1986, SFSL, Studi manzoniani, Selezione di

Selezione di studi manzoniani, «Studi e Fonti di Storia Lombarda. Quaderni Milanesi», 11 (1986) pp. 176-188; poi Literay.it [2016].

Titolo e Testo dell’articolo

Selezione di studi manzoniani (1984-1985)

Segnalando alcune tra le più recenti pubblicazioni «manzoniane», seguiamo un criterio selettivo, sia nell’individuazione delle opere, sia nella presentazione critica, in armonia con la specificità della presente sede. La scelta privilegia il settore biografico e storico, e su questi aspetti converge la focalizzazione del giudizio.

Il Manzoni di Ferruccio Ulivi (Rusconi, Milano 1984) è stato ritenuto da qualcuno un «racconto» biografico con prevalenza saggistico-letteraria. In effetti, le trame delle vicissitudini storielle e personali fanno da sfondo che spiega la produzione del Manzoni, e rappresentano la guida che illumina i fattori soggettivi degli scritti manzoniani, così come il loro valore e la loro correlazione. Tuttavia, oltre che nell’imponente materiale biografico, sapientemente valutato, il libro consegue la sua pregnante importanza nel seguire il «personaggio» in tutta la sua complessità, fin nelle profonde fibre di un uomo che, a volte dirompente ma a volte sconcertante, rimanda alla problematica rappresentazione della provvidenza quale è nella Colonna Infame. Ciò presuppone, e non esclude, che punti chiari sussistano, tenaci, nell’animo e negli atteggiamenti del Manzoni uomo, come del resto concetti fermi resistono nella sua dottrina sulla Provvidenza. Merito dell’Ulivi è d’aver compreso una linearità essenziale nella storia intima e psichica del «personaggio», la quale determina ed insieme chiarisce le stesse manifestazioni conflittuali, come ad esempio l’indifferenza verso il padre, l’auto-inganno circa i problemi di salute, critici e cronici, di Enrichetta, il disturbo mentale, ecc. La vicenda del Manzoni corre su un binario: la ricerca della verità, nell’ordine sia pratico, sia teorico. L’equilibrio, inscritto nel flusso vegetativo, è a volte, o spesso, precario nei fatti. Ma neppure in questa attenzione di Ferruccio Ulivi, tra la spassionatezza dell’osservatore e l’amorevolezza del biografo, è la definitiva robustezza della sua rivisitazione. Essa è nell’aver scorto che l’invisibile del dramma del Manzoni sta nella domanda sulla relazione tra uomo e Dio, e sulla sua esperienza, impossibilmente vera e donata. Il quesito sulla natura, sentimentale o intellettuale, della conversione del Manzoni è da spostare, dunque, su questo terreno, il quale accoglie, sì, emotività e ragione, ma come strumenti fenomenici, e non come dinamismo fondativo: essa è la conclusione del rapporto, dibattuto già nell’animo giovanile, tra l’io e Dio. L’Ulivi mostra bene la direzione «seria» del Manzoni adolescente e, poi, giovane, il cui stadio successivo, nonostante –– anzi, attraverso –– le contraddizioni, è costituito dalla coscienza che sa Dio qui, occasionalmente divenuta immaginifica nel ritrovamento della moglie. A questo punto l’Ulivi svela acutamente che la partita non è terminata: ri-comincia. Ora, consapevolmente. E sempre con il rischio che l’uomo, per un assurdo possibile, perda l’ineludibile. Perciò, il biografo non rabbrividisce, scandalizzato –– tanto meno, scandalizzando ––, delle debolezze, delle ansietà manzoniane. Neppure di quelle finali, al tempo della faticosa rinascita che è nella morte.

Chi può esser certo di essere, davvero, «un semplice servo?» (dall’exergum).

Con Alessandro Manzoni (Edizioni Paoline, Roma 1985), Umberto Colombo punta dichiaratamente a presentare un Manzoni completo, benché non esaustivo –– né potrebbe esser diversamente, come egli nota ––: cioè, rivela del Manzoni anche quegli aspetti che molta letteratura e tanta critica hanno deliberatamente o ignorantemente trascurati, dimenticati, evitati, e si propone di stimolare a leggere «tutto» il Manzoni. Il critico individua, come caratteristica dominante, il dinamismo intellettuale e morale del «personaggio»: la conversione è un punto miliare dell’itinerario di questa personalità «rivoluzionaria», ma non l’unico. Per fare qualche esempio, sono innovativi il genere apologetico delle Osservazioni e, anche a parte il «romanzo storico», il poliedrico racconto-saggio della Colonna Infame e il dialogo Dell’invenzione, superiore sintesi di poesia e metafisica dell’arte. La trama biografica si snoda con familiarità nella mente di Umberto Colombo, che sembra raccontare avvenimenti –– come si suol dire –– «di casa». Lo stile è gradevole, chiaro il linguaggio, sì che la lettura è come sospinta dal gusto di sapere. L’Autore inserisce, nella «vita», gli scritti del Manzoni con ampi e frequenti stralci citati, ottenendo lo scopo che il Manzoni stesso «parli da sé». Circa le Osservazioni, il Colombo dà rilievo all’acutezza della lettura evangelica da parte del Manzoni, che ha trovato nella rivelazione una potenza dialettica risolutrice dei «paradossi» razionali. Circa la «filosofia dell’arte», in cui consiste il Dell’invenzione, il critico-biografo individua, con la coscienza sicura che gli deriva dalla lunga militanza sull’argomento, la suprema, ultimativa definizione manzoniana della «poesia»: rosminianamente, conoscenza del «vero divino», che è diffusivo di sé nella creazione, sia singola, sia universale. Non terminerei senza avvertire che il pregio del Colombo è nel trapassare spontaneamente e con competenza da accenni critico-letterari –– in cui non mancano pungoli contro i vaniloquenti –– a riflessioni sensibili ai risvolti profondamente umani dell’opera manzoniana, con i loro «umili», i loro messaggi di «grazia», le loro conformità bibliche.

Nel filone biografico si collocano La monaca di Monza. Venere in convento di Roberto Gervaso (Bompiani, Milano 1984) e Giulia Manzoni Beccaria di Guido Bezzola (Rusconi, Milano 1985). Del primo libro dirò poco: equilibratamente senza encomio, esso ripropone il Mazzucchelli, pur con nerbo meno teso, e senza infamia, poiché si astiene, perlomeno, dal gonfiare i facili spunti sollazzosi. Tutto sommato, è una facile biografia ripetitiva.

Il secondo è un libro snello, ma al contempo fondatissimo nella documentazione mai trascesa, e problematizzante nella disamina storica ed esistenziale. Il Bezzola, che necessariamente coinvolge tutto l’entourage della famiglia e degli amici di Giulia e di Alessandro, trattandone con ben diversa competenza e con ben altra intelligenza rispetto agli squallidi ritratti di «famiglia», sa correggere alcuni luoghi comuni di precedenti scrittori e sa guardare il «personaggio» con gli occhi del personaggio stesso –– come ha già osservato la attenta Renata Lollo in una sua recensione ––. Della ingente mole narrativo-biografica, intessuta di puntuali tasselli storici, intendiamo cogliere alcune consonanze tra madre e figlio: collegio, assenza paterna, travaglio interiore fino a «rivoluzioni» mentali. La morte della madre di Giulia, Teresa Blasco, si insinua come differenza rispetto agli elementi vissuti di Alessandro, ma anch’essa concorre a costruire una necessità affettiva che fece di Giulia la «gran madre» mediterranea in casa Manzoni. Forse, il rapporto Giulia-Carlo precorre, fenomenologicamente, quello di Alessandro-Giulia (al di là della «maternità» fisica di costei)? Comunque, ci soffermiamo soprattutto sullo svolgimento interiore di Giulia, che più d’una volta dovette partire dall’inizio, ricominciare da capo! «Tutt’altro che perfetta», fu una donna, tuttavia, non solo intelligente oltre che «impetuosa» –– e troppo ––, ma anche provocatrice di sé nel cammino verso più chiare verità; tutto sommato, non la si può affatto conchiudere, come invece han fatto altri, nella rappresentazione di un’eccentrica esuberante e di una rozza isterica e/o mistica. Si capisce agevolmente che Guido Bezzola ha vissuto intimamente con il «personaggio»; ma ciò non ha comportato stravisamenti interpretativi; gli ha permesso di capire fino in fondo che la personalità della Beccaria è quella di una donna imbevuta dello spirito del suo ceto, una donna sottilmente orgogliosa e dominatrice –– da qui, alcune teatralizzazioni ed alcuni dissidi intersoggettivi ––, ma anche lineare nel bisogno di superarsi verso mete più giuste, e onestamente sincera.

Del Manzoni e i suoi colleghi (Sansoni, Firenze 1984) di Sergio Romagnoli, di cui riteniamo preziose le analisi variantistiche, qui ci limitiamo al rapporto tra «lingua e società nei Promessi Sposi», che ne costituisce un capitolo. L’autore assegna al Manzoni il merito, unico per il suo tempo, d’aver intuito che il materiale narrativo può essere, sì, «manovrato», ma in tanto in quanto rispecchi la «verità delle cose». Il personaggio privilegiato –– in questo contesto –– è Renzo, «che non subisce un’acculturazione impostagli come privilegio che lo estranei dal suo strato sociale d’origine». A parte l’egregio lavoro sull’idioletto renziano, che tra l’altro comprova la trasmissione di «una morale intrinsecamente pura», amiamo approvare la posizione del Romagnoli per cui l’adattamento ai sistemi segnici «corrotti» passa in parallelo non già alla pace, ma alla «pace amara»: il «lieto fine» è falso, se posto nella «lezione» imparata da Renzo. Il «fine» reale è, e sarà per sempre, nella pur inevitabile equivocità e controvertibilità dell’esistenza atroce o quanto meno spuria, esattamente in questa conclusione: che «nulla è successo», nulla, al di fuori di quel che si è imparato come forza che irrompe nella vita e travolge in bene il male, ristabilendo le proporzioni del giusto nel mondo. E questa forza è che, vengano per colpa, o vengano senza colpa, c’è qualcuno che rende dolci i guai. Dolci e –– nel romanzo è narrato –– potenti.

Altra raccolta di saggi è L’Adda ha buona voce. Studi di letteratura lombarda dal Sette al Novecento (Bulzoni, Roma 1984) di Piero Gibellini, che sul Manzoni ripubblica un articolo sulla «metamorfosi del dolore», incentrato sulla figura della madre di Cecilia, che «scendeva dalla soglia.…» Il taglio variantistico si dispiega in dottissima analisi stutturalistica, semantica, stilistica e sintattica, con acuto escavo, inoltre, concettuale, soprattutto sulla Metastoria che «supera, non rinnega, l’impegno della Storia».

Da segnalare, qui, per la specificazione «lombarda», il volume I Lombardi in rivolta. Da Carlo Maria Maggi a Carlo Emilio Gadda (Einaudi, Torino 1984) di Dante Isella. Il critico tratta anche dei rapporti, documentandone la sincerità affettuosa e, sul piano letterario, l’affinità «familiare», tra Manzoni e Porta.

Speciale considerazione, tuttavia, merita, per la palese volonterosità dell’Autore, La fabbrica della peste (Laterza, Bari 1984), d’argomento «storico» e «sociale», di Franco Cordero. Il giurista coinvolge nel genocidio della peste, generato dall’«immaginario», non solo magistrati –– meno di quanto li coinvolga il Manzoni –– e «curiosi filosofanti», ma anche «dottori senza grammatica» e «domenicani imbroglioni». Passino pure gli «imbroglioni», che pericolosi lo son sempre; ma non si è capito come c’entri, nell’ammazzamento, la «grammatica». Forse, più motivo di preoccuparsi l’ha avuto il Manzoni, del quale altamente si scandalizza il penalista fino ad irritarsi almeno tanto quanto il Manzoni, che colpevolizzava la «volontà» e non la grammatica: a meno che un errore di sintassi uccida più atrocemente di una «cattiva» intenzione messa in atto. Dato che a lungo parlammo di questo veloce saggio, puntiglioso quanto verboso, esigente quanto scivolante, qui abbiamo citato solo dalle prime righe della Prefazione. Il resto si discioglie con la stessa imperizia: attenzione, non già giuridico-penale, in cui l’Autore è egregio competente, ma «storica» e «sociale». Ma attenzione: questo, non già perché Franco Cordero sia incompetente in materia, ma perché è troppo competente nel «persuadere» più che nel provare –– intendiamo sempre dal punto di vista critico –– l’inconsistenza dell’impostazione manzoniana –– logica ed etica ––, sia della Colonna Infame, sia degli altri scritti. Altro non aggiungiamo, se non che il principale interesse del libro consiste nel cogliere lo «psicodramma». Anche dove non c’è. Bisogna riconoscere che Franco Cordero «scova», davvero, «archetipi sommersi e li decompone»: un pregio, questo, che ci si augurerebbe da ogni altro studioso della storia. Riteniamo, però, che la disamina trovi il proprio fallimento metodologico in questo esito, cioè nel fatto che è essa stessa guidata da un «immaginario» psicodrammatico. E non stiamo, qui, a dimostrarlo. L’opera convince più d’ogni nostro commento.

Benché edito nel 1980, Il romanzo contro la storia. Studio sui Promessi Sposi (Vita e Pensiero, Milano) è stato ristampato nel 1984, e noi lo ricordiamo per il precipuo valore di «immagine» di storia che esso coglie nel romanzo manzoniano. Giorgio Bàrberi Squarotti inizia con l’indagine circa la «storia interiore», che è sviluppo, apertura, coscienza: essa appartiene agli esclusi dalla storia delle «Attioni gloriose». Ciò, tuttavia, è asserito sulla base di una configurazione teorica fondata sul «sublime» della saggezza cristiana, sfuggendo così all’ontologizzazione del «sociologico» di stampo gramsciano, il quale identifica il grado «umile» della stratificazione sociale con il valore della «coscienza» giusta. La densa meditazione del critico esplica il principio cardine del pensiero manzoniano circa la «storia»: esso è il ribaltamento dei valori della storia. Certo, la letteratura è in-efficiente, non efficit, non «muove i cannoni» –– per servirci di un’espressione famosa (ma, a questo punto, l’imperativo della letteratura sarebbe quello di «muovere» ciò che è antitetico al «cannone»!) ––; tuttavia, essa ha creato già, nel simbolo, il rovesciamento, sul quale a lungo e sapientemente il critico si sofferma e ragiona: la città di vita è città di morte –– al di là degli agorafobismi ––, e la città di morte è la città di vita.

Il Manzoni (Laterza, Bari 1985) di Salvatore S. Nigro, opportuna edizione a sé stante del vol. 41 della Letteratura Italiana Laterza (§§ 32-41), offre –– per quanto concerne il presente nostro taglio –– una lucida analisi del percorso evolutivo del Lombardo, sul piano sia ideologico, sia letterario, entro il quadro delle sollecitazioni storiche e filosofiche, che scandiscono alcuni tempi ed alcune interruzioni del lavoro manzoniano. Il libro, contenutisticamente molto denso ed espositivamente contratto, è corredato di testi manzoniani. Specifica è l’attenzione del Nigro al messaggio politico-sociale del Manzoni. Ne I Promessi Sposi egli vede il merito letterario nel fatto che «in essi il progetto di società non è una sovrastruttura: si identifica piuttosto con la struttura “mitica” dell’opera, peraltro fondata sulla “predizione” (Bachtin) intesa come proposito di incidere sul futuro della realtà alla quale si apre […] l’inexpletum del finale».

Riflessioni sulla storia non mancano neppure in Per amore di Lucia (Rusconi, Milano 1985) di Giorgio de Rienzo, che manifesta tutta la sua partecipazione affettiva al «personaggio». Qui, riscontriamo soltanto come il critico sia pervenuto ad elicitare l’incidenza di Lucia non solo nelle dimensioni «prestorica» e «sovrastorica», ma anche in quella «storica», reale. I «guai», inevitabili, sospingono anche gli abitatori dell’«Eden» domestico ad incontrare il male del «momento»: Luca li accosta con la forza «terribile» della debolezza sul piano «storico». Che è l’unica per riproporre e riformulare un’altra «storia».

Giancarlo Vigorelli, curando Il «mestiere guastato» delle lettere (Rizzoli, Milano 1985), propone la lettura del Manzoni «antiletterato»: nemico della letteratura «amena» e della poesia «falsa», che contrasta con le scelte morali dei compositori stessi. Il Lombardo «non riposerà» mai fino a quando non avrà legato strettamente «poesia» e «morale» –– in ciò sta lo specifico romanticismo manzoniano ––. L’antologia offerta dal Vigorelli raccoglie i testi manzoniani sull’argomento, compresi quelli meno noti, e, come introduzione saggistica, premette un’articolata riflessione storico-letteraria su Manzoni, e la rivalutazione dei valori romantici. Per la nostra prospettiva è da rilevare la sezione sull’«Unità della lingua e l’unità d’Italia», che sfata la «leggenda» di un Manzoni disimpegnato. Proprio l’«eterno lavoro» linguistico –– avverte il Vigorelli –– risponde, tutt’altro che ad un gioco erudito, pur prezioso per aver enucleato l’«idioma gentile», all’intenzione di plasmare una «sintassi morale» per gli italiani e per tutti gli uomini, alla quale peculiarmente obbedisce il romanzo manzoniano.

Atteso come «la più importante novità dell’anno manzoniano» (G. Farinelli, in «Ragguaglio Librario», 7/8, 1985, pp. 210-211), il volume Vita e processo di Suor Virginia de Leyva monaca di Monza (Garzanti, Milano 1985), con Presentazione di Giancarlo Vigorelli, Presidente del C.N.S.M. e notissimo manzonista, si dimostra, alla prova del fatto, davvero lusinghiero. La sua eccezionale appetibilità trova ragione nella sana «curiositas» storica e giudiziaria, poiché esso contiene la «trascrizione integrale» degli atti processuali, curata meticolosamente da Giuseppe Farinelli. Il volume però, oltre all’attrazione, che potremmo dire di massa, suscita l’attenzione dello studioso che voglia essere lucido e che sia serio. Un caso eccezionale, questo, tra l’altro perché una materia inquietante non viene, come potrebbe stupidamente accadere, strumentalizzata provocatoriamente, ma, guardata in viso onestamente e senza veli, è sottoposta a bisturi pluridimensionale. In effetti, il libro offre una serie di supporti storici e critici, quali lo studio biografico rigorosamente documentato e saldamente oggettivo, alieno da fronzoli «romanzeschi» (Ermanno Paccagnini), la riflessione giuridica competente, chiarificatrice della correttezza procedurale (Franco Galliano), la considerazione letteraria sulla «fortuna» del personaggio in questione, storico e romanzesco (A. Mazza Tonucci). Qui ci soffermiamo sugli altri saggi. Quelli più strettamente storici sono firmati da Attilio Agnoletto e, per il fenomeno delle monacazioni forzate nei secoli XVI-XVII, da Enrico Cattaneo.

Agnoletto indaga su questo «caso» quale indizio, o spia, di una situazione epocale che presentava, possiam dire, due poli elettrici, forieri di scintille scottanti: l’impostazione repressiva del controriformismo ambrosiano e la diffusa credenza nella magia (la de Leyva costruì l’autodifesa sull’ipotesi di un incantesimo patito). L’Autore spiega, in un accuratissimo spaccato storico, molto articolato, le dinamiche determinanti l’atteggiamento di impotenza, generatrice di «violenza». Merito dello scritto di Agnoletto è di problematizzare la questione: episodio conturbante, in primo luogo per il Borromeo, quello della Monaca di Monza non assurse a significazione esaustiva dell’attività e della mentalità federiciana, pur non eluse le «strane opinioni» del cardinale, che lo storico ha ben cura di collocare nel suo «tempo» disastrato. L’infuocata diatriba circa la manipolazione inquisitoriale, di cui l’Agnoletto non è tenero studioso, è sottoposta ad avveduta e spassionata analisi, che scandaglia tra le pieghe della contestazione politica contro gli Spagnoli. Un’opposizione politica non può mai ammettere l’astio del cuore, non dico l’attacco funereo; ed è proprio qui che la larga disamina di Agnoletto mostra la sua sapienza storiografica, cioè nell’aver saldato alle tensioni politiche le premure pastorali –– o, anche solo, le preoccupazioni –– verso le moniales. Santo, oppure meno santo, Federigo? Lo storico non lo decide. Decide però che, santo o meno, Federigo opera nel suo tempo. Ma da ciò ad assommare, nella prepotenza della cura prevaricante, la Chiesa milanese e lo stesso cardinale, c’è un passo difficilmente sostenibile. E Agnoletto non lo ritiene sostenibile.

Enrico Cattaneo, storico della liturgia, prova ed illustra come la monacazione –– claustrazione –– fosse storicamente un esito congiunturale degli equivoci del tempo, determinanti una prassi non già universale, ma certo frequente. Anche, i «condizionamenti» meno disdicevoli, del resto, potevano causare incresciose situazioni esistenziali, oltre che spirituali. Da ciò i risultati di fatto: tendenze mondane in parecchi monasteri e, per reazione disciplinare, provvedimenti normativi inibenti. Ci si chiede se il problema non fosse stato affrontato alla radice. Fu affrontato. Ma, come osserva il Cattaneo, la legislazione ecclesiastica, sia universale, sia metropolitana, diffidando, con pesantissime pene canoniche, dalle forzature ad vitam religiosam, non trovava presupposti sociologici confortanti l’attuazione di principio. Era necessario che i «tempi» cambiassero.

Malgrado ci siamo imposti un taglio diverso, non possiamo obliterare l’analisi letteraria della Gertrude manzoniana di Umberto Colombo, solida per la competenza del critico e, intrinsecamente, coerente nella ricostruzione «storica» del condizionamento subito dalla fanciulla. Dunque: culpa «in causa», oppure «in re»? La colpa è sempre «in causa»: ma, nel fatto, nell’attuale compromissione dell’uomo con se stesso, quando è in gioco cosciente il proprio destino di fronte all’Unico, al Santo, non possiamo ritenerci autorizzati a qualsiasi azione. Il Consolatore ci difende: contro le scelte perverse. E ci basta. Se non fosse bestemmia, ci avanza. Questo il succo della Gertrude manzoniana, e ci è parso fondamentale segnalarlo: anche se molto si dovrebbe dire, di altro, sulla ricca riflessione del critico.

Tra le riedizioni delle opere manzoniane segnaliamo quella delle Osservazioni sulla morale cattolica (e) Storia della Colonna infame (Garzanti, Milano 1985) a cura di Franco Mollia, prefazione di Carlo Bo. Carlo Bo instaura una stretta relazione ideale tra le due opere, l’una rivelante la «giustizia» dell’uomo verso Dio, l’altra la «giustizia» dell’uomo verso gli uomini; la prima è manchevole, quando l’uomo si attenga alle proprie forze, la seconda è perversa, quando egli si attenga exclusive alla propria prepotenza. Franco Mollia introduce l’edizione con chiare e penetranti sintesi delle due opere manzoniane. In altra sede ci ripromettiamo di presentare più analiticamente l’acuto scritto del Mollia e la profonda riflessione del Bo.

Delle Stresiane. Dialoghi di Alessandro Manzoni con Antonio Rosmini elaborati da Ruggero Bonghi (Camunia, Brescia 1985) ci occupiamo del saggio introduttivo, che costituisce anche un’utilissima spiegazione dei quattro dialoghi che compongono l’opera, di Pietro Prini (pp. 1-57). Qui ricordiamo la difesa della loro «storicità» la cui conclusione deriva dall’interpretazione situazionale di dichiarazioni contrastanti. Il contenuto delle Stresiane procede dal problema dell’unità e della molteplicità delle idee, sviluppando il dialogo Dell’invenzione, e slargandosi in tematiche più espressamente filosofiche, culminanti nella questione delle condizioni metafisiche dell’atto creativo di Dio.

Di particolare interesse anche storico è Il libro per tutti. Saggio su I Promessi Sposi di V. Spinazzola (Editori Riuniti, Roma 1983), perché affronta l’opera con preoccupata attenzione al messaggio politico e sociale del Manzoni. Egli si avvicina al senso di precarietà, che è intrinseca alla scientificità politica, avvertito dal Manzoni, tanto da non scandalizzarsi del giudizio manzoniano globalmente pessimistico circa la storia. Egli non configura Manzoni come «liberale» superato, poiché ne scorge il verbo definitivo non già, tutto, nello stesso liberalismo, né, ancor meno, nel dubbio circa la perfettibilità assoluta dell’umana società. Neppure l’«appello metafisico del Cristo», essenziale nel quadro manzoniano, esaurisce la soluzione insita nel romanzo: essa consiste, sì, nel ribaltare il fenomenico della storia, come «Attioni» sopraffattrici, in virtù d’un principio interiore; ma tale impulso è da riscontrarsi visibilmente in una organizzazione reale, che funga da modello. Per il Manzoni, tale organizzazione è la Chiesa.

Contesto sociale e «credo» interiore, esigenza letteraria di un pubblico allargato e fedeltà ad un messaggio immodificabile se non come recupero dell’originario, tensioni sociopolitiche e sguardo alla santità della vita, dialettica dei personaggi e ironia del falso «anonimo», movimento spiraliforme della trama e metafisica del sacro, queste ed altre fondamentali problematiche affronta l’autore, con quello stile scorrevole e avvincente, pur nel rigore terminologico e nella elevatezza lessicale, che –– lo diciamo per prima cosa –– fanno del libro un’inquietante e serena meditazione «per tutti».

Non diamo un sunto del saggio, già recensito da molti, né un giudizio articolato, che richiederebbe numerosi paragrafi. Notiamo soltanto il centro focale raggiunto dall’autore dopo contrastanti direttrici cui, ricorrentemente, si è accostata la critica manzoniana. Il Manzoni, con ansia pur pacificata e con divertimento pur preoccupato, ha aperto l’uscio ai credenti e ai non credenti: diversamente. Ai primi ha indicato la santità come presupposto intrascendibile per la salvezza del mondo, ai secondi ha mostrato come l’assenza di essa, non già la presenza, disturbi e laceri la giustizia sulla terra. Discorso chiaro: servito, però, su un piatto di non facili, perché non possibili, rappresentazioni discriminanti. Non solo: Vittorio Spinazzola ha capito bene la precarietà intrinseca della scientificità politica ed economica, secondo la mente del Manzoni. Nell’assumere parametri liberali (sui quali tanti lettori han costruito interpretazioni metodologicamente monche), il Manzoni al contempo li oltrepassa nell’attualità interminabile del verbo cristiano; per contrario, l’assunzione dell’«appello metafisico del Cristo» –– sul cui crinale, unico, si discriminano le propulsioni al bene dell’uomo, che è nell’amare, e al male dell’uomo, che è nello sfruttare –– si staglia entro un quadro che è sociologico. Il «sistema ideologico» manzoniano nulla concede alla «concezione immanentistica» dell’esistenza: ma, poiché l’integrismo poggia tutto sull’obbedienza al Verbo di carità, ecco dunque che la «sfiducia nell’uomo» e «nella storia», essendo senza quartiere, contiene in sé il principio della sua resurrezione. La problematica storica si risolve, centellinandosi, in problematica spirituale –– nei disegni episodici, psicologici ––, che pure, a sua volta, non resta chiusa in sé, dato che essa, strutturalmente e dinamicamente, in tanto è valida in quanto si attiene al dettato dell’amore del «prossimo», in cui è scorta un’«immagine fatta a somiglianza di Dio». Massima «cattolicità», dunque: che è anche la suprema parola, nel primigenio ribaltamento dei valori dell’autoconservazione, della vita associata. Spiritualità evangelica e socialità terrena si coniugano indissolubili.

In uno svolgimento complessivo così lucido, già la cui sinopia raccoglie tratti icastici di pensiero, lo Spinazzola individua anche i limiti dell’impianto manzoniano: il quale si pone cioè, sostanzialmente, «sulla difensiva». Lo denunciano la squalifica dell’universo politico estraneo alla legge cristiana e l’interdizione del sesso. Ma l’una e l’altra –– in pratica, l’antimachiavellismo e l’antiedonismo –– sono ricomposte dallo Spinazzola in una linea di significato positivo: la prima, dando respiro all’idea che occorra «superare ogni particolarismo» e «formare un organismo collettivo nutrito d’un senso adeguato degli interessi generali» (del quale, assurge a tipicità, non «politica» ma ideale, la comunità dei credenti veramente nel Verbo e dei fedeli allo Spirito); la seconda, imprimendo slancio alla «comunione affettiva» (in se stesso, il sesso è meccanicismo).

Le singole analisi, che si snodano e si intrecciano robustamente ed appassionatamente, rivelano l’acutezza di pensiero, cui non serva il ricorso alle diatribe, sul Manzoni; non solo, ma anche la maturità di giudizio sulla realtà della vita individuale e sociale; da ciò nasce l’equilibrio dell’intelligenza, unito ad una profonda mitezza di cuore.

Tutto sommato, vorremmo dire soltanto una cosa: che il libro va letto e meditato attentamente.                           Francesco di Ciaccia

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