fa nessuna predica sull’«amoreggiare», e solo alla fine del romanzo trasmette un messaggio esplicito sulla morale coniugale e familiare, che si attiene esattamente alla sostanza dell’insegnamento dell’apostolo Paolo.

Una norma particolare di prudenza, peculiare nella predicazione cappuccina, era d’evitar conversazioni «solo con sola». Divenuta famosa perché praticata anche da personalità dell’epoca, come Federigo Borromeo, essa risaliva a Gerolamo e traeva esempio dalla pratica eremitica e monastica. I cappuccini la trovavano, poi, puntualmente nelle loro Costituzioni (vi rimase fino alla revisione deuterovaticana), in cui il «frutto» del conversare era assimilato a quello del fuoco con la paglia (cioè breve, fatuo, ma repentino), così ripresentato dal missionario della Istruzione Catechistica: «[…] non esservi cosa più pericolosa all’Uomo della Donna, e alla Donna dell’Uomo, per esser uno paglia, e l’altro fuoco, uno fuoco, e l’altro paglia»[1].

La pericolosità dell’intrattenimento fra i sessi travalica le intenzioni degli interessati, ovviamente per il meccanismo naturale della libidine. Nel suo stile familiare e discorsivo, è molto precisa l’Istruzione Catechistica: «Ma piano un poco o Padre […], piano un poco – egli obietta, dalla parte degli uditori –, perché sebbene sia vero che io amoreggi la tale, e che frequenti spesso la di lei Casa, è vero altresì, ch’io l’amo con un amore innocente, e che le mie visite non oltrepassano i limiti della cristiana onestà. Lo sò ancor io, […] che così la discorri, ma […] credi forse di poter amoreggiare senza alcun pericolo di peccare?». Pur su una base moralmente rigida, nel ‘700 ormai consolidatasi dottrinalmente, anche in reazione alla confermata secolarizzazione da un lato, e alla fluida casuistica dall’altro, la tradizionale discrezione cappuccinesca riusciva, nonostante la naturale enfatizzazione catechistica, a stabilire le giuste proporzioni, come nel suddetto testo: «Io non dico, non esser lecito, vedere, e trattare una qualche volta, colle dovute riserve, chi vi dee esser compagna indivisibile fino alla morte; ma dico bensì, che l’amoreggiare all’usanza del secolo, e il continuare quest’amore sotto l’ombra del Matrimonio […], non è lecito». Se si pensa, da una parte, a certa prassi per cui il «contratto matrimoniale» poteva esser realizzato da terzi quasi all’insaputa degli interessati (in alcune regioni, ancor all’inizio del ‘900!), e, dall’altra, se astraiamo dalla nostra odierna maturità e libertà di rapporti intersoggettivi, si può ammettere una saggezza intrinseca nel criterio prospettato dal frate; il quale, alla fin dei conti, si attiene sostanzialmente alla Scrittura, non già alle paure umane.

Non minor attenzione è da prestare alla dichiarata parità, sia come fonte di pericolo, sia come soggetto di doveri, tra maschio e femmina: essa trascende la diffusa rappresentazione discriminante della femmina come «tentatrice» e del maschio come «violentatore»: «Ciò che dice il Santo [Gerolamo] dell’Uomo riguardo alla Donna, si dee anche intendere della Donna rispetto all’Uomo» (Istruzione Catechistica).

Del resto, le raccomandazioni delle Costituzioni cappuccine, già nel 1536, a proposito della pericolosità delle inutili «conversazioni» non facevano distinzione tra uomini e donne. Questo criterio generale convince che i frati erano preoccupati più dei risvolti essenziali, sul piano morale e spirituale, dei rapporti umani, che non di anguste e insufficienti discriminazioni. Certamente, una particolare prudenza era esaltata nelle relazioni dei frati con le donne, come si riscontra nelle agiografie cappuccine dell’epoca, e nelle amicizie degli uomini con le persone dell’altro sesso, come dimostrano le esortazioni catechistiche dello stesso periodo. Tuttavia, lo spirito della morale cappuccina non fu mai incline a manicheismi sia pur mistichegganti; tanto meno esso tendeva a configurare la donna come la parte cattiva della umanità. Anzi, era portato ad enfatizzarne l’innato sentimento di purezza, assimilandola fin troppo all’immagine mariana.

Nella predicazione francescana, e cappuccina in particolare, non si arrivò a demonizzare la donna; frequentemente si tragicizzarono l’amore e la seduzione femminili, con evidente generalizzazione dei casi biblici di Sansone e di Salomone[2]. In tal modo, l’oratoria sacra sfruttò la tradizionale «animalizzazione»: non già, tuttavia, della donna in sé, ma del vizio carnale. Ripetendo Pier Grisologo, un sermone cappuccino ricordava che l’uomo, «tiranneggiato dalla lussuria, a se migrat, et ab nomine totus transit in bestiam». Il ruolo femminile, ovviamente incluso nella alienazione dalla dignità morale della natura umana, trovava una facile rappresentazione nella figura apocalittica simbolisticamente interpretata: «mulier circumdata purpura […] et margheritis, sedens super bestiam coccineam»[3].

Nella predicazione popolare era diffusa l’analogia intuitiva tra i peccati della carne e le azioni degli animali: l’occupazione dei lussuriosi, ad esempio, «di ruminare immondezze»; il «trattenimento della lingua» impudica, «il canto delle oscenità obbrobriose», «lo sfacciato racconto d’indecenti operazioni» estinguono il «lume celestiale», fanno diventare carnale l’anima stessa e l’avvicinano alle bestie che razzolano nello sporco[4].

Sessualità e «bel mondo»

La sacralità del corpo, «tempio dello Spirito» e «membro di Cristo», risulta il fondamento della predicazione – cappuccina in particolare, ma non solo – sull’argomento. Tale concezione, secondo l’enunciato paolino, non va inscritta nella dicotomia, platonica ed ellenistica, tra «corpo» ed «anima», ma nell’armonia semitica, perfezionata dal Nuovo Testamento: «ogni Fedele è un tempio dello Spirito Santo […]: scesero a nobilitare i vostri affetti gli ardori medesimi del cuor di Dio […]. Ma come possono accoppiarsi que’ Celestiali purissimi ardori colle fiamme impure d’un amor sensuale? […] che avvilì la sua più nobile passione a deliziar fra’ carnami?» (Disonestà). Corollario della «templarità» è la dottrina della «coabitazione trinitaria nel fedele, corpo ed anima insieme (in senso «mistico»): la «disonestà», dunque, «oltraggia sensibilmente – leggi: nella «sensibilità» dell’uomo – il Divin Padre, sporcando[ne] bruttamente l’immagine […]; oltraggia […] il Divin Figlio, disonorando colla più ignominiosa prostituzione le membra del suo medesimo Corpo; oltraggia […] anche lo Spirito Santo, profanando […] il suo Tempio» (Disonestà).

Ricordiamo che queste premesse non soggiacciono alle focose, a volte, prediche solo contro questo o quel peccato di «sesso», magari con epocale pruderie, ma anche contro la mentalità, che, tra i secoli XVI-XVII, spesso identificava la «libertà erotica» con la «gentilezza di costumi»: quand’anche, negli ambienti più raffinati, non coniugasse erotismo e nobiltà. Per tal ragione si può dire, con Leonardo da Porto Maurizio, che essa godeva di un punto di vantaggio rispetto ad altri «peccati».

Giambenedetto da Torino, impegnato anche a livello sociale, denunciava come la «disonestà» fosse un vizio «mascherato con tante scuse», e, in particolare, «infiorato con i tanti onorevoli soprannomi di brio, di vivezza, di civiltà, [che] chi a nostri tempi o non ne porta livrea, o almeno non se gli mostra parziale, vien motteggiato per stolido: un vizio abbellito con tante mode […], e da cui hanno tutto il sapore i più gustosi divertimenti» (Disonestà). Non solo: egli, in epoca illuministica, poneva la relazione tra agiatezza di vita e sessualità, con punte critiche contro le «gentili persone» che frequentavano la chiesa per far bella mostra di sé e della propria vanità.

Trascriviamo qualche concetto.

Per i lussuriosi privilegiati, la giornata inizia quando il sole è già alto, poiché la veglia notturna è stata spesa, intensamente, con la «compagnia prediletta». I primi passi mattutini vanno al «magistero dello specchio», davanti al quale passano in rassegna «i lisci, e le polveri, e le manteche, e i profumi, e i belletti, e spilli, e tenagliette», per una lunga ed accurata «toeletta» preparatoria alla Messa. Infatti, il bel mondo va in chiesa: ma in una chiesa ricercatamente affollata, adatta agli appuntamenti galanti, dove «si concertano le più geniali adunanze». Il pomeriggio si trascorre in salotto, a far vezzi e a riceverli, e finalmente si arriva ai palesi «discorsi d’amore, che non sono sempre platonici». Più o meno, per questi signori, che coniugano tranquillamente vanità e religione, «tutt’i giorni dell’anno sono dello stesso tenore»; per cui, che altro è la loro vita se non una «aperta professione di bel tempo, un intreccio, in somma, di festini, di balli, di amori?»[5].

L’argomento si allarga all’«obbligo» che è la vita «per tutti» – per rifarci ad un’espressione del Federigo manzoniano –: forse Dio ha collocato l’uomo nel mondo – chiede il frate –, per nient’altro che per «tenerlo occupato in una serie non interrotta di spassi?». «Pare a voi, che per nulla di più abbia Iddio [creato il mondo] che per inutil soggiorno […] di scioperati», che per di più ostentassero la fede «in pochi spruzzi d’acqua benedetta, e del resto tutta immergessero la loro vita in conversazioni, in comodità, ed in amori, e tutti occupassero li loro studj in follie di mode, ed in letture di capricciosi romanzi?». Finemente, il cappuccino distingue tra il «decoro della propria condizione» sociale, e la scusa di tal decoro che alcuni adducono per «inanellarsi» tutte le membra, per manipolarsi una «posticcia beltà», per farsi circondare da uno stuolo «cascante di vezzi», e per seguir la farsa della «moda». Concreto, alieno da enfasi ed imprecazioni, senza esclamativi e figure retoriche esorbitanti, il cappuccino costruisce una lucida tipologia comportamentale del «molle e delicato», con tutte le conseguenze, realistiche, della «scioperatezza» che «altra guida non ha, che l’esempio d’una moltitudine ingannata, e l’impulso di propensioni viziose»: «anche in vecchiezza, [la donna] si adorna, si liscia, s’impiastra, e si crede anche adorata da chi la schernisce».

Decoro e necessità del corpo, anche quanto al divertimento, son ben altra cosa: «Io ne condanno solo la smodata quantità […]. Condanno la loro qualità […]. Con ciò, il cappuccino storna le obiezioni della gente: «Padre, voi ci avete dato stamane un saggio di rigorismo, che un po’ po’, che prendesse voga, basterebbe a mettere in iscompiglio il mondo. […] Vorreste dunque sbandire co’ divertimenti ogni allegrezza dal mondo?»; «tutti melanconici», tutti musoni, ci volete? Per niente: allegrezza esteriore, sì – conclude il frate –, ma non dimenticare – dice con forte assonanza cristoforiano-manzoniana – «l’allegrezza, che porta al cuore la pace, e a tutta l’anima la serenità, che diletta con liete immagini, e la conforta colle più gioconde speranze, questa vera allegrezza non soggetta ad essere disturbata da vicende, né attossicata da rimorsi, questa [che] è il primo frutto dello Spirito Santo […] (Della vita molle).

Preciso ed esigente, tagliente e incompromesso, il cappuccino mostra il fine, oltre la via.

La contagiosa e «disperante» sensualitá

Stante la relativa inavvertibilità della lussuria, essa era tenuta dai predicatori in sommo timore, quale un passo troppo facile, e, secondo il principio che «si rovina iniziando dalle minori trasgressioni», il più pericoloso, così vivacizzato dall’oratoria di Leonardo da Porto Maurizio, il quale fa anche intervenire, secondo exempla tradizionali, il diavolo: «[il diavolo], interrogato quale fosse tra tutti i peccati il maggiore, rispose pronto e franco, la disonestà. Fu ripigliato di errore, con dirglisi, che erano maggiori l’idolatria, la disperazione – si tratta del cosiddetto “peccato contro la speranza teologale” –, l’odio di Dio, come vizi opposti a più eminenti virtù. Il diavolo ch’è finissimo teologo […], con una distinzione si sbrigò dell’argomento in questo modo: Quantum ad theologiam majora sunt ista, quantum ad effectum majora sunt illa», cioè: in teoria son più gravi i peccati teologali, ma, agli effetti pratici, son più gravi quelli sessuali[6]. A parte il diavolo, è chiaro che l’intendimento dell’oratore è volto alla realtà effettuale del vivere quotidiano, difficilmente discriminabile sulla base delle attitudini teologali: l’«odio di Dio», o la «disperazione», sono meno configurabili, concretamente, dell’«impurità carnale».

Non è solo questione di comodità discriminatoria. In effetti, gli esempi più «contagiosi», nella vita pratica, son quelli interessanti l’eros. «Il primo insulto pertanto, con cui questa madre abbominevole d’impudicizia fece guerra alla maestà del Signore, fu lo strappare dalle di lui bandiere i seguaci, e da ogni parte del mondo con l’incanto di sue funeste lusinghe guadagnarsi adoratori […]; e col gusto fugace de’ sensuali piaceri talmente dilatò il suo funestissimo predominio, che non v’è al mondo un vizio più predominante, più universale, che quello della lussuria: infette ne sono le città, infette le ville, e quasi direi poco men, che tutte le case» (Disonestà).

Con sguardo al genere apocalittico, il medesimo Giambenedetto svela la relazione tra lussuria e tiepidezza, le cui «sette funestissime» conseguenze sono: «Cecità di mente, per cui il meschino né più riflette al suo bene, né più apprende il suo male: inconsideranza precipitosa […]: incostanza ne’ buoni propositi, che rendendogli abituali le ricadute, rende quasi disperata di rimedio la sua cura: quell’amore disordinato di se medesimi […]: quell’odio di Dio, e delle sue leggi, perché contrarie alle sue sregolatezze: quell’attacco peccaminoso, che lo lega così tenacemente a questo secolo: quel dispettoso contorcimento all’udire il solo nome di eternità […]» (Disonestà).

Il dinamismo di «allontanamento» dalla parola o dal «banchetto» evangelico era spesso illustrato dalla parabola in cui uno, invitato, adduceva il motivo d’aver «preso moglie» («uxorem dux»). Al di là degli apparenti formalismi morali, quali possono apparire ai nostri occhi liberalizzati da una cultura più attenta ad altri ambiti etici e più critica in campo sessuale, dobbiamo ammettere che il nucleo del discorso sul sesso si concentrava sul problema della generosità di fede, e sul suo opposto, ed inoltre sulle sue implicazioni interpersonali, di rispetto della persona altrui e di giustizia verso il prossimo.

Sul versante teologico, la passione erotica era considerata come principale fattore della «disperazione», a causa dei legami affettivi e dell’inclinazione libidica tendenti a conservarsi per una specie di forza d’inerzia, determinata dalla consuetudine. «Difficilissima replico, ad emendarsi è la lascivia, perché non v’è motivo, che basti a svegliarne in un’anima il dovuto abbominio, non v’è età, che ne estingua gli ardori, pur troppo sempre geniali, non v’è forza, che vaglia a schiantarne da un cuore le profondissime tenaci radici […]; e la sperienza dimostra, che, quando un impudico è invischiato nel mal abito di sue incontinenze, dispera della sua conversione, perché troppo teme la privazione delle sue immonde soddisfazioni […]. E quand’anche si risolva ad un eroico distaccamento da’ suoi illeciti amori, dispera della sua perseveranza, perché ad ogni parte lo stringono, e combattono le troppo arrendevoli sue inclinazioni, le attrattive de’ suoi abbandonati, ma ancor amati piaceri: dispera finalmente di Dio, e di se stesso. Di Dio, perché sempre abusò della sua misericordia; di se stesso, perché ha chiarissime prove della sua incontinenza» (Disonestà).

Sul versante sociale, la nutritissima letteratura oratoria dimostra la preoccupazione per gli aspetti di prevaricazione contro il prossimo: prevaricazione anche civile, sovente ineludibile a misura dell’impotenza del diritto. Il rigorismo sessuale non sarebbe compiutamente interpretato senza l’impegno a difesa della dignità della persona, soprattutto più indifesa, assunto nel corso dei secoli da vari Ordini regolari, e dai Cappuccini in particolare.

Diffidando dall’«amoreggiare», spesso i predicatori intendevano scongiurare i rischi di «seduzioni», all’epoca davvero spiacevoli: «la donna veniva innalzata fino al cielo dagli scrittori cavallereschi e veniva poi nella vita pubblica e privata ridotta a semplice trastullo»[7]. Così nel Cinquecento; non meno nel Sei-Settecento. Citiamo da un acuto e smaliziato frate cappuccino: «[…] avvertite quella figlia, che quelle confidenze troppo inoltrate, che quelle tresche troppo continuate finiranno poi con un fiume di pianto, e forse forse di sangue, se quegli amori segreti chiamassero a troncarli qualche pubblico risentimento: intimatele più chiaramente, che a quelle libertà di amoreggiamenti sempre vanno di conserva molti pericoli» (Disonestà).

Le prediche popolari dei cappuccini tendevano appunto ad illuminare sui pericoli degli amori presi alla leggera, in cui a rimetterci era di norma la gente più umile.

A ciò si aggiunga l’obiettiva pericolosità degli intrattenimenti ludici, pubblici che fossero: occasione consueta di vendette, di invischiamenti illegittimi, quindi ancora di vendette e gelosie, comunque di spasso, a volte, solo apparentemente innocuo. Riportiamo qui il prezioso documento di Nicolò Galiero, in una lettera al Cardinale di S. Prassede, Carlo Borromeo, del 10 settembre 1579:

«[…] I balli perseverano tuttavia, e con tutti questi sospetti et che si sia trovato nel Milanese questo anno solo per causa de balli sono seguiti quaranta homicidij senza altri feriti […]. Da diverse bande ho inteso tutto questo tempo che s’è ballato esser seguite molte risse et suscitate molte inimicizie […]»[8].

Sotto l’aspetto morale, in quanto occasione di rilassatezza, ma anche per i risvolti criminosi che qui abbiamo segnalato, le feste «in maschera», ingentilite dai relativi balli, erano oggetto di vivace contestazione da parte dei cappuccini, soprattutto non chierici. Le loro forme di intervento appaiono senz’altro improntate alla spontaneità, a volte disarmante, resa fiduciosa dalla stima goduta dai frati presso la popolazione più disparata, compresa quella della buona società dell’epoca. L’austerità, unita alla semplicità d’animo per nulla tinta di acrimonia, rendeva questi frati accetti anche alle persone raffinate. Sta di fatto che i predicatori cappuccini, e più spesso i semplici fratelli non chierici, non mancarono di «guastare» frequentemente le feste da ballo e i giochi, nei quali era soprattutto «compromessa la serietà della donna»[9]. Tra il ‘500 e il ‘600 poteva accadere che i partecipanti a tali mascherate si allontanassero spontaneamente dalle sale da ballo al solo sentore che stavano per venire i frati a rimproverarli. Anche se atteggiamenti del genere non accadevano di norma, la storia tramanda gli interventi del tuonante Alfonso Lupo, predicatore spagnolo, e del suo confratello Felice da Cantalice, frate cercatore della provincia romana, come vere e proprie irruzioni tempestose, bene o male, comunque, accolte con esito positivo dalla gente.

L’Istruzione Catechistica dedica una riflessione specifica al ballo. In essa, il cappuccino dichiara, per prima cosa, «di non condannare il ballo considerato in se stesso», ma al contempo segnala i pericoli concreti di questo svago, quando esso non rispetti «le condizioni dovute». Tali condizioni si possono sintetizzare nella decenza e nella rettitudine di intenzione, perché questa «arte» – come egli la chiama – non sia posta a servizio di una tendenza troppo facilitata dal contesto, che «rallenta la briglia alla verecondia».

La morte nella predicazione

Sul tema, che richiederebbe un’analisi specifica, ci limitiamo a segnalare un esempio di predicazione inedita del Seicento cappuccino, con qualche osservazione preliminare.

La formula: «Ricordati, fratello, che devi morire», che nel Medioevo si concentrava ancora tra le mura monastiche ed era stata assunta da un’istituzione cenobitica come «saluto» fraterno, ebbe diffusione nel mondo ad opera della predicazione popolare dei Mendicanti. Essa, assunte le proporzioni della divulgazione, si colorò, come avviene di consueto, di toni drammatici, a volte foschi, perdendo molto dell’originario sentimento, insito nella concezione del transito: del passaggio, cioè, ad una condizione corporalmente umiliata, ma coscienzialmente – o spiritualmente, come si suol dire – più equa e meno contraddittoria. Così, la morte, dall’immagine di libertà, passava a coniugarsi con le tre seguenti immagini, connesse tra loro ed alquanto disarticolate dall’idea di liberazione superiore: «vanità della vita», «putrefazione» del corpo come segno di condanna, «rapina» dei beni («danza macabra»)[10].

La morte «subìta», occupando un posto privilegiato rispetto alla morte consentita – cioè, del «quotidie morior» paolino, per il «vivere cum Christo» – divenne dominatrice delle anime e pena per gli uomini – meno che riscatto ad gloriam –, e comunque rapinatrice delle cianfrusaglie, se non dei cuori. È doveroso ripetere, ancora una volta, che tale esito scaturiva anche dalla contraddizione d’una società «cristiana» la quale viveva in modo paganeggiante, mentre riceveva annunci del tutto opposti. L’oratoria deterrente, pur contenutisticamente fedele, espressivamente si lasciava catturare dalla necessità didattica con modalità reattive.

L’età post-tridentina sollecitò la catechesi sui novissimi[11], del resto correggendo il precedente sentimento della morte magica, terrificante e familiare insieme. Però, se nel ‘600 «l’angoscia della morte si trasforma[va] addirittura in ossessione e in disperazione»[12], e se niente servì a mitigarla, «né l’esaltazione gioiosa della resurrezione della carne […], né la rappresentazione mitigata del purgatorio […]»[13], la pastorale religiosa non sembra essere la causa di questa condizione, quanto, se non l’effetto, una concomitanza di implicazione, entro il fragile gioco dell’adattamento ai tempi: pungolo e, insieme, spina, imposti ai fianchi dell’ecclesialità di ogni tempo nella sua difficile sintesi tra i movimenti intrinseci di terrestrità, di umanità e di evangelicità. Il secolo delle splendide certezze giocò nei salotti, a detta di Urbain, alla morte, argomento di «carteggi, conversazioni, cene, serate».

In antitesi, pur in parte forzata, alla socializzazione enfatica ed apotropaica della morte, matrice delle famose pompe funebri, tra il ‘600 e il 700 si accentuò, nella predicazione, l’idea della «nullità» della vita, destinata all’«annientamento» che è nella morte. Con Bossuet, ha scritto Jean-Didier Urbain, «compare la paura del nulla»: la morte è il nulla di questa terra, che già, per la sua vanità, è nulla[14]. Non bisogna tuttavia dimenticare che, generalmente, l’avvertenza del «Memento, homo, quia pulvis es… », immancabile in ogni «Quaresimale», e l’indicazione della morte come «consigliera» nella vita, non erano disgiunte dalla considerazione che il morire è un «beneficio» per i giusti, ed una via al «bene».

Limitandoci ad una esemplificazione veloce, diamo un breve ragguaglio della linea cappuccina, anche su questo tema, tendente ad evidenziare il lato positivo dell’annuncio.

«Convien morire. Questo è l’argomento, che io propongo per giusto vostro conforto. Sì, consolatevi, o Cristiani, convien morire. Vi sorprende, Uditori, questa maniera di favellare; ma sorprende anco me il brusco sembiante, con cui voi lo accogliete. Ah voi non la conoscete la preziosità di questa intimazione, e perciò mi prefissi d’occuparvi stamane in gustarne il disinganno col dimostrarvi, quanto sia amabile per un Cristiano la necessità di morire. L’argomento è tanto dolce, che anche ne’ giorni passati [di carnevale] poteva proporsi senza turbamento delle vostre allegrie […]. Ah! voi non conoscete, quanto sia ricca di meriti la morte accettata con prontezza di sommissione […]»[15].

La fondamentale condizione «dis-affezionata», con cui sono vissute le relazioni con l’insieme dei fattori terrestri, agevola, nei cappuccini, la visione originaria della morte cristiana: in questo caso, la situazionalità conventuale interviene a sdrammatizzare il pensiero della morte, non a tragicizzarlo. Tuttavia, per altro verso, la stessa demotivazione mondana del frate tende ad esasperare l’immagine dell’attaccamento dell’uomo secolare verso la vita, e ad ingigantire, come deterrente persuasivo, i mali di questa valle di lacrime. Il tutto, però, trova giustificazione definitiva nel bene, che la morte dona. Esemplifichiamo da La Morte di Giambenedetto da Torino:

«Ah poveri mondani! e come reggereste voi sì lungamente a tante fastidiose vicende, voi, che ad ogni menomo incontro avete sì famigliari le impazienze, sì impetuosi li trasporti? […] Io non so, se sareste più pazienti di un Tobia, e se vi contentereste poi, che mai non giungesse il termine di un vivere sì odioso. E pure non è questo il maggiore de’ mali da cui io deploro ingombrato questo infelice soggiorno. I pericoli io considero, di cui è sparsa la terra; questi vieppiù convincono, quanto sia amabile quella morte, che sola può disimpegnare da una infinità di timori.

[…] [La morte] tosto s’innalza a partecipare de’ meriti della morte di Cristo: e chi può capire, quanto accettabile allora agli occhi di Dio un tal sagrifizio, e quanto odoroso? nell’accettare con umile, pronta, e generosa rassegnazione la morte, senza contorcimenti di ripugnanze, senza ansietà di prolunghi, pare, che le più belle virtù si adunino a fregiare un tal atto».

Nonostante il valore «morale» della morte, accolta con lo spirito suddetto, la rude concretezza cappuccina non è dimentica della «naturale» avversione alla morte: « […] e mi do più che persuaso, che non possono vietarsi all’inferma natura le ripugnanze alla morte: dico però, che in nostro arbitrio sta il debilitare le loro forze, e togliere loro quel predominio, che in vece di farci colla rassegnazione un vantaggio, viene a farci co’ suoi spaventi un pericolo» (La Morte).

Tutto sommato, e a parte l’esorbitante fiducia a «debilitare» le istintive ripugnanze che non siano già compresse da un diuturno ascetismo, i discorsi cappuccini sulla morte tendono a porre la questione su un piano soprannaturale puro e semplice, senza troppi inquinamenti culturali. Anche la presentificazione della morte risponde ad una praticità etica, e resta fuori non solo da estetismi preziosi, ma anche da misticismi presuntuosi. Essa è indicata come esercizio che agevola la familiare accettazione, che, invece, potrebbe risultare difficoltosa se procrastinata al momento effettivo della inattesa morte.

«Il morir bene è la più importante di tutte le imprese, che meritino le applicazioni dell’uomo. In affari di alta importanza ci consiglia la prudenza a non trascurare alcun mezzo; e certamente non avrà scusa, né merita compassione, chi trascura per sino quegli, che sono più facili» (La Morte).

Come premessa all’edizione di una importante predica inedita del Seicento cappuccino, segnaliamo alcuni elementi di sintesi.

L’impostazione di fondo, nell’esplicito parallelismo di Giorno-Notte, poggia sull’idea della signoria universale di Dio. La morte è positiva come la vita, è un bene anch’essa, al pari dell’esistenza terrena: sia la morte, ossia la partenza da questo mondo, sia la vita, ossia la permanenza in questo mondo, sono di Dio.

Certamente, si vedrà distinto l’aspetto di mancamento della morte, anzi, il suo connotato, teologicamente, di punizione: ma, a parte che neppure esso può sfuggire alla dialettica del provvidente benevolo, l’appartenenza a Dio della morte è da intendersi soprattutto quanto al soggetto che la vive, all’uomo che la patisce. Poco incline alle disquisizioni teoriche, la metodologia oratoria cappuccina guarda, anche in ciò, all’uomo reale che ascolta la predica. L’ambita definizione della morte come consigliera – concetto molto sfruttato nell’oratoria sacra – è rivolta ad equilibrare le tensioni verso le cose reali, ed avverte della scalare validità degli enti: in altri termini, ammonisce che non tutto ciò, che è nel mondo, vale, alla fin fine, la stessa pena. La luminosa veridicità della morte, prodromo del giorno – nella metafora oratoria –, non si nutre dell’idea «pomposa» per cui il morire venga assorbito nel lusso del vivere – tentativo esorcistico della società secentesca –: essa, invece, si riferisce alla condizione solare che, stando già alla Patristica menzionata, vien dietro ad essa. Insomma, il «memento novissima» si risolve, concretamente, in un «memento caritatem»: evangelicità, ed insieme popolarità della predicazione cappuccina al riguardo.

Qualche trapunto retorico, nella predica in oggetto – come in altre, e forse di più, del medesimo Seicento cappuccino, del resto sollecitato dal genere parenetico –, non distoglie dal nerbo del discorso essenziale; la meditazione della morte istruisce sulla virtù. Tale effetto, che suppone una valutazione gerarchica dei beni, consegue ad una riflessione circa l’«ultraterreno» come originaria possibilità di bene. A sua volta, ciò ha a fondamento la sopraddetta «padronanza» di Dio. In pratica, il pensiero della morte non condurrebbe ad operare con giustizia, anzi produrrebbe, forse, la disperazione del «tanto non val la pena», visto che l’uomo apparirebbe già posto sotto condanna – di cui la morte sarebbe l’effetto –, se la morte stessa non comparisse prima di tutto come occasione d’una bontà, da Dio ricevuta e a Dio donata.

Nella medesima predica scorgiamo due elementi consueti: l’idea dell’universalità della morte, e la presentificazione della morte come tentativo di accostarsi, da parte dell’individuo, alla propria morte – di per sé non sperimenta bile, avverte l’Urbain, in quanto essa è meta-empirica –. Il primo elemento non decade, però, a gusto dell’orrore, benché alcune immagini rasentino l’iconografia macabra. Queste immagini, con sufficiente stilismo, puntano sostanzialmente a stabilire che i valori della terra, per ciascun genere di vita, dal punto di vista del dopo si capovolgono. Si badi: la linea vettoriale non procede verso la contrapposizione «nulla terrestre – reale celeste» – percorso obbligato della oratoria secentesca in polemica mondana –, ma verso la demitizzazione dei facili meccanismi di mitizzazione della vita eccessivamente interessata al quotidiano. In effetti, la morte non annulla niente, della vita; la ridimensiona e, ridimensionandola, la converte a strumento meraviglioso del nostro tempo, che la morte suggella e garantisce.

Per terminare, comunichiamo che solo entro questi confini di pensiero han ragion d’essere le pratiche religiose intorno alla morte: molto in voga nel Seicento – e non solo allora –, esse, in effetti, non sono «garanzia della loro appartenenza al sistema religioso che le ha prodotte e di cui sembrano restare i simboli»[16]. Nella predicazione cappuccina esse non mostrano un posto privilegiato, se pur alcuno ne hanno; esse, da quanto noi sappiamo, ebbero ed hanno avuto una tradizione fattiva, tra l’altro nei famosi «accompagnamenti». Ma l’argomento richiederebbe uno specifico studio.

 

Quaresimale o prediche del padre Isaia da Milano guardiano diffinitore et ex provinciale de frati minori capuccini rescritte l’anno 1681[17]

«Ella [la notte] non meno del giorno per figlia della Divina Sapienza si riconosce. Alla notte, come al giorno, la bocca di Dio diede il nome […]: mentre di notte io favello, di Morte discorrere pretendo. Non hanno cuore alcuni di sopportare sì dolorosa memoria; gl’infastidiscono quegl’horrori sepulturali; gli rende nausea quel fetore cadaveritio, gl’aggroppano le viscere quelle raccordationi paventose dell’altra vita; e pure è vero, che chi nella notte della morte si ferma meditando, di dolcezze paradisali si riempie […]. La memoria della morte scaccia dall’anima il peccato, unisce la medesima con Dio, e finalmente nella virtù perseverante la rende.

[…] Scaccia dall’anima il peccato, lo dice chiaro il P. Sant’Agostino […]. Conducete questo tal huomo licentioso ad un sepulcro, fate che attentamente contempli que’ spennati carcami, quelle spolpate ossa, che subitamente evigilavit, aprirà gli occhi. Sveglierassi questo malvagio al tacito silentio della morte […].

Passiamo al secondo punto, che la memoria della morte ci fa finalmente ritrovare il perduto Dio. […] A te dico, o Giovine lascivo, et disonesto: ricordati che quella tua carne, ch’hora con tante delicie mantieni, ha da essere pascolo de vermi. Amorza in te stesso la face della concupiscenza, prima che la morte a te spegni la vita.

A te dico o Vecchio: Morieris. Con quel bastoncello nelle mani vai picchiando al sepolcro, più non ti puoi sostentare sopra de piedi; non puoi tardare a cadere nella fossa, e sustulit illa senes. Non è più tempo di stare su le gozzoviglie, su l’arcigogole, fra le pazzie, e sopra le vanità. È tempo di disporre prima per l’anima e poscia anche per il corpo.

Dico a te, o Negotiante: Morieris, e forse hac nocte. Quae parasti cuius erit? Di chi sarà ciò, che con tanta ansietà ed offesa di Dio vai amassando? a che [con] tanti inganni, e frodi vai accumulando robba? T’assicuro, che teco non la porterai, guarda, che la morte ti stà acanto per rubbarti la vita.

Dico a te, o Cavagliere: Morieris. Ricordatevi che la morte non è per portarti rispetto per essere nobile e graduato, ella pone le mani nelle Corone, nei Triregni, Nemini parcit; ricordatevi, che se bene siete nobile, grande non occuperete più la terra, di quella ch’occuperà un poveretto.

Dico a te, o Soldato, o Marte terreno. Morieris. La morte non teme il tuo braccio potente, col filo della tua spada taglierà, troncherà il filo della tua vita. Nec vis Herculea fatum evitabit acerbum, dice un saggio, n’anche la forza di Ercole è bastante a riparare della morte l’aspro colpo.

Dico a te, o dotto. Morieris. Belle lettere non vagliono a placare la Parca, sode dottrine non bastano a persuadere la morte. Non sapientiae parcit, dice Bernardo Santo. A te, dico, o povero. Morieris. Guarda che mentre sei povero di facoltà la morte vuol impoverirti di vita. A te dico, o huomo. Morieris, hai da morire, il tempo passa, la morte viene, è hormai tempo di convenirsi a Dio.

A te dico o Donna Morieris. Quelle tue fatiche, quelle tue vanità s’hanno a cangiare in horridezze, in vermi in puzza, in fetore, e meglio levarle da te stessa, ch’aspettare, che ti siano levate dalla morte. A tutti voi dico: Moriemini. Tutti, tutti habbiamo a morire, perché statutum est.

L’havete intesa. L’havete capita? Volete, che ve lo replichi? Habbiamo da morire. Non sono favole, ma verità certe, ed indubitate […].

Produce la memoria della morte, il terzo effetto, di rendere il Giusto perseverante nella grazia […].

Il Beato Giacopone compagno del mio P. San Francesco stimato il Pazzo di Cristo, pregato da un suo amico a portarli alla sua casa un paio di Polli, gli promise di servirlo; ma che invece di portare i Polli alla Casa dell’amico li portò alla Chiesa dentro d’un sepolcro, del che lamentandosi il Padrone, e trattandolo da Pazzo, il B. gli rispose: Questo sepolcro è la vostra Casa, io v’ho servito pontualmente. Prudente attione in vero, benché stimata da pazzo, perché il sepolcro è la vera nostra Casa […].

Questo è quello, che dico a te, o Giovanotto che l’altro giorno facesti quella divota confessione, che ti risanasti dall’infirmità delle tue colpe. Vade in domum tuam, almeno una volta al giorno considera ch’hai da morire, che sono sicuro, ch’amorzerai li ardori giovanili e nella ricevuta gratia ti conserverai, così avvenne a quel tale di cui racconta il Surio, ch’essendo pessimo peccatore, ricevuta dal confessore l’assolutione, con obbligo solo di portarsi spesso ad accompagnare li Defunti alla sepoltura, essequendo la penitenza in breve tempo abbandonò il mondo, ed ottimo Religioso divenne.

Tu che con la confessione ti risanasti dall’infermità de’ sensuali piaceri. Vade et considera, ch’hai a morire e non sai quando, che così lascerai quella cattiva prattica pratticando con la morte. D’un tale raccontano l’historie, ch’era malamente vissuto, dopo la sua morte fece scolpire la lapide del suo sepolcro queste parole: Finge te esse me. Melior eris te, et me; volendo accennare che s’havesse un peccatore considerato alla morte sarebbe stato migliore Cristiano di lui, che però immaginatevi, che sopra di ciascheduno di questi sepolcri, siano impresse le medesime parole, che ciascheduno di quei morti dica a ciascheduno di voi: Finge te esse me etc, che così nella virtù perseverarete […]».                               Francesco di Ciaccia

 

[1] Istruzione Catechistica sugli Amoreggiamenti, e sopra i Balli, in Corso intero d’una missione sacra composto dal M.R.P. Claudio della Pieve d’Albenga, missionario cappuccino…, in Bologna MDCCLXXIV, nella Stamperia del Longhi, tomo secondo, p. 171. Sigla: Istruzione Catechistica. Per i riferimenti ad essa (pp. 166-179), per concisione non daremo più indicazioni di pagina.

[2] Prediche quaresimali del B. Leonardo da Porto Maurizio coll’aggiunta delle Opere Sacro-Morali, presso l’Editore-Libraio Ernesto Oliva, Milano, 1854, p. 67, col. l e p. 62, col. 2. Vi si legge l’episodio, con il suo epilogo «ateista», di «quel Simon da Tornaco, che illustrò col suo ingegno l’Università di Parigi», finché non si accese […] nell’amore di una certa donna per nome Alcida». Stessi esempi si traggono dalla storia pagana: «una Troja esterminata da un’Elena impura, una Babilonia incenerita dalle lascivie d’una Semiramide», ecc. Più comunemente, anzi universalmente, si attribuisce il «diluvio universale» al fatto che «omnis caro corruperat viam suam», con esegesi condotta per metafora: poiché il significato, semanticamente, di «caro» è «homo», e non «carnalità» sessuale.

[3] Aveva favorito lo sviluppo di una simbolica animale il substrato mentale della credenza nella metamorfosi: esso, a partire già da Ireneo attraverso i Cappàdoci e soprattutto attraverso Origene e, poi, Agostino, era entrato nel mondo latino-medioevale ed umanistico. La «brutizzazione», però, aveva conservato sempre il suo piano allegorico, traducendo soltanto – come avverte Henri de Lubac – quell’«essere (esse) diminuito» con cui Agostino aveva definito il «peccato». In effetti, né un Origene credeva nella metempsicosi e nella metemsomatosi – osserva il de Lubac –, né, tanto meno, un Francesco di Sales, che nel Trattato dell’amore di Dio scriveva: «[…] coloro che abbassano l’anima propria, allettati dai piaceri del senso […], scendono dalla loro condizione mediana a quella più bassa dei bruti» (L. I, cap. 10). Cfr. H. De Lubac, L’alba incompiuta del Rinascimento. Pico della Mirandola, tr. G. Colombo e A. Dell’Asta, Milano, 1977, pp. 196-205.

[4] Opere del Padre F. Giambenedetto da Torino Predicatore Cappuccino, in Torino MDCCLXVI (3 voll.), vol. 1, Predica XXIII, Disonestà, pp. 237-238. Essa comprende le pp. 232-243. Sigla: Disonestà, senza più referenza di pagina. La demonizzazione della donna è originariamente estranea alla Bibbia. Nella tradizione extrabiblica, Lilith, prima moglie di Adamo, è cacciata tra i demoni del Mar Rosso per aver rifiutato l’obbedienza all’uomo, quindi è accostata ai demoni; nella tradizione biblica, Eva, che riscatta la sua colpa con l’obbedienza, rappresenta l’immagine della donna positiva.

[5] Questa «Predica IX», Della vita molle, occupa le pp. 83-93 del tomo secondo, Prediche varie con parecchi esordi suppletivi, dell’opera cit.; per la presente citazione, pp. 84-85. Sigla: Della vita molle.

[6] Mollezza e sesso, favoriti dalle tendenze libidiche, si riteneva formassero, con facilitato meccanismo, la «falsa coscienza, da cui ne siegue l’addormentarsi l’anima ad ogni rimorso» (Della vita molte). Si veda La morte nella mentalità e nella pratica religiosa, in AA.VV., Società, Chiesa e vita religiosa nell’«Ancien Régime», a cura di C. Russo, Napoli, 1976, p. 269.

[7] A. d’Ascoli, La predicazione dei cappuccini nel Cinquecento in Italia, Loreto, 1956, p. 238.

[8] Biblioteca Ambrosiana, F 148 inf., ff. 60r-62r. Il testo ci è stato cortesemente segnalato da Fedele Merelli, che sta preparando l’edizione dell’epistolario Carlo Borromeo – Cappuccini.

[9] A. d’Ascoli, op. cit., p. 238; per le notizie successive, pp. 240-241.

[10] J. Huizinga, Autunno del Medio Evo, tr. B. Jasink, Firenze, 1942.

[11] Vovelle, in Società, Chiesa e vita religiosa nell’«Ancien Régime», cit., p. CXLI. Sigla: Vovelle, 1976.

[12] J.-D. Urbain, Morte, in Enciclopedia, Einaudi, vol. IX, Torino, 1980, p. 523.

[13] Le Goff, La nascita del Purgatorio, Torino, 1982; per il nostro tema, soprattutto pp. 327-380.

[14] Su Bossuet, cfr. anche H. De Lubac, op. cit., p. 228.

[15] Giambenedetto da Torino, op. cit., vol. 1, Predica Prima, La Morte. Sigla: La Morte.

[16] M. de Certeau, in Società, Chiesa e vita religiosa nell’«Ancien Régime», cit., p. CXLVI.

[17] Archivio Prov. Cappucc. Lombardi, sezione ms, A. 80, dal f. 151r al f. 15v.

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