1982, MessLor, Loreto e tragedia dannunziana

La Santa Casa di Loreto in una tragedia dannunziana, «Messaggio della Santa Casa», 7 (1982) pp. 215-216.

Testo dell’Articolo

Così si intitola l’atto secondo della Parisina (1912), tragedia in quattro atti di Gabriele D’Annunzio. In esso si svolgono sia il pellegrinaggio di Parisina Malatesta al Santuario Lauretano, al cui Tesoro ella dona tutti i suoi gioielli, sia la battaglia condotta da Ugo d’Este contro gli Schiavoni che assalivano il colle di Loreto per «rapire la Vergine Nera». Nella problematica esistenziale presentata dall’insieme dell’opera, questo atto secondo non ci appare privo di valore intrinseco al significato stesso della «tragedia», che pur, ovviamente, tratta un infelice argomento. Noi qui vediamo quale funzione sia attribuita alla Madonna, proprio nella penosità dell’umana sventura, di cui però indichiamo qui solo i termini necessari per comprendere la sezione «mariana».

Al D’Annunzio non chiediamo un magistero mariologico; ma se è vero che la poesia esprime comunque il bisogno, anche se non sempre positivamente realizzato, di cercare oltre le contraddizioni umane, quali che esse siano, una speranza, allora noi possiamo individuarla, e dobbiamo, nell’opera dannunziana (1).

Alla scenografia dell’atto primo fa contrasto quella dell’atto secondo. Là, un «palagio» sontuoso in cui fra uno «stuolo di nobili» e uno stuolo di «fanti e garzoni» gioca alla balestra Ugo D’Este. Sempre là, una voce (quella di una certa figlia di Nicolò di Oppizi, detta «La Verde») incarna l’angoscia dell’uomo, nella paura della morte violenta: «La morte grida e dice: Viene viene!». Nell’atto secondo, «appare la Casa di Nazaret, la semplice casa di Gioachino e di Anna», di cui l’autore descrive in didascalia le note che la contrappongono a quell’altro mondo, la corte estense, in cui al contrario ha inizio un’umana tragedia.

La casa di Loreto è «costrutta di pietre rossastre», ha una sola porta, una sola finestra, dice l’autore, solo un focolare, e un altare.

Se il D’Annunzio ricorda che in essa ha avuto inizio l’umana salvezza, allora non è senza motivo l’insistenza sulla semplicità e povertà di questo luogo.

Inoltre, i seguenti ragguagli, materialmente superflui rispetto alla vicenda, non sono di semplice erudizione, perché sembrano contrapporre la devozione del popolo, espressa nel luogo della speranza, alle consuetudini del «mondo», luogo delle tragiche trasgressioni esemplificate nella corte estense. Per questo, sembra siano sottintesi il valore salvifico dell’obbedienza, per cui Maria credette alla speranza, e l’opposto potere distruttivo dell’ambizione e dell’orgoglio, in cui sono coinvolti gli uomini della tragedia, umana e malatestiana. È a quell’obbedienza mariana che fa, in sostanza, essenziale riferimento la devozione popolare per la Santa Casa di Loreto.

«[…] gli Angeli (la) trasportarono su le loro ali alla spiaggia di Schiavonia e nella notte di decembre all’opposta riva, alla Marca d’Ancona, entro la selva dei lauri». Poi continua: «Si scorge brillare fra i torchi e le lampade la Vergine nera, scolpita nel legno di cedro dalla mano di Luca vangelista, coperta della preziosissima veste intessuta d’oro e di gemme […]. Di là dal laureto splende il mare Adriatico».

Così, tra accenni al meraviglioso e accenni alla quotidiana semplicità, si sviluppano nell’opera i richiami mariani alla fede e alla speranza. Le verità dogmatiche, a parte quella sottesa, nella didascalia, dell’umiltà e povertà del Dio incarnato, sono indicate nelle sequenze mariologiche e nelle «litanie lauretane» del testo.

Ave Maria, grafia piena.

Teco è il Signore

Benedetta infra le donne

a tutte l’ore,

Benedetto il frutto e il fiore

Del tuo ventre prezioso.

Ave, donna graziosa (2).

Il D’Annunzio, nel prosieguo, modifica il testo di Jacopone da Todi, per accostare, nella devozione, la figura storico-teologica di Maria alla Santa Casa di Loreto:

Quando a tal soglia

venne l’Annunciatore,

favellasti in ardore:

Sono ancilla del Signore.

Come dici, così sia.

Allora in te discese

il Spirito Santo (3)

Dalla contemplazione nasce l’implorazione (4), e dopo aver invocato la Madonna Domini sacrarium (5), il coro continua:

Tu, clemente, porgi ascolto

alla lode che a te innalzano

coloro che tu vedi a te dinanzi;

purifica i rei

e rendili degni

dei doni celesti.

Il D’Annunzio introduce qui una delle sue, per quanto diversamente interpretabile, istanze interiori: l’«anima monda». E non è superfluo che egli la faccia invocare chiedendola alla Madonna, «dolce Maria», chiamata anche, come già nella tradizione laudense, «mistica Rosa». È Lei infatti la «Vergine pura, / che mai cosa oscura» potè macchiare.

La coscienza della propria debole volontà, come anche delle incertezze della vita in cui si può sempre rischiare di sbagliare, è ben presente all’autore. E per questo che la rappresentazione della Santa Casa, e anche la parola dei sacerdoti che pregano in coro, assumono nell’opera un significato intimo alla vicenda esistenziale così infelice. Nel contrasto dei sentimenti e nel timore dei presentimenti, la pellegrina esclama:

Eccomi a te.

Sono piena di mali.

A te m’offro, Salute degli Infermi.

È il segno dell’estremo desiderio di salvezza. Essa fa riscontro alla proclamazione dei chierici, che cantano la Laus Virginis:

Tu che sappiamo eletta

ed innalzata

sopra tutte le cose,

speranza della mente

affranta, e suo rifugio.

 

NOTE

  1. Ci piace usare la preposizione oltre nel significato che essa, a nostro avviso, ha nella raccolta poetica di Ippolito Brandozzi, Oltre il muro d’ombra, Edizioni d’Arte Rassegna, Bergamo 1977.
  2. Il brano lirico è preso da Jacopone da Todi, Ave Maria, gratia plena, vv. 1-7, con la differenza del v. 6 che in Jacopone dice: «del tuo ventre Maria».
  3. Sono jacoponiane tuttavia le espressioni: «Quando l’Annunciatore», v. 22; «Sono Ancilla del Signore / Come dici», e così via (vv. 26-27).
  4. È una relazione rigorosamente teologica e anche antropologica, costante nella letteratura mariana.
  5. È nel canto Laus Virginis. Anche per la cit. alla fine, la trad. è mia. [Francesco Di Ciaccia]

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