1983, CRend, I romiti

I «romiti» nell’Alta Val Rendena e la vocazione eremitica di San Francesco, «Campane di Rendena», 73 (1983), pp. 63-66.

Testo dell’Articolo

Sul versante che declina da Madonna di Campiglio verso Dimaro sussiste ancora un «rudere», detto di «Santa Brigida», che costituisce il più esile dei documenti della più antica tradizione romitica nell’Alta Val Rendena. Originariamente, tra il XII e XIII secolo, era una «succursale», con semplice cappella e fondaco, del «monastero-ospizio» di Campiglio 1. Questa casa «dipendente» si spiega sia per ragioni contemplative, sia per necessità «sociali», secondo la più consolidata prassi «monastico-ospitaliera» 2. La casa «madre» di Campiglio, per la sua posizione di «transito» fra due versanti, necessitava infatti di punti di appoggio per i pellegrini 3, così come di luoghi più appartati per esigenze ascetiche dei monaci stessi. Oggi, comunque, è spiacevole scoprire così antiche vestigia del tutto abbandonate.

Sul versante, invece, verso Pinzolo, una preziosissima chiesetta attesta perfettamente quella pratica che la devozione popolare ha consacrato a sant’Antonio abate 4, e che la spiritualità francescana ha riproposto con spirito e qualità nuovi. La chiesetta, documentata con certezza dal sec. XIII 5, evidenzia quanto Raoul Manselli nota in generale: «La religione popolare non forma un ghetto chiuso, ma costituisce una realtà concreta, che entra a far parte del gioco delle forze storiche» 6. E ciò vale anche per gli eremiti, i quali «vivono in una completa solitudine, sopravvivendo raccogliendo erbe e radici e quello che offre il bosco. (Ma a volte) lasciano l’eremo e percorrono le loro regioni suscitando dappertutto grande interesse e fascino. Con la loro predicazione, ma più ancora con la loro povera vita, attirano l’attenzione della massa». La nuova vita evangelica prenderà vigore, in effetti, proprio da questa esperienza solitaria: già dal ‘200-’300. Nei sec. XV-XVI, la Val Rendena si può dire fervida di eremiti – predicatori, uomini «di Dio» e insieme «del popolo».

La porta della chiesetta è sormontata da una lunetta gotica, in cui è raffigurata la «pietà», opera dei Baschenis. La vivacità dei colori e dei personaggi, quasi in cornice intorno a Maria che tiene il Cristo sulle ginocchia, sta tra il sentimento tragico del Medioevo e la compostezza del misticismo autentico. Solo i personaggi coreografici, che richiamano il «popolo» 7, accennano allo schianto dell’animo; Maria è seria, ma serena; regge il Figlio affettuosamente, ma insieme con fortezza interiore. Non è una forzatura indicare questo affresco come il centro anche ideale del tempio, perchè un san Bernardo stesso, e poi un san Francesco, hanno posto una delle ragioni dell’esistenza degli eremiti nell’accogliere il sofferente, chiunque egli sia, con amore: con compostezza, anche quando ciò è difficile. La serenità nel dolore è della scuola eremitica 8. L’angustia è naturale, e le preoccupazioni sono necessarie; ma dice l’Assisiate: «[…] andate […], (ma) il vostro comportamento sia umile e dignitoso come se foste in un romitorio […]» 9.

La facciata della chiesa è tutta affrescata, secondo il tipico stile baschenisiano, o della sua scuola, rendenese. È degna di nota l’alternanza dei riquadri (color mattone), tale per cui dei tre riquadri di destra il personaggio centrale è su uno sfondo anch’esso color mattone. Si tratta di San Bartolomeo, che si staglia come una statua. Tuttavia, dal Battista, che risalta per la (strana) pelliccia verde, a Santo Stefano emerge sempre uno spirito tranquillo (del resto consueto nella pittura rendenese). Il lato sinistro della facciata ha un grado di nitidezza minore.

L’accento comunque va posto all’interno. Sul suo fondo si impone, a ridosso dell’altare, un affresco mirabile, a nostro avviso: Madonna in trono, col Bambino eretto, sul ginocchio destro della Madre. Egli tiene il braccio sinistro intorno al collo di lei, l’altro invece sul petto della Madre che delicatamente lo regge perché il piccolo stia in piedi. Non c’è alcuna untuosità: è la naturalezza dell’affetto. Nitido ma spontaneo anche il leggero piegamento del capo di Maria verso Gesù (assolvendo anche ad una funzione simmetrica). Il buon abbate, a lato del trono, ha la figura di un vecchio pastore. Tutto però è nella gentilezza: la vita dell’eremita doveva essere dura, ma sempre nella pace. Questo affresco è il commento migliore della vita eremitica, se considerata nel suo rapporto anche con il popolo.

In una cornice di legno antico, sulla facciata Sud dell’attuale casa Vidi, che si ritiene ragionevolmente essere il luogo dell’ultimo eremita di Mavignola, Simone Maffei (circa 1780), un affresco di grandi proporzioni ricorda la pittura comune in Val Rendena: datato 1503, mese di ottobre, ha valore documentaristico circa i «patroni» del luogo e della Valle. Qui, tuttavia, il «Sant’Antonio» è un uomo del deserto solo per la piccola campanella del pastorale, dalla voluta, simbolica, di serpente; per il resto, dalle tre dita benedicenti alla maestosa barba bianca, e alla capigliatura canuta che cade da sotto il copricapo rosso, ha tutta la forza simbolica del patriarca, «pastore d’anime». La Madonna appare anch’essa maestosa, di una conformazione tuttavia «paesana», seduta in trono. Ella sembra guardare lontano, dall’alto verso tutta la distesa della valle: sulle ginocchia, il Bambino; ai piedi, «Santa Caterina martire». È da segnalare, pittoricamente, il gioco del color verde, che si ricongiunge tra lo sfondo sottostante il trono e le rigature dell’acqua che bagna le gambe del «San Cristoforo», e, con uno stacco giallo costituito dal mantello del santo medesimo – colore che si accosta a quello del trono –, si dilata in tanta parte dell’affresco, segnatamente nel vestito del bimbo sulle spalle del Cristoforo stesso. Altro particolare coloristico è il rosso del vestito del Cristoforo che si snoda, attraverso il rosso dietro il trono, fino al saio di «Sant’Antonio».

Pur nella sua semplicità, l’affresco rivela dunque una sapienza artistica. In un riquadro diremmo «staccato», con i santi «Sebastiano e Rocco», dimostra la valenza soprattutto «comunitaria» dell’arte rendenese. Sul delizioso eremo di San Martino, vogliamo rimandare all’opuscolo di don Grazioso Bonenti 10.

 

Il «romitaggio» secondo san Francesco

Portando il discorso su Francesco d’Assisi, non lo facciamo tanto per ragioni esteriori, e cioè per la presenza anche di Francescani fra i «romiti» rendenesi, in particolare a San Martino, o in genere per la loro presenza in Val Rendena 11. Lo facciamo perché anche il fascino della solitudine di Francesco è un «fascino umano», come dice Manselli, nel senso che «l’umanità di Francesco fu capita più dalla povera gente che non dai grossi personaggi» 12, ed inoltre perché anche nell’«eremo» l’Assisiate portò innovazione spirituale.

Francesco si allontanava dai «luoghi pubblici e frequentati» 13 ancora quando viveva da «secolare», e, nella solitudine, «spesso era ammaestrato dalla visita dello Spirito Santo». Tutto il racconto celaniano del capitolo in oggetto è condotto sul parallelismo con le evangeliche «tentazioni» di Gesù nel deserto; ma l’autore vi enuncia anche la peculiarità francescana: preferire le «cose amare alle dolci»; il seguito del brano, circa il superamento da parte di Francesco della ripugnanza verso i lebbrosi, spiega il senso stesso anche della scelta di solitudine. Questa, prima che un piacere, è una prova di fortezza. Così, Francesco «si preparava a mantenere virilmente (anche) gli altri propositi».

All’origine dell’«eremo», dunque, c’è una conversione: l’uomo si dispone a cambiare la gerarchia dei valori. Poi, i luoghi solitari diventano gli «amici del pianto», ricordano il Celano e Bonaventura 14. Ma, a sua volta, ciò ha significato «in positivo»: come momenti privilegiati della manifestazione all’uomo della volontà di Dio.

È poetico il raffronto dell’Assisiate, solitario per le selve e per i boschi, con i romiti che vissero tra i monti. Ma è anche un raffronto di realtà: lì, Francesco si imbatte nei «ladroni» 15; qui, agli eremiti si sono presentati duri pericoli, di uomini e di cose. Le situazioni sociali e civili sono mutate 16, ma l’esempio di Francesco resta propositivo per ogni contesto: la solitudine deve insegnare ad accettare anche il meno accettabile dei fratelli. Non si tratta, per l’eremita, di giustificare tutto: ma di coinvolgere chiunque nella pacificazione, nel senso radicale, con sé e di sé con gli altri. «Ecco, io faccio nuove tutte le cose»: da ciò si riconosce l’autentico discepolo della solitudine.

Sono al limite della credibilità la gioia e la pace che i biografi ci tramandano degli eremiti; la schiettezza di un Francesco ce le fa però credere facilmente. Votato all’anacoretismo periodico, ma frequente 17, egli vi trovava anche uno dei più grandi dei «diletti»: l’«amore e la familiarità» del Signore. Così, «per accogliere con maggior raccoglimento l’interiore elargizione delle consolazioni spirituali, si recava nella solitudine e nelle chiese abbandonate […], quantunque anche là provasse le orrende battaglie dei demoni» 18. Se ciò non è una novità francescana 19, è peculiare di san Francesco il rapporto della vita eremitica con la povertà 20. La stessa familiarità realizzata, nel silenzio dei boschi, con la natura, affettuosamente significata dall’episodio del falco 21, indica che è nella «povertà» della solitudine che si dà la concordia dell’uomo con le cose, viste come dono, gratuito per sua natura, di Dio.

San Francesco consegnò questo messaggio di «solitudine-povertà» nel suo discorso sulla Verna, quando si vide «appressar(si) alla morte»: «Questo è il modo di vivere, il quale io impongo a me e a voi» 22. Il francescanesimo ha molto spesso riprodotto, e spesso riproduce, fedelmente, questo senso radicale di solitudine, e attraverso di esso la tradizione eremitica, più antica, ha conosciuto una innovazione «anacoretica» che è divenuta l’anima stessa di ogni presenza nel mondo, da quella pastorale a quella sociale e culturale. [Francesco di Ciaccia]

1  C. Cristel, La Verde Valle. Antologia e cronistoria della Val Rendena, Trento 19822, p. 401.

2  Cfr. R. Oursel, Évocation de la chrétienté romane, capp. 11 12, 16 17, prossim. in tr. it. di F. di Ciaccia, Jaca Book, Milano 1983.

3  Sui «pellegrinaggi» in Sant’Antonio in Mavignola, cfr. C. Cristel, op. cit., p. 396.

4  Sull’anacoretismo, e su Sant’Antonio Abbate, cfr. Grande Enciclopedia, De Agostini, vol. II, pp. 164-165 e 1-2. K. Bihlmeyer-H. Tuechle, Storia della Chiesa, vol. 1, pp. 405-406.

5  Su diversi particolari, cfr. C. Cristel, op. cit., pp. 395-397.

6  La religione popolare nel Medioevo, Torino 1974, p. 98. Per le cit. successive, p. 103.

7  Anche se, nella foggia dei costumi, non tutti; c’è un richiamo sociologico anche alla vita della borghesia dell’epoca.

8  Cfr. il richiamo della Leggenda perugina, 83.

9  Specchio di perfezione, 65, in Fonti Francescane, Assisi 1978, tr. V. Gamboso, p. 1371.

10  L’eremo di S. Martino, Trento, s.d., in realtà 1980.

11  Cfr. O. Dell’Antonio, I Frati Minori nel Trentino, Trento 1947.

12  Op. cit., p. 115.

13  Tommaso da Celano, Vita seconda, 9, in Fonti Francescane, cit., tr. S. Colombarini, p. 560. Stessa referenza per la cit. successiva.

14  Rispettivamente, Vita prima, 91, ibidem, tr. A. Calufetti e S. Olgiati, p. 484: nella solitudine, Francesco «bramava sapere che cosa di lui e in lui potesse essere più gradito all’eterno Re», Leggenda minore, lezione III.

15  Bonaventura, Leggenda maggiore, II, 5.

16  Almeno di diritto. Anche se, di fatto, la barbarie metropolitana ripresenta la stessa natura dell’uomo dell’offesa.

17  Cfr. Bonaventura, Leggenda maggiore, IX, 2.

18  Bonaventura, Leggenda minore, lezione II, in Fonti Francescane, cit., tr. S. Olgiati, p. 1038.

19  Per la figura di «Maria» contemplatrice, che è nella regola Del comportamento dei frati negli eremi di san Francesco, cfr. già San Gregorio Magno, Moralia, VI, cap. 27, n. 61.

20  Lo abbiamo commentato ne L’elemosina come socialità radicale, art, al momento inedito.

21  Cfr. T. da Celano, Vita seconda, 168, e I Fioretti, «Della seconda considerazione delle sacre sante Istimate».

22 I Fioretti, in Fonti Francescane, cit., p. 1586.

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