2000, Amici, I Cappuccini

I Cappuccini. Nessuno ne parla eppure tutti li conoscono, «Amici di frate Cecilio», 1 (2000), pp. 28-31.

Testo dell’Articolo

Il Manzoni, nell’Ottocento, ha illustrato la loro presenza come quella di apostoli in mezzo al popolo, apostoli poveri anche tra i ricchi, apostoli umili, caritatevoli, animati dal vero spirito di San Francesco. Ma il loro influsso è stato incisivo fin dalle loro origini sulla vita spirituale del Cinquecento ed ha sempre avuto molto rilievo sia per la santità di vita e per l’azione caritativa sia per l’attività apostolica e missionaria.

Un inizio fortuito ma atteso

La riforma cappuccina nacque spontaneamente in seguito ad una scelta di vita, intrapresa a titolo esclusivamente personale, di Matteo da Bascio (Bascio, Carpegna 1495 – Venezia 1552), frate minore degli Osservanti. Più che l’iniziatore, egli ne fu dunque la semplice occasione. Pur senza volerlo, di fatto animò le aspirazioni riformistiche che serpeggiavano già in alcuni eremi francescani.

Tuttavia l’iniziativa più efficace resta quella di Matteo da Bascio, delle Marche. Fin da quando fu ordinato sacerdote (1520), sentì ansiosamente il bisogno di seguire le orme di san Francesco più di quanto comunemente non si facesse nei conventi francescani. Così, nel gennaio 1525, fuggito dal convento di Montefalcone Appennino, chiese a Clemente VII, per sé e per un suo compagno, il permesso di vestire un rude saio con cappuccio aguzzo cucito all’abito, come quello originario di san Francesco, di vivere in povertà totale, di osservare la Regola alla lettera e di predicare ovunque secondo la prassi “itinerante”, cioè non legata alle chiese conventuali. Ma il ministro provinciale, Giovanni da Fano, lo fece incarcerare nel convento di Forano, avvalendosi di un recente decreto pontificio contro i frati vaganti. Matteo fu poi liberato grazie all’energico intervento di Caterina Cybo, duchessa di Camerino. Fu uno dei religiosi che diede un maggior contributo al rinnovamento religioso iniziatosi allora in Italia, predicò la “penitenza” con grande successo e assistette gli appestati a Camerino e a Roma. Almeno nominalmente, verso il 1530 ritornò nell’Ordine degli osservanti, mentre in seguito Giovanni da Fano vestì l’abito cappuccino.

 

Tenaci e combattuti

Suoi primi seguaci furono Lodovico e Raffaele da Fossombrone, che difesero e organizzarono la piccola famiglia e nel 1527 la posero sotto la favorevole obbedienza dei frati minori conventuali. ClementeVII (“Religionis zelus”, 3 luglio 1528) approvò la nuova congregazione detta dei “Frati Minori della vita eremitica”. Il nome popolare di “cappuccini” deriva invece dalla forma del cappuccio, che è più lungo di quello degli altri francescani. La storia delle loro origini è intricata in modo incredibile da un accavallarsi di “mosse e contromosse” da parte dei frati minori osservanti da un lato, e dei religiosi “transfughi”, dall’altro. Gli uni perseguitavano i secondi come “esclaustrati”; gli altri erano resi forti dal consenso di molti frati che, insoddisfatti della forma di vita conventuale, passavano nelle loro fila. E sia gli uni che gli altri ricorrevano alla Curia Romana, chi per ottenere l’incarcerazione dei frati che lasciavano conventi, chi per assicurarsi autonomia e legalità. A Roma, a volte nello stesso giorno o quasi, si firmavano decreti per gli uni e per gli altri. Per farla breve: i frati cappuccini ebbero la fortuna di avere dalla loro parte la potente Caterina Cybo e poi la potentissima Vittoria Colonna. È una storia difficile da raccontare in breve: ma che farebbe la gioia degli amanti di thrilling, tanto è travolgente.

Come un “romanzo giallo”.

Nella piccola chiesetta di S. Maria dell’Acquarella, un eremo sui monti di Albacina, in quel di Fabriano, i primi frati cappuccini si riunirono segretamente nel 1529 per decidere le linee di fondo della nuova vita (“Ordinazioni di Albacina”), ma le prime Costituzioni ufficiali furono del 1636. Il nucleo essenziale della spiritualità cappuccina fu una totale riappropriazione dell’interiorità.

Nel 1532 si era intanto aggregato il gruppo dei riformati calabresi; nel 1536 i frati cappuccini erano circa 700. Poi corsero un gran pericolo, per il loro stesso riconoscimento, quando Bernardino Ochino, famoso predicatore e loro vicario generale, nel 1542 passò ai protestanti. Ma la loro unità e il loro zelo cattolico collaudarono la saldezza della riforma cappuccina, che non ebbe in seguito se non consensi generali. Il Concilio di Trento li escluse, insieme con gli Osservanti, in ossequio alla Regola di san Francesco, dall’obbligo delle possessioni in comune (1563). Nel 1571 i frati cappuccini italiani erano 3.300. Gregorio XIII il 6 maggio 1574 permise loro l’espansione nelle regioni d’oltr’alpe. Da allora, fino al 1612, si diffusero rapidamente in quasi tutta l’Europa. Quando nel 1619 l’Ordine ottenne la completa indipendenza con un proprio ministro generale, contava 1.030 conventi con quasi 15.000 frati.

 

Il ritratto dei primi cappuccini

La vita cappuccina, secondo una rigorosa applicazione della Regola e dello spirito di san Francesco, si modellava sulle forme di una radicale e rigidissima povertà. Qualche esempio: abiti “hirsuti e salvatici”, cibi “grossi e semplici, com’è dire herbe, legumi e altre sorti di minestre alla rusticana”, provviste sempre ai minimi termini di sopravvivenza, abitazioni miserabili. Questi “puoverini, tutti scalzi, pallidi in viso, che parevano corpi scavati”, volevano affermare, con un evangelismo e un ascetismo ad oltranza, la prevalenza assoluta della spiritualità sulle affermazioni contingenti dell’intelligenza e della volontà umane. La loro pratica del silenzio, dell’interiorità intensa e il seppellimento esterno della propria personalità ebbero l’effetto di un chiaro contrasto con tutta la filosofia umanistica dell’autosufficienza dell’uomo, come anche con lo spirito curiale di una pericolosa fiducia nei maneggi politici nel governo della Chiesa e nella tutela del regno di Dio. E allora le pattuglie dei primi cappuccini incominceranno a infiltrarsi come fermento evangelico in tutta la massa del popolo e a comparire ovunque c’era una sofferenza da lenire, un servizio da prestare con amore gratuito, nelle chiese, sui pulpiti, negli ospedali, nelle corti e, “per semplici e idioti che fossero la maggior parte di loro, parlavano tant’altamente delle cose de Iddio e del gran bene e gloria dell’altra vita, che parevano infocati serafini”. Essi apparvero agli occhi del popolo come uomini di un altro mondo: non di un mondo, però, che divide, ma di un mondo che infonde fraternità, unità e grazia. La gente capì questo messaggio e accolse con amore la figura inconfondibile dei frati cappuccini.

Ma com’era la loro figura esteriore? Così apparvero alla gente: “Andavano squallidi, rapezzati, in silenzio, col capo sprofondato nel capuccio, con gli occhi bassi, magri, macilenti e lagrimosi”. Quando si presentarono a Milano nel 1535 davanti a Francesco Sforza, il duca li mirò senza parlare e, considerando “l’habito rozzo tutto pezzato, essi discalzi, scarni, e così estenuati dall’asprezza della penitenza e dei disagi che pativano, che parevano più simili a’ morti che a’ vivi”, restò diffidente. Ma il popolo comprese che questi strani frati, “brutti di vista, d’occhi e di faccia”, erano “belli nella coscienza e chiari”. E scoprì la figura del cappuccino orante ed estatico. Il cappuccino ha compiuto eroici sacrifici e troncato legami di sangue, ma non è duro di cuore: al contrario, ha il genio del buon cuore. Per questo il popolo ha avuto sempre un debole per lui. Lo ha amato con tenerezza e con forza. E la storia lo conferma. La risposta popolare ha rivelato come nei cappuccini si incarnasse la vera immagine di san Francesco, un’immagine di distacco dal mondo e di tenerezza per il mondo; di penitenza e di letizia; di povertà e di generosità, di semplicità e di bontà.

 

Per non parlare della spiritualità…

Benché i frati minori cappuccini abbiano svolto un’attività veramente impressionante dalle origini ai nostri giorni, in tutti i campi – nella predicazione, nell’evangelizzazione missionaria, nelle opere di carità, addirittura nella cultura e nel mondo sociale –, non hanno mai avuto atteggiamenti di supponenza, né all’interno della compagine ecclesiale, né all’esterno. Ancora oggi, quando si dice a qualcuno che un’opera è svolta dai frati cappuccini, facilmente gli viene un sorrisino spontaneo, come a dire: sarà un buon gesto di carità ad un povero barbone…

In effetti, la caratteristica dei frati cappuccini è stata, ed è sempre, quella di uomini che, per quanto possano essere colti, intellettuali, nobili o astuti come tanti religiosi di altri Ordini, non hanno mai cessato, e non mancano tuttora, di essere semplici come la vera gente semplice, di essere alla portata di tutti, di chinarsi spontaneamente su un bimbo o di avvicinare un disgraziato qualunque…

Non parliamo di spiritualità dei cappuccini: sarebbe troppo lungo e in parte difficile. Ma ci basti dire questo: l’Ordine dei cappuccini, se non è addirittura l’unico, è forse quello che maggiormente ha mantenuto le essenziali note distintive delle origini. È difficile che un gesto anche eroico o un’opera sociale importante dei frati cappuccini diventino di pubblico dominio attraverso le chiassate dei giornali, salvo casi eccezionali. In senso analogico, essi sono un po’ come i barboni nella società civile: nessuno ne parla, eppure tutti li conoscono! Fuori della metafora, sono frati “minori”: come li voleva san Francesco.

 

Zelo a tutto campo

Ma ora vediamo qualche storico apporto di carattere apostolico. Lorenzo da Brindisi (Brindisi 1559 – Lisbona 1619) rappresenta una delle figure più eminenti del sec. XVI. Superiore generale, predicatore e copioso scrittore, svolse un’imponente azione diplomatica: nel 1602 presso il duca di Mantova, nel 1616 a Milano, nel 1609 e 1619 presso il re di Spagna, nel 1610-1613 presso la corte di Baviera. Nel 1601 era con l’esercito imperiale quando ad Albareale in Ungheria vennero sconfitti i Turchi. Canonizzato da Leone XIII nel 1881, fu proclamato Dottore della Chiesa da Giovanni XXIII il 19 marzo 1959. E mentre egli conduceva l’opposizione ai protestanti in Boemia e Baviera, altri confratelli combatterono gli Ugonotti in Francia, ove il padre Angelo di Joyeuse assunse il comando militare della Lega Cattolica. San Giuseppe da Leonessa si spinse a Costantinopoli, Marco d’Aviano liberò Vienna dai Turchi, mentre altri missionari toccarono le coste africane, le isole del Mediterraneo e il Brasile. E poi ci furono predicatori di larga fama, di cui ricordo solo Alfonso Lupo, molto apprezzato dai due Borromeo, Mattia Bellintani da Salò e Giovanni Battista d’Este, già duca di Modena nel 1628 col nome di Alfonso III, e, nelle missioni retiche, il primo martire di Propaganda Fide, san Fedele da Sigmaringa.

Un’intensa attività sociale accompagnò poi l’azione oratoria con istituzioni benefiche per fanciulli poveri, con il servizio negli ospedali e nei lazzaretti, con i monti frumentari in tempo di carestia, con l’assistenza ai soldati. Alla magnificenza secentesca e all’orgoglio razionalistico si contrapposero le figure di santi e beati quali Benedetto da Urbino, Bernardo da Corleone, Bernardo da Offida, Crispino da Viterbo, Corrado da Parzham, Ignazio da Laconi, Giuseppe da Leonessa, Francesco da Camporosso e Felice da Cantalice. Sull’attività missionaria, non è neppure il caso di farne cenno, tanto essa è stata sempre, ed è tuttora, enorme e particolareggiata. Ricordo solo il cardinale Guglielmo Massaia, l’“Abuna Messias” degli Abissini.

Oggi i frati minori cappuccini sono circa 11.800 e svolgono un’ampia azione pastorale e sociale soprattutto tra i poveri e gli ammalati; tra l’altro, poi, officiano nelle basiliche di San Lorenzo fuori le Mura a Roma e nella Santa Casa di Loreto. Ma forse, più che le statistiche e le numerose attività in tutti i campi, giova dire che sono noti in tutto il mondo per Pio da Pietrelcina, lo “stigmatizzato”. In questo scorcio di millennio dominato dall’affarismo, dalla logica del potere e – diciamola pure, questa parola! – dall’egocentrismo, il frate del Gargano ha fatto “vedere”, come afferma un suo poeta contemporaneo, come si possano realizzare opere sociali perseguendo unicamente l’amore del prossimo e la rinuncia di se stessi. Con la fede. Al di fuori dei “giri di potere”. [Francesco Di Ciaccia]

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