1992, Tandem, Promessi e pudichi

“Promessi” e pudichi, «Tandem», 1 (1992) pp. 50-52

Testo dell’Articolo

L’amore ne I Promessi Sposi è uno dei temi più dibattuti del romanzo manzoniano. Da una parte, alcuni hanno osservato che la dimensione sessuale, tra due innamorati ad un passo dalle nozze, non è neppure accennata. Tra i primi a stupirsene fu il Fogazzaro, che il 28 marzo 1887 manifestò la propria perplessità circa l’opinione del Manzoni, secondo cui non si deve scrivere d’amore in modo da far consentire l’animo di chi legge a questa passione, perché sì, «l’amore è necessario a questo mondo: ma ve n’ha quanto basta, e non fa mestieri che altri si dia la briga a coltivarlo e a farne nascere dove non fa bisogno».

Non dissertiamo qui sulla teoria manzoniana; ma, per capire il suo punto di vista, ricordiamo solo come la letteratura fosse già straripante di eros, anche nel Settecento a lui vicino. D’altra parte, il severo giudizio di Fogazzaro evidenzia una prospettiva forse a noi più congeniale: l’amore passionale, urgente all’interno della psiche come il più bello e meraviglioso dono divino, è una componente così fondamentale dell’energia di vita, che ci si potrebbe chiedere se possa esistere una cerchia di persone a cui non faccia bisogno. E non già perché manchino libri erotici, ma, al contrario, perché ne mancano di quelli che illustrino l’avventura erotico-amorosa con la coscienza del suo profondo valore umano e divino, come essenziale momento di crescita sotto ogni aspetto, sia psicologico che morale e religioso.

C’è stato chi, come Alberto Arbasino, ha colto un risvolto perfido, nelle reticenze manzoniane sull’amore: lasciare libero il lettore, proprio nel non detto sull’erotismo e nelle insinuazioni lasciate per aria, di immaginare tutto l’erotismo che vuole. Altri invece, come Giorgio De Rienzo, hanno parlato di finezza narrativa: l’amore proposto attraverso tutto un gioco accorto di speranze, di timore, di sussulti d’animo e di angosce, farebbe trasparire, ma con pudicizia mentale, tutte le sue sfumature, sia affettive che sensuali. Segnaliamo un caso – uno dei rarissimi – in cui è usato il termine «amore». L’autore dice che la vicenda della Monaca di Monza era fatta, sì, di «cose brutte e dolorose, ma che pur si potevano nominare», mentre quella di Lucia verteva su «un sentimento, una parola, che non le (a Lucia) pareva possibile di proferire», e non già per «ragioni di prudenza», ma perché ella «non avrebbe mai trovato da sostituire una perifrasi che non le paresse sfacciata: l’amore». In altri termini, Manzoni viene a dire che l’amore è «indicibile», ineffabile, è un’esperienza così profonda e unica nel vissuto esistenziale, e così sublime da comportare una gelosa custodia del suo «segreto», poiché l’«amore sponsale», fatto di abissale unità di cuori e di carne, è «mistero», come ha commentato Vittorio Spinazzola.

Ma prima di vedere un po’ l’amore dei protagonisti, ricordiamo che ne I Promessi Sposi ci sono anche altri amori non meno validi. Quello di Don Rodrigo per Lucia è liquidato come «passionaccia», cui Manzoni non concede alcun spazio narrato, se non accostandolo nel sotteso ad un amore puramente fisico ottenuto a pagamento, che appunto Don Rodrigo va a cercare per farsi «passare la mattana» dopo lo scontro con Padre Cristoforo. L’amore della Monaca di Monza per Egidio, sufficientemente illustrato nella prima stesura del romanzo, poi è concentrato in una frase drammatica: «La sventurata rispose» alla profferta calda e carnale dell’uomo. L’amore tra i due promessi sposi: Manzoni non ha speso nulla per mostrarne le pulsioni sensuali, ma si è preoccupato di seguirne le movenze affettive. Perché? Forse, perché le prime sono facili da intuire e sono scontate, mentre sugli aspetti interiori la gente, in genere, è distratta. Tutti si accorgono di che cosa si «muove», quando nasce un amore; ma pochi pensano come e quanto l’uno intuisce i pensieri e i sentimenti dell’altra. Manzoni ha voluto svelare la tenacia dell’amore, anche contro il destino più atroce; ha indicato l’ardore, che fa perdere quasi la testa, come determinazione che conquista la propria compagna di vita, addirittura con qualche inflessione di desiderio libidico. Ma soprattutto ha posto l’accento sul «femminile» come elemento che modifica l’attitudine maschile: Renzo da quando ha conosciuto la sua «lei», è diventato un buon «massaio». L’amore profondo è quello che cambia la vita, rendendola più consapevole!

Del resto, l’amore di Renzo non è per una astrazione di donna, ma per una donna reale, carnale. Se il giovane mette gli occhi addosso a lei, poi non glieli toglie più. È vero che il Manzoni non ci fa vedere occhi libidinosi, ma mostra un uomo di vent’anni carico di lieta furia quel giorno in cui deve sposare quella che ama, e per il quale l’attesa di altri quindici giorni è semplicemente un atroce rinvio; un innamorato gelosissimo, quando viene a sapere dell’intrigo di un altro uomo che gli vuol togliere l’amata; un giovane che è spinto a cercare dappertutto, e sempre, la sua donna, fino a diventare euforicamente disinibito – segno d’immenso affetto –, quando all’oste della Luna Piena dice che, qualora riuscisse a sposare l’amata, darebbe addirittura un bacio sulla faccia di Don Gonzalo Fernandez de Cordova. La cerca, ma anche la pensa: e, dopo la guarigione, mostra (nella prima stesura del romanzo) una passione più esplicita: egli non si sarebbe trattenuto di andare da lei di nascosto, di notte, travestito, per balze, per greppi, come che fosse. L’impazienza fisica è chiara. Nella stesura definitiva questo fuoco carnale è svelato tramite un testimone, don Abbondio: Figliuol caro, se tu ti senti il bruciore addosso, non so che fare! E alla fine, quando tutto s’è risolto: «l’ho trovata»!, «è mia!». Solo un aggettivo possessivo: ma con tutta la possanza del possesso fisico.

In Lucia «c’è un caldo discreto» per dirla con Cesare Angelini. Il suo sentimento amoroso passa attraverso un pudico rossore, che, mentre indica riservatezza, tradisce passione. Ella accetta «arrossendo» la proposta di affrettare le nozze: in quel colore del viso si intuisce come batta forte il suo cuore. E come batteva, quando passava davanti alla casa del suo innamorato «sogguardata tante volte alla sfuggita», come riconosce a se stessa nell’«Addio, monti sorgenti dall’acque!».

Certo, nel privato il Manzoni non fa entrare in nessun caso nessuno: né nell’opera d’arte, né nella propria vita reale. Tuttavia esiste, nel rapporto tra i due promessi sposi, un ambito del privato in cui fa irruzione sacerdotale un altro personaggio. È Padre Cristoforo. Egli è uno dei più qualificati catalizzatori dell’amore sponsale di Renzo e Lucia. Difendendo l’amore di Lucia, sia contro Don Rodrigo, sia contro lei stessa, dopo il voto di non sposarsi, ne intuisce i più segreti palpiti di sposa come una vocazione profonda. Egli comprende che la ragazza, pur respinta l’idea del matrimonio nella notte al castello, in realtà ama ancora. Ama sempre: il suo cuore è, tutto e totalmente, contro il cervello. L’amore di Lucia è così forte e così vero, che non può essere tradito da nessuno: neppure da lei stessa. Neppure da Dio. E alla gioiosa scoperta che il voto è nullo, Lucia non arrossisce più per l’amore, tra poco anche carnale: per la prima e l’unica volta, l’autore esplicita che il solo motivo del rossore era quello del «pudore». [Francesco di Ciaccia]

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