1991, IF, I Cappuccini al Sacro Monte sopra Varese

I Cappuccini al Sacro Monte sopra Varese. Una controversia storiografica, «L’Italia francescana»,  4 (1991) pp. 293-298.

Testo dell’Articolo

Un libro ed un’«epoca»

Un’imponente opera sul Sacro Monte sopra Varese, ampiamente studiato da Luigi Zanzi dell’Università di Pavia, merita particolare attenzione per le sue prospettazioni storiografiche circa il concetto di storia «locale». L’idea di «località» travalica, nell’impostazione dell’autore e ormai di altri studiosi, la parcellizzazione delle vicende storiche e quindi il concetto di storia «minore»: un fenomeno «locale», se oltrepassa il cronachismo, intrinsecamente interseca i fattori causali e gli elementi fattuali di un delimitato «ambiente» (fisico e culturale) e le vicissitudini di un’epoca, «riflette» la cosiddetta «grande storia» e può esserne, quindi, assunto a «spia» e a «prova», come – per fare un paragone spicciolo – la vicenda di una determinata famiglia in un determinato territorio assume il ruolo «rivelatore» della situazione «generale» dell’istituto familiare in quell’epoca e in quel contesto culturale, e al contempo da essa è spiegata. Dunque, lo studio dei singoli fenomeni «locali» (territorialmente e corporativamente intesi), se vuol proporsi con spirito storico giustificato su ampie proporzioni va inscritto nelle sue intersecazioni con i complessi ambiti della vita umana, da quelli sociali, economici, politici e istituzionali a quelli religiosi artistici ed esistenziali. Su questo presupposto ermeneutico il ponderoso lavoro di Luigi Zanzi rappresenta un esempio illuminante e consapevole, con le sue proposte teoriche (in «questioni di critica») e con la sua complessiva attualizzazione pratica, nella quale si ammira l’inserimento del fenomeno «sacromontano» subalpino in molteplici e connesse problematiche generali, di cui il sottotitolo del libro – Studi sulla cultura religiosa e artistica della Controriforma – indica chiaramente l’ampiezza.

Ne menziono alcune. La storia del «pellegrinaggio»: dalla medioevale concezione dell’«ascendere», emblema «profetico» del procedere alla «Gerusalemme celeste» sotto la raffigurazione simbolica della «montagna gerosolimitana», in età post-tridentina si passò alla «crociata» contro il «pericolo» luterano. Se il Sacro Monte a «imitazione di Gerusalemme» aveva costituito un sostituto della Gerusalemme terrestre occupata dall’islamismo, il Sacro Monte in età moderna venne caricato di un altro scopo e senso: coagulare le genti, entro un rigido cerimoniale di oratoria e di simbologia «teatralizzata», in una istituzione conclamante le verità rinnegate dal «nemico» protestante, contro il quale il «sistema sacromontano» subalpino si erigeva a «baluardo» insieme simbolico e pratico. Molto articolato e puntualizzato è lo studio di Luigi Zanzi al riguardo, che vi dedica centinaia di pagine, anche perché – e si comprende la vastità dell’indagine – il problema indicato richiama 1’«età dei due Borromeo» e la civiltà secentesca. E questa è appunto un’altra tematica – la più gigantesca – che il fenomeno dei Sacri Monti lombardo-piemontesi trascina tanto impetuosamente quanto sconfinatamente: vi è coinvolto tutto un ciclo bicentenario dall’universo religioso nei suoi settori della pietà popolare e della predicazione a quello politico-ecclesiastico con la legislazione tridentina e poi borromaica; dalle espressioni barocche alle attività lavorative; dalle aspettative del « popolo» agli interessi degli operatori d’ogni campo. E proprio qui s’incunea una riflessione, cui nel titolo accennavo.

 

Un interrogativo

La concezione secondo cui i processi della storia «operata» sono frutto di «movimenti» generali – che vedono in campo interessi imprenditoriali, scelte di politica civile ed ecclesiastica, coscienza religiosa, bisogni di fede, ecc. -, e non già di singole personalità, è un teorema che presiede alla ricerca storica di Luigi Zanzi: una teoria tanto comprensibile quanto condivisibile. Oserei dire che sia scontato per noi moderni il principio secondo cui l’operare – soprattutto pubblico – dei singoli in un determinato tempo e spazio sia debitore delle tendenze storiche e influenzato dalla temperie culturale. E oltre a questo teorema generale lo storico della «località» guarda giustamente a un altro presupposto: il connettersi specifico dell’attività individuale con l’ambiente che quell’attività specificamente supporta e spiega.

Allo storico grava dunque l’onere di dimostrare la dipendenza della scelta individuale dalle generali condizioni di «civiltà» epocale. Diversamente, invece, ragiona un filosofo, e cioè per deduzione: nel suo sistema sono i fatti a dover «star dentro» al sistema – non viceversa – poiché le «conclusioni», discendendo da premesse di «ragione», non chiedono di per sé verificazione né negazione dai fatti. Lo storico, al contrario, deriva l’idea del «generale» per via di induzione, cioè «rintrecciando» eventi reali conformi (questo o quello stile in arte, questa o quella norma giuridica, questa o quella pratica morale e così via), che fanno sì che quegli eventi si configurino sotto un unico e determinato «concetto»: cultura «controriformista», «barocca», «industriale» ecc. Il volume sui Sacri Monti e dintorni si rivela scrupoloso nella documentazione fondativa della cultura controriformistica, sulle cui manifestazioni e sulle cui derivazioni egli svolge intrecci logici di riflessione attenta. Tuttavia è il caso di segnalare una lacuna documentaria circa – per ripetere la mia espressione di cui sopra – lo «specifico connettersi dell’attività individuale con l’ambiente che quell’attività supporta o spiega». E la lacuna – bisogna subito segnalarlo – è forse dovuta semplicemente al fatto che non si era ancora a conoscenza di un documento inedito, importante per la determinazione degli «attori» delle Cappelle varesine, scoperto da Fedele Merelli. E intanto il Merelli ha già pubblicato un altro «corpus» di inediti sull’argomento, in un libro da me in diverse forme recensito. Ma vediamo di illustrare la questione, che interrogativamente pongo alla premura dei cultori e dei ricercatori del vero.

Dichiaratamente subordinando l’opera degli individuali alle istanze della coscienza comunitaria, come sopra s’è detto, (in questo caso, del «popolo credente» oltre che gli operatori economici, artistici, politici, ecc.), si definisce l’apporto del singolo predicatore come «voce che interpreta» quelle istanze, se ne fa «specchio» e magari la esplicita e le esprime. Trascuriamo la questione teorica: perché, se è vero che ogni storica operazione individuale è «motivata» da «impulsi» epocali e se tuttavia è anche vero che in alcuni casi un’operazione personale di alcuni uomini «di spirito profetico dotati», per dirla con Dante, trascende la direttrice tendenziale dell’epoca ponendosi magari come «rottura» delle «linee di forza» coeve, questo del «predicatore» delle Cappelle varesine non rientra nel caso. È in effetti documentato – e l’indicazione non mi pare inficiata da secondi fini – che l’intuizione del padre Giambattista Aguggiari da Monza, «iniziatore» (per il Merelli) o «ispiratore» delle Cappelle, era già nell’aria, da quelle parti del Sacro Monte: il curato di Malnate, Vincenzo Gigli, sembra che già avesse avuto in mente quel progetto, già il segretario del Magistrato Straordinario di Milano Giovanni Antonio Rainaldi, lo aveva vagheggiato, e ci avevano pensato le stesse «romite» del Monte sopra Varese – così comprova lo Zanzi, p. 75.

Il Merelli gode però di una documentazione, che garantisce come il padre Aguggiari sia stato iniziatore delle Cappelle, non solo nel documento Origine, e progresso delle cappelle nel sacro Monte sopra Varese ecc. (il cui manoscritto manca proprio del capitolo riguardante 1’«iniziatore» delle Cappelle), ma anche in una lettera del marzo 1608, in un’altra, di Federico Borromeo al vescovo di Cremona del l0 dicembre 1614, e in altre ancora.

Un altro interrogativo è sulla qualità della predicazione. Sostenere che la predicazione secentesca era barocca, è comprovato dai documentari dell’epoca. Che presumibilmente lo fosse anche quella di un determinato predicatore, è verosimile. Ma non è certo. Perché se ne possa avere contezza certa, occorrerebbe rivolgersi ai testi della sua predicazione o, indirettamente, alle testimonianze sulla sua predicazione. In mancanza di quelli o di queste, risulterebbe più verosimile storicamente, per supporre le caratteristiche dell’oratoria del tal predicatore, riferirsi alla normativa a cui anche in tema di predicazione soggiaceva quel tale individuo. Né si può paragonare, e tanto meno eguagliarla, la predicazione di un Ordine religioso con quella di un altro Ordine, e meno che meno quella francescana dei Frati Minori (diciamo Osservanti) con quella della riforma cappuccina: per il semplice motivo che i Cappuccini erano sorti proprio per un ritorno alle «origini» della regola di Francesco d’Assisi, comprese le indicazioni concernenti il «predicare». E allora, per «contestualizzare» occorre scoprire ciò che decretavano le Costituzioni cappuccine nelle edizioni contemporanee all’attività di quel tal predicatore – intorno al 1600-1630 -: e c’eran quelle del 1575 e del 1608. Traggo dall’edizione del 1608, la più prossima cronologicamente all’età barocca: i predicatori non predichino «frasche, novelle, poesie, inutili questioni», ma con «brevità di sermone» (era citato esattamente il dettato della Regola di san Francesco) predichino la «penitenza». È indubbio e chiaro che il tenore oratorio dell’Ordine era «esortativo» e «penitenziale».

Inoltre, in mancanza di documentazione contraria, è dubbio che sia correttamente storiografico un giudizio secondo cui – sempre per mimetizzare l’importanza dell’attore individuale – un determinato predicatore – nel caso, l’Aguggiari – dovesse essere un vizioso, invece che un virtuoso. A parte che l’ufficio della predicazione era attribuito tra i tanti sacerdoti dell’Ordine, a soli pochi e «scelti» frati a norma delle Costituzioni medesime (cap. IV per tutte le edizioni, dato che le Costituzioni cappuccine si suddividono sempre in tanti capitoli quanti sono quelli della Regola di San Francesco), non si capisce come si possa, dopo l’esplicita ammissione che «non si sa nulla della vita» del tale individuo, con molta decisione «supporlo» inosservante delle prescritte norme sul digiuno, e supporre ciò in base al fatto che quel predicatore andava forsennatamente in giro a predicare: quando il detto capitolo delle Costituzioni proprio questo contemplava, cioè che l’ufficio della predicazione non fosse dato a chi, andando appunto in giro a predicare, non potesse osservare il digiuno regolare.

Con ciò non si può dire che il tal predicatore osservasse il digiuno per davvero: ma solo che, se non consta il contrario da documento diretto o indiretto, è più presumibile, stante il «contesto», che lo osservasse anziché no; e che l’ipotesi, non «contestualizzata», che non lo osservasse è al di fuori della storicità. Infatti, è ben vero che il «contesto» storico-religioso dell’epoca era caratterizzato da un certo disimpegno penitenziale in molti casi della vita fratesca: ma, appunto, proprio per un maggior rigore anche – o soprattutto? – ascetico la riforma cappuccina s’era generata, e neppure da molto tempo. «È ben giusto dunque il criterio secondo cui la storia deve essere «contestualizzata».

A Luigi Zanzi è purtroppo mancato, poi, un altro fondamentale documento, scoperto in tempi successivi alla stesura del suo libro e rinvenuto da altri: per tal motivo, egli non poteva essere edotto sull’intervento fattivo dei Cappuccini non solo per la costruzione delle Cappelle, ma anche per la loro «conservazione». Il documento sarà probabilmente edito – lo ha annunciato in questi termini – dallo scopritore stesso. Esso è posteriore ai fatti e difende l’impegno dei frati in quest’opera delle Cappelle. L’obiezione che mi sentirei di fare sul suo (presumibile) contenuto è che possa essere stato enfatizzato il ruolo svolto dall’Ordine, in quanto, a partire da un certo momento (1752), era stato messo in dubbio l’apporto, appunto dei Cappuccini. Però, già le altre numerose prove documentarie addotte dal Merelli nel suo libro edito accertano largamente e pienamente che quei frati erano sempre stati lì, all’ospizio sotto il Sacro Monte, ad occuparsi dei fedeli, della cura delle Cappelle e della questua per la fabbriceria. Ed è indicativo che, chiedendo un permesso speciale (per l’uso di danaro) alla Sacra Congregazione dei vescovi e dei regolari a favore del frate cappuccino, assistente di quel luogo, l’abbadessa del monastero di Santa Maria del Monte sopra Varese abbia affermato che la «fabbrica delle cappelle de’ misteri del s.mo Rosario» era stata cominciata, «novanta anni» prima, «dal pio zelo del padre fra Giovanni Battista da Monza cappuccino». E si badi: non ci si riferiva al 1604-1605, quando le Cappelle furono iniziate nel «desiderio». Ci si riferiva a quel periodo in cui, dopo il limitato «zelo» – come s’è detto – dei fabbricieri, l’Aguggiari incalzò e la spuntò. Quanto alla successiva efficienza dei Cappuccini, va notata la già edita documentazione del Merelli, la quale fa conoscere come, allorquando essi lasciarono il Sacro Monte, vi furono richiamati da altri e non vi tornarono spontaneamente: e dai dati «economici» risulta che coloro che sostituirono i Cappuccini portavano meno «entrate» alla Fabbrica. E allora anche questo particolare occorrerà un giorno contestualizzare: le cause per cui la predicazione e la questua di quei Cappuccini erano – e siamo nella seconda metà del ‘600 – più efficaci (per l’interesse della Fabbrica, in termini appunto di «entrate»). Altrettanto, occorrerà contestualizzare il perché i Cappuccini, puntualmente, erano sospettati da alcuni deputati fabbricieri, e dalle monache, di appropriarsi di elemosine depositate nelle Cappelle e di agire con autonomia nella cura delle stesse. Forse, si potrebbe rinvenire altri elementi da inscrivere nelle concrete dinamiche non solo della «cultura» su cui si fondava la realizzazione delle cappelle, ma anche dello spirito secondo cui la società del tempo operava. [Francesco di Ciaccia].

 

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