Borromeo, Federico, De cognitionibus

Nota introduttiva a Federico Borromeo, De cognitionibus quas habent Dæmones liber unus, Milano – Roma, Biblioteca Ambrosiana – Bulzoni (Fonti e Studi 9), 2009, pp. 13-27.

Borromeo, De cognitionibus. Copertina

In copertina: Francesco Maria Guaccio, Compendium maleficarum, Mediolani, Ex Collegij Ambrosiani Typographia, 1626, pagina 38, «[…] de libro vitæ, […] in libro mortis», (pagina 39).

Testo della Nota introduttiva

Nel dare alle stampe la prima edizione del De cognitionibus quas habent Dæmones di Federico Borromeo, intendo solo indicare la genesi dello scritto federiciano e rilevare una caratteristica della sua stesura.

La questione che l’Autore si pose verteva, come esplicita il titolo dell’opera, sulle conoscenze che i demoni possiedono dall’inizio della loro creazione o a cui sono in grado di accedere nel tempo. La problematica era annosa e notoria, come evidenzia l’opera stessa nella sua articolata indagine e nel suo diffuso excursus storico che presenta varie posizioni di filosofi antichi, di Dottori della Chiesa medioevali e di teologi fino all’età moderna. Ma qui mi preme notare la circostanza nella quale l’interrogativo sorse in mente all’Autore. Ciò avvenne nel corso della stesura di un’opera, il De ecstaticis mulieribus et illusis, stampata nel 1616, chiaramente connessa con il suo ufficio pastorale ed episcopale che includeva l’onere di insegnare e di dare direttive utili a chi avesse cura d’anime o comunque si trovasse a trattare con persone “estatiche”[1]. La circostanza risulta da un appunto del cardinale, vergato in un quaderno manoscritto[2].

«Il pensare a scrivere questo libro ebbe origine da un dubio, che io mossi nel 3° libro dell’estatiche, parlando di alcune parole, che proferite furono dal Demonio, le quali dimostravano ignorantia, et poco conoscimento».

L’ufficio di pastore e di visitatore canonico, nelle sedi sia monastiche e conventuali, sia parrocchiali, lo misero in contatto, in effetti, con soggetti insidiati in modalità particolari dagli spiriti maligni. Furono questi riscontri di fenomeni straordinari, definiti genericamente “estatici” – cui egli attribuiva molta importanza e verso cui, se provenienti da Dio, nutriva sommo apprezzamento, al punto da concepire una “gratia gratis data” la semplice conoscenza di un soggetto estatico[3] – a sollecitargli interrogativi pratici sul rapporto tra fenomeni “estatici” e demonologia e, in particolare per quanto attiene al presente libro, investigazioni concettuali e teoriche intorno ai poteri cognitivi di cui dispongono gli spiriti maligni.

Opinione comune e semplificata era che il demonio, nella sua macchinazione per indurre al male, fa assegnamento su quanto riesce a sapere dell’uomo, a conoscerne le propensioni, gli impulsi, le immaginazioni, gli atti e i fatti, insomma il suo mondo interiore ed esteriore. Ma esattamente che cosa, quanto e come il demonio può conoscere? Il quesito rientrava in un ambito concettuale meno semplice e scontato.

Altrettanto intuibile e assodato era il presupposto che per il confessore e per il direttore spirituale è importante sapere che cosa passa nell’animo del penitente e del discepolo, perché egli possa capire l’origine e la natura dei loro vissuti straordinari. Al riguardo, Federico Borromeo aveva svolto riflessioni e narrato molti casi, nel De ecstaticis; ed il fattore cognitivo gli apparve così fondamentale nel discernimento degli “estatici”, che egli non rinunciò a leggere il Proxeneta di Gerolamo Cardano – un autore di cui dichiarava al contempo di non avere stima e di non seguire la dottrina[4] -, che insegnava a “scrutare” a livello di “scienza dell’animo” i segreti più intimi dell’individuo.

D’altronde, Federico Borromeo espose a volte, con racconti anche molto circostanziati, il processo e le modalità secondo cui aveva scoperto vari inganni dei demoni che avevano “illuso” alcune donne[5]. Ma se una mente umana può arrivare a tanta perspicacia, a quanto può il demonio che, come sanciva la sacra teologia, è un angelo a tutti gli effetti “naturali”?[6] In effetti l’angelo conosce intuendo, entrando dentro l’oggetto conosciuto, in modo perciò immediato, a differenza dell’uomo che deve passare per la via mediata del ragionamento e quindi con un processo che non solo richiede più tempo ma anche che, passando da un concetto all’altro, è passibile di erranza[7].

Però, interrogando alcune donne “illuse” in fatto di esperienze estatiche, Federico Borromeo ebbe il sospetto che il demonio fosse ben poco accorto e astuto, in pratica poco intelligente, se poté essere smascherato tanto facilmente con un po’ di acume umano; e ne aveva tratto, al momento, la seguente conclusione, esposta in questi termini nel capitolo XIX del libro terzo del De ecstaticis[8]:

«Constat item ex nostra illa narratione, Dæmonum sermoni stoliditatem, et ineptias inesse, veluti sit genus illud ignorantiæ plenum».

In sostanza, il sospetto era che il demonio non conoscesse tante cose e ne conoscesse male alcune, sia circa l’uomo, sia circa il mondo, se lui stesso si dimostrava inconcludente in molte sue operazioni e se non era in grado di contrastare efficacemente le tattiche di uomini illuminati intese a smascherare i suoi tranelli. Ne nacque, di seguito all’enunciazione sopra riferita, un capitolo specifico, il XX, sulla “ignoranza” dei demoni: «De inscitia Dæmonum».

«Quod omne antiquæ scientiæ lumen amiserint, haud equidem puto concedendum esse, cum Sacræ Theologiæ decreto constet, Naturalia dona, sicut initio fuerant, mansisse lapsis, atque damnatis. Rursus tamen, et loquuntur, et faciunt ea, quæ humanus animus meras ineptias putet; saneque admiror ego, quidnam sit causæ, quamobrem, in tanta rerum omnium notitia, quantam credimus in Dæmonum esse natura, non potuerint homines scelerate curiosi pleraque ab ipsis naturalia secreta cognoscere, præsertim ambigo, cur Astrologi, siderum motus, rem tanta cura quæsitam non sint e sermonibus eorum explicati. Verum, ea fortasse est causa, quod vetet Deus eos largiri scientiam suam ulli mortali eadem prouidentia, qua vetat, ne pecunias cuiquam effuse largiantur. Inscitiæ autem illius, qua sermo Dæmonum interdum abundat, et actionum ineptissimarum, quas intueri licet, arbitror duas afferri causas posse; vel quia Deus ipse tenebras offundat eorum lumini nostræ salutis causa, ne scilicet insidiosis non capere artibus possint. Nam sicuti, qui noctu iter facit, eo tantum temporis momento semitam videt, quo fulgur internitet, tenebrasque distinguit, ita Dæmonum ex diuerso nimia perspicacitas est ad videndum, et intelligendum exempto modico illo spatio, quo Deus eos obcæcat, ne nostros animos in fraudem, atque inde in exitium inducant. Vel etiam ea est ineptiarum causa, quod simulent imperitiam, ut ipsi facilius irretiamur; et arbitror ego, Spiritus illos, qui Fauni dicti cum iocis, atque nequitijs, mortalium nonnullos, et adulescentulas maxime circumsistunt, id agere modis illis inusitatis, et absurdis, ut miseras animas ad peccatum illiciant».

In questo capitolo del De ecstaticis erano già delineati i punti essenziali della questione: i demoni continuano a possedere tutte le dotazioni naturali secondo la loro natura angelica; tuttavia, siccome risulta che fanno e dicono cose così stupide ed insulse da rivelare scarso acume intellettivo, è ragionevole presumere che Dio abbia loro imposto un certo qual offuscamento cognitivo, allo scopo di impedire che essi, di per sé assolutamente più intelligenti e quindi più sagaci e astuti dei mortali, godano di condizioni troppo favorevoli nella loro implacabile guerra contro l’uomo. Come seconda ipotesi si potrebbe anche supporre che essi simulino imperizia e un poco di stoltezza, per ingannare meglio i poveri mortali e trarli fraudolentemente nelle loro reti.

In ogni caso, la questione appariva, subito, gravida di dubbi. Ad esempio, come è possibile che una natura che sia intelligenza pura, quale quella angelica, dotata di intellezione intuitiva, che conosce tota simul, “tutto contemporaneamente”[9] l’oggetto posto innanzi al lume intellettivo, possa perdere questa modalità di cui è costituita la sua essenza stessa? D’altronde, se Dio può intervenire sulla sostanza degli enti da lui creati e presupposto tuttavia che egli non abbia inteso mutare la natura degli angeli decaduti – così come stabilisce la dottrina consolidata dei Padri della Chiesa e dei teologi -, quali sono i modi con cui Dio interviene in questa dinamica del conoscere dei demoni?

La questione andava perciò affrontata in modo differente dai consueti metodi induttivi, fondati sull’esperienza pratica: andava affrontata ad un livello teorico, mediante l’esposizione degli insegnamenti dottrinali e attraverso un vaglio critico. Federico Borromeo si propose, appunto, di svolgere questa operazione. Lo troviamo dichiarato nel medesimo appunto del quaderno manoscritto, sopra citato, nel quale era indicata la circostanza in cui egli ebbe a pensare di scrivere il libro stesso[10].

«In questo libro [De ecstaticis mulieribus et illusis] lasciato habbiamo quelle cose, che giudicato habbiamo trattarsi generalmente dalli Scolastici, et ne i libri di Teologia, et habbiamo atteso à spiegare alcuni passi men communi degli altri, et meno ordinarij».

L’indagine sulla “ignoranza” dei demoni prevedeva dunque uno studio che sembrava allontanarsi dall’immediato fine pastorale, al punto che, in un altro quaderno di appunti in cui egli tornò ad accennare alla genesi dell’opera, sentì il bisogno di escludere ogni movente di “inutile e strana curiosità” dell’indagine, affermandone l’utilità spirituale, cioè il bene delle anime:

«Aliquid solatij accipient animarum / occasio libri ex libro de extaticis. / Non propter curiosam vanitatem.»[11].

In effetti, la dissertazione sul sapere dei demoni e le successive ipotesi su come i demoni possano essere coartati divinitus[12] nella loro attività intellettiva, sia quanto all’oggetto, sia quanto alle modalità del comprendere, si addentrano in sentieri fitti di presunzioni sorprendenti, quando si stabilisce minutamente, e a volte con estrema precisione, che cosa i demoni possano e che cosa non possano sapere; e in che modo siano potuti giungere a certe verità, sia nell’ambito degli oggetti naturali, sia a livello delle realtà soprannaturali. Uno degli argomenti più delicati è, ad esempio, se, ed eventualmente come, i demoni conoscano verità simpliciter soprannaturali o quanto meno quoad modum soprannaturali. Il ragguaglio delle supposizioni avanzate solleva in effetti il dubbio che la materia trattata inclini davvero ad una qualche “inutile e strana curiosità”. Nell’ambito degli oggetti naturali della conoscenza, poi, uno degli argomenti più complicati è, ad esempio, se, ed eventualmente come, i demoni conoscano l’intimo dell’uomo, e se, e come, ne conoscano i gesti e gli atti esterni. In questo vasto campo la dottrina scolastica, che sta a fondamento dell’investigare, sfocia in opinioni fattuali ed in ipotesi così particolareggiate, che inducono al sospetto che, ancora, si vada incontro a “inutile e strana curiosità”.

In realtà, non è per vana curiosità che l’Autore ha affrontato un così complesso e delicato tema che spazia dalla teologia alla psicologia, dalla dogmatica alla fenomenologia dell’arte magica. Infatti, sarebbe stato certamente di consolazione per le anime timorose e pie sapere, ad esempio, che il demonio non potrà mai penetrare nell’intimo dell’uomo, sia sul versante cognitivo, sia su quello volitivo dell’animo umano; e che – risultato ancor più consolante – il demonio non potrebbe entrare neppure nelle immagini della nostra fantasia, se non sia l’uomo stesso a facilitargli questo itinerario.

La tematica dovette apparire all’Autore, dunque, tutt’altro che curiosa e vana; e si comprende, per ciò, anche l’assillo circa l’intitolazione dell’opera, su cui egli spese più di una riflessione.

Di primo acchito, proprio in base al motivo per cui l’Autore si era proposto di approfondire questo aspetto demonologico, il titolo doveva risultare intorno alla “ignoranza” dei demoni. In effetti, il dubbio sorto nel libro terzo del De ecstaticis, al capitolo XIX sopra citato, era che i demoni fossero, in realtà, ignoranti e il successivo capitolo XX era intitolato, per l’appunto, con il chiaro e delineato concetto «De inscitia». Tra gli appunti, tra cui un quaderno monografico, il titolo focalizzava ancora l’“ignoranza” [13]. In questo quaderno, un’annotazione permette di intuire il rovello sulla dicitura. Vi si legge che il titolo aveva qualcosa di “buffonesco” e che poteva essere frainteso; e a margine del foglio troviamo aggiunto che l’“iscrizione” era stata cambiata.

«< Dicam in animo habuisse hanc inscriptionem sed hac obiectione mutasse > Noto titulum habere scurilitatis aliquid: et possit retorqueri […].»[14].

Attribuire, proprio nel titolo – che costituisce l’etichetta di una trattazione -, l’“ignoranza” ai demoni avrebbe offerto una visione della loro natura che implicava, quanto meno, qualcosa di strano («scurilitatis aliquid»), cioè che fossero definiti, tout cour, ignoranti coloro che, per la loro essenza, sono “intelligenze pure”, cioè esseri costituiti di sola sostanza intellettiva. Tale designazione, posta proprio in capo al libro, avrebbe potuto ingenerare non solo stupore ed incredulità, ma anche fondati attacchi logici e teologici («et possit retorqueri»). Forse, dunque, il titolo potrebbe essere stato cambiato sotto la pressione di rilievi di tal genere («hac obiectione»). Sta di fatto che poi il libro fu intitolato intorno non già alla “ignoranza” ma alla “conoscenza”.

La meticolosità a livello lessicale è stata ancora più sottile. Infatti, il sintagma “le conoscenze dei demoni” avrebbe potuto dare ansa ad un equivoco. Potendo il complemento di specificazione essere inteso sia in senso soggettivo, sia in senso oggettivo o, con termini usati da Federico Borromeo, sia in senso attivo, sia in senso passivo, non si sarebbe colto immediatamente se la conoscenza in causa fosse quella che i demoni hanno di altre cose, ad esempio del mondo fisico e del mondo umano, o quella che hanno gli altri, ad esempio gli uomini, circa i demoni. Per cui apparve più idoneo un titolo inequivocabile, “le conoscenze che hanno i demoni”:

«Ergo melius De cognitionibus varijs[15] quas habent Demones. Neque dicendum De Demonum cognitionibus quia est equiuocum uel actiue, uel passiue.»[16].

Nonostante la sottolineatura dell’aggettivo circa le conoscenze – le “varie” conoscenze – e nonostante che lo stesso aggettivo sia stato ripreso, nel medesimo quaderno di appunti sull’“ignoranza” dei demoni, come uno dei titoli possibili[17], l’aggettivo – “varie” (conoscenze) – non è entrato nel titolo del libro, che consta essere “De cognitionibus quas habent Dæmones”. Prima della scelta definitiva e all’interno del medesimo quaderno, successivamente all’appunto sopra riportato, sono state tuttavia avanzate soluzioni similari. In questa ulteriore congettura sembra risolto l’equivoco circa il soggetto del conoscere, poiché uno dei titoli che sarebbe potuto risultare equivoco appare superato dalla successiva ipotesi indicata:

«De uaria cognitione quam habent Demones. Titulus. Vel de scientia Demonum. Vel de scientia, quam habent Demones.»[18].

Il termine “scientia”, applicato ai demoni, consta come sinonimo di “cognitio” anche nel libro, benché vi prevalga decisamente quest’ultimo vocabolo[19]. Ma va notato che il termine “scientia”, ipotizzato qui per il titolo del libro, si ritrova in appunti concernenti l’opinione di Gerolamo Cardano su questa materia: «Cardani sententia de scientia Dæmonum mihi videtur his eius rebus satis expressa» ecc.[20], il cui blocco di appunti, analitici e dissertativi, è stato intitolato proprio De scientia Dæmonum, sententia Cardani.

Ciò che va infine messo in luce è che, se gli appunti redatti prima della stesura del libro riportano il titolo incentrato sulla “ignoranza” – l’idea immediata e iniziale circa la questione che si era posta l’Autore -, gli appunti successivi alla sua stesura, che costituiscono aggiunte alle opere già composte[21], si riferiscono al libro ormai dal titolo “De cognitionibus quas habent Dæmones”[22].

L’alternativa tra “ignoranza” e “conoscenza/e”, della quale qui si tratta a proposito del titolo, non era una questione soltanto di opportunità: era un problema soprattutto di contenuti e di metodologia. Per mostrare l’ignoranza dei demoni bastava dare conto delle loro inaccortezze palesate nei rapporti con un direttore spirituale illuminato: rendiconto che in parte Federico Borromeo già offriva – pur in modo occasionale e non organico – nell’opera che stava redigendo, appunto il De ecstaticis. Ma l’ignoranza è un concetto negativo e ha senso solo se consegue ad una analisi della conoscenza; e il problema della conoscenza delle pure forme intelligenti è complesso e complicato.

Il tema, pertanto, si ampliò notevolmente; ma soprattutto si complicò per la necessità di argomentazioni dottrinali, a volte assai sottili. Le annotazioni preparatorie per la stesura del libro lo rivelano[23]. Alcune annotazioni criteriologiche indicano che l’indagine doveva svolgersi, in effetti, a tutto campo, cioè doveva essere estesa, come evidenziato da termini significanti totalità e molteplicità («omnia», «multas»),

«Examina omnia genera cognitionum: et statue omnia genera ignorantiæ quæ cadere possunt in illis generibus; et reperis multas.»[24]:

un’indicazione rigorosamente osservata nella stesura dell’opera. Ma l’esame doveva essere anche meticoloso, minuzioso, doveva scandagliare le “singole” opinioni:

«Examina singulas sententias Patrum, de scientia incarnationis. Vide locum Sancti Hilarij in Breu. fol. 583 col. secunda in fine.»[25];

«In hoc opere perquire minuta queque legendo et facias questiones ut fecit Cardanus et ut ego scio in arte tractandi eandem questionem.»[26];

«Scolasticorum sententiæ explicandæ singulæ, per dicta; per locorum collationes; per supposita fondamenta in illa Doctrina.»[27].

Già quest’ultima disposizione sull’ esposizione puntigliosa della dottrina scolastica e in generale le esigenze redazionali citate implicavano un’impostazione critica da imprimere al lavoro, come esplicitato da voci verbali significanti disamina disquisitiva, quali «perquire» (di cui sopra) ed «excutiantur»:

«Excutiantur sententiæ Patrum de mysterijs Incarnationis. Idem exequendum de sententijs aliorum; nam hoc modo erit diuersa methodus a ceteris meis libris […]»[28].

In quest’ultima annotazione – che si trova applicata nel cap. XV – sembra che venga ammessa una peculiarità metodologica che si distanziava da quella seguita negli altri libri («diuersa methodus a ceteris meis libris»).

Da questa precisazione non dobbiamo derivare che tra i libri di Federico Borromeo non ci siano di quelli dal taglio dottrinale, magari improntati all’istruzione del clero e all’educazione di tutti i fedeli; dobbiano invece desumere che il “metodo” cui si fa riferimento nella citata annotazione si configura comunque diverso, perché è concepito per un prodotto dottrinale in senso stretto, cioè teorico, a livello discettativo. Il De cognitionibus è l’unico trattato demonologico di Federico Borromeo che contenga, per lo meno, alcuni capitoli di tal genere.

Esso comprende processi argomentativi con esame e discussione della dottrina degli autori, sia dei Padri, sia dei Dottori (secondo la norma, sopra citata: «Scolasticorum sententiæ explicandæ»)[29], con un procedimento dialettico che ricalca quello della trattatistica scolastica – sequenza delle posizioni dottrinali e “risposta” a ciascuna di esse -, come nella questione sulla conoscenza da parte dei demoni dell’animo umano[30] o sulla conoscenza da parte dei demoni della specificità divina della resurrezione di Gesù[31], fino a spingersi allo studio variantistico di un autore[32].

Una trattazione così complessa e intricata ha comportato alcune lacune formali e qualche disorganicità, meno marcate in altri libri demonologici del medesimo Autore. Vediamo, prima, le sfasature circa l’organizzazione del materiale.

All’inizio del capitolo XXXI si avverte che, in seguito, si procederà con considerazioni più specifiche, cioè attinenti al tema del libro; in pratica, si riprenderà il discoro sulla conoscenza dei demoni, sulle sue modalità e i suoi limiti: discorso che, interrotto dopo il capitolo XX, ha seguito una via collaterale.

«Hactenus nos ab vigesimo Capite orsi, processimus quadam inductionis via. Nunc argumenta singulatim ea proponemus, quæ propria sunt rationis eius, quam concludere propositum est; scientiam nempe Dæmonum impediri diuinitus, et inhiberi ipsos, quominus arbitratu suo partem animi intelligentem exerceant»[33].

La problematica esposta dal capitolo XXI al capitolo XXX verteva infatti sull’azione dei demoni: vi si notava, in base a rilevamenti fenomenici, che anche al “fare” dei demoni, cioè alla loro attività pratica, era imposto un freno da Dio, così come era imposto un oscuramento alla loro attività cognitiva, al “sapere”. In effetti, in quei capitoli intermedi il testo ha messo in luce il potere dei demoni nei conflitti armati, il loro atteggiamento di fronte alle minacce fisiche, la facoltà degli esseri incorporei nello spostamento dei corpi e rispetto alle leggi naturali della sostanza aerea – con le attinenze relative ai banchetti e ai balli stregoneschi -, infine rispetto agli interessi erotici dei demoni e alla loro capacità procreativa.

Lo spostamento tematico era comunque ben giustificato, sia sul piano logico, sia in senso consequenziale. In effetti il capitolo XX si concludeva con una considerazione, circa gli angeli decaduti, sui loro “doni naturali” a livello generale, cioè che gli angeli decaduti si rivelano depauperati di alcune potenzialità delle loro dotazioni primigenie. Il seguito del discorso, perciò, poteva ben riguardare un aspetto diverso da quello cognitivo, e cioè l’aspetto operativo delle facoltà degli angeli decaduti.

Poi, dal capitolo XXXI ci si ricollega al tema specifico del libro: il “conoscere” da parte dei demoni. E in effetti, all’inizio del capitolo XXXI è tenuto presente, in modo esplicito, che dal capitolo XX si era proceduto su un terreno, per così dire, di “esperimenza” (cioè sul piano constatabile delle debolezze e delle limitazioni fattuali dei demoni ricavabili dal loro concreto operare) e si dichiara che si riprenderà, ormai e di nuovo, lo specifico filone tematico del “conoscere”.

Tuttavia, malgrado l’impostazione esplicitata, anche dopo questo capitolo il problema del conoscere si conclude tre capitoli prima del termine dell’opera. Quindi, tre capitoli prima della fine dell’opera la tematica specifica, quella del “sapere”, è abbandonata e lascia di nuovo spazio ad aspetti operativi dei demoni: il potere demoniaco sulle ricchezze materiali della terra con annessi e connessi, vale a dire l’accrescimento e la perdita di tali beni in linea generale, in riferimento sia ai demoni, sia ai semplici mortali.

La mancanza di unitarietà risulta dal fatto che la sfera operativa dell’attività demoniaca, pur collegabile al problema dell’attività cognitiva, risulta affrontata con una frapposizione non giustificata: poteva e doveva essere trattata senza frattura e successivamente alla trattazione sulla conoscenza. La ragionevolezza di tale ipotesi trova fondamento nel testo stesso, poiché il capitolo XXXXII – in cui si abbandona, di nuovo, per l’appunto, l’argomento “cognitivo” – inizia proprio con il parallelo sull’argomento “operativo”, cioè che i demoni sono inibiti non solo nella sfera del conoscere, ma anche in quella dell’agire, cioè “perché non facciano o dicano quelle cose che proclamano e vogliono, ma solo quelle che hanno potuto fare o dire”.

«Neque cognitione tantum sæpe priuantur ipsa, sed ad agendum etiam constricti sæpe sunt, et impediti, ut non ea, quæ profitentur, ac volunt, faciant, aut dicant, sed ea tantum, quæ vel facere, vel dicere potuerunt.»[34].

Se nel capitolo XXXXII, quindi, dopo la trattazione del problema cognitivo dei demoni, è stato posto il parallelo con quello operativo, era logico che tutta la tematica parallela della sfera operativa – intercalata dal capitolo XXI al capitolo XXX – fosse collocata da questo punto in poi, cioè dal capitolo XXXXII in avanti, e fosse letta unitariamente, per organica distribuzione dei contenuti e per coerenza della trattazione.

Una disorganicità più settoriale – all’interno del primo blocco della trattazione del “fare” demoniaco – risulta essere la seguente, anche con una discrepanza tra il titolo di un capitolo ed il suo contenuto.

Il capitolo XXVIII ha svolto un discorso sull’inefficienza dei demoni nel produrre cose materiali e ha concluso con l’esempio delle vivande imbandite nei conviti stregoneschi: belle a vedersi ma di cattiva qualità[35]. Il capitolo successivo, il XXIX, dal titolo «De Humana Procreatione», con consequenzialità inizia applicando la fenomenologia in questione – la consistenza delle cose materiali prodotte dai demoni – ai corpi assunti dai demoni stessi, inclusa la sostanza seminale. Ma il proseguo del capitolo con il preciso titolo indicato, mentre dovrebbe trattare della “procreazione umana” dei demoni, narra, mediante episodi di apparizioni demoniache a varie persone, quale sia la qualità del corpo assunto dai demoni e non fa cenno alla “procreazione umana” dei demoni. L’esposizione sulla generazione di esseri umani da parte dei demoni è svolta, quindi, nel capitolo ulteriore, il XXX, intitolato «An Dæmones procreare aliquid possint», il quale ha inizio con una programmazione che fa pensare ad un ampio sviluppo. Infatti il capitolo sul problema “se i demoni possano procreare” si annuncia in questi termini: «Ac minutius etiam tractando totum hunc de procreatione humana locum, quæstionem ipsam in dicta, siue Capita nonnulla, et pronuntiata ordine hoc diuidemus»[36]. Ma alla fine del capitolo l’Autore taglia corto, giustificandosi col dire che ci vorrebbe troppo spazio per affrontare la questione e rimanda ad autori – da lui accennati – che ne hanno parlato a lungo: «De qua re longum esset hoc loco disputare; tantum ego referre volui id, quod ijdem illi pluribus affirmauere»[37].

Il capitolo seguente, il XXXI, abbandona in effetti tutta la parentesi sul “fare” demoniaco e ritorna al tema specifico, come s’è detto: «[…] scientiam nempe Dæmonum impediri diuinitus, et inhiberi ipsos, quominus arbitratu suo partem animi intelligentem exerceant»[38].

Un cenno globale, ora, ad alcune lacune nella scrittura. A questo livello formale, una particolarità è costituita dal fatto che il testo è a volte difficile da capire, a differenza degli altri scritti demonologici del medesimo Autore. Non mi riferisco allo stile e al registro linguistico. È ovvio che la presente opera, essendo, almeno in parte, saggistica e richiedendo una costruzione sintattica argomentativa, presenta un periodare più complesso e articolato degli altri libri demonologici e una scelta lessicale orientata verso voci astratte. Mi riferisco invece a costruzioni sintattiche errate o strane[39], a sviste nelle operazioni di modifica, peraltro aggrovigliate, con conseguenti confusioni grammaticali e sintattiche, soprattutto quando sono state apportate variazioni nel testo[40].

Anche siffatte disattenzioni evidenziano quanto quest’opera, già puntigliosamente e rigorosamente progettata, abbia poi affaticato gli estensori – in particolare, il traduttore latino – per predisporre un testo più complicato e analitico degli altri del medesimo tema.

Infine, mi corre l’obbligo di dare ragione dell’uso che viene qui fatto dei quaderni di appunti – o “quaderni di studio” – federiciani, citati nelle note al testo latino.

Il mio progetto finale – sempre limitatamente alla demonologia federiciana – è quello di documentare i raccordi tra i libri stampati e gli appunti manoscritti, rapportando tutto il contenuto degli stampati alla mole degli scritti preparatori, per modo che emerga che cosa degli appunti consti trasferito, e per contro non trasferito, nei libri stessi. Dalla correlazione si dovrebbe evincere, sempre per la sola materia demonologica, quanto ha ben studiato e dimostrato, a livello generale, Marzia Giuliani circa gli appunti preparatori: essi raccolgono materiale che non necessariamente, e non in toto, è stato utilizzato per un libro – e ciò vale anche per i quaderni monograficamente intitolati -; per contro, alcune informazioni si ripetono in più di un “quaderno di studio” oppure vengono usate per più di un libro, considerato anche il fatto che i diversi libri ripropongono alcuni medesimi contenuti[41].

Un tal programma esige un’edizione a se stante – da cui, in seguito, dovrebbe conseguire una piccola “enciclopedia” di tutto l’universo demonologico negli scritti federiciani, nella connessione tra libri stampati e manoscritti -, così concepita: trascrizione dei “quaderni di studio” monografici e specifici e trascrizione di tutti gli altri “quaderni di studio” nelle parti connesse in qualunque modo ai libri demonologici; riferimento al contenuto che, nei vari libri, è entrato a far parte della stesura definitiva.

Per il momento ho inteso compiere l’operazione inversa, benché solo parzialmente: connettere lo stampato ai “quaderni di studio”. Essa vuole offrire, semplicemente, l’idea di un rapporto tra il libro e i “quaderni di studio”, dei quali cito solo quelli specificatamente demonologici.

ADDIZIONI, ms: Quattro libri di addizioni da farsi à diversi trattati composti dal Cardinale Federico Borromeo, manoscritto, «Codex Primus Additamentorum», foll. 187-188, 237-238, 239-245, 272-273, 274-275, 322; «Codex Secundus Additamentorum», foll. 360-362, 367, 391-392; «Codex Tertius Additamentorum», foll. 612-613, Biblioteca Ambrosiana, Milano, F 11 inf.

DE COGNITIONIBUS: De cognitionibus quas habent Dæmones, stampato, Milano, 1624, Biblioteca Ambrosiana, Milano, Borromeo 75 e Borromeo 76.

DE ECSTATICIS: De ecstaticis mulieribus, et illusis libri quatuor stampato, Milano, 1616, Biblioteca Ambrosiana, Milano, Borromeo 38 e Borromeo 39.

DE IGNORANTIA, ms: De ignorantia Demonum, manoscritto, in Miscellanea uaria, foll. 19-32, Biblioteca Ambrosiana, Milano, I 52 suss.

DE IGNORANTIA, OPUSCULA, ms: De ignorantia Dæmonum, manoscritto, in Opuscula, foll. 139-140, Biblioteca Ambrosiana, Milano, Z 110 sup.

GIULIANI: Marzia Giuliani, Il vescovo filosofo. Federico Borromeo e I sacri ragionamenti, «Biblioteca della Rivista di storia e letteratura religiosa», Studi XVIII, Firenze, Leo S. Olschki, 2007.

ZARDIN: Danilo Zardin, Nell’officina del poligrafo: la biblioteca ‘ideale’ di Cardano e le fonti dell’enciclopedismo librario, in Edoardo Barbieri e Danilo Zardin (a cura di), Libri, biblioteche e cultura nell’Italia del Cinque e Seicento, in «Vita e Pensiero», maggio 2002, pp. 317-372 (pagine 13-27). [Francesco di Ciaccia]


[1] «Ego statui remedium adhibere huic nonnullorum inscitiæ (fauente Deo) viamque tradere, qua possit aliquis ab omni periculo procul abesse» (De ecstaticis, I, cap. IV, p. 10).

[2]De ignorantia, Opuscula, ms, foll. 139-140.

[3] «Animaduerti ego, graues aliquando viros, excultosque moribus optimis, et maximarum rerum scientia, illud optasse vehementer, ut inciderent in aliquem eorum, qui Visionibus Ecstaticis illustrarentur […]. Sed quamuis nonnullam in eo negotio diligentiam adhibuissent, mouerenturque non inani cura, sed laudabili studio, numquam tamen id […] assequi potuerunt; atque, ut erant pij homines, et religiosi, suis accidere peccatis aiebant, ne tantarum rerum ullo modo participes fierent. […]; fallebantur tamen. Nam sicuti dona, quæ Naturæ ordinem excedunt, et appellantur gratiæ gratis datæ, possunt contingere diuinitus […], ita licebit existimare, notitiam eorum, qui sint præditi muneribus eiusmodi, cœleste munus esse […]» (De ecstaticis, I, cap. I, pp. 1-2). D’altronde, proprio il grande apprezzamento per le esperienze “estatiche” – che Federico Borromeo riteneva elargite in abbondanza ai fedeli della Chiesa cattolica dell’epoca, in tal modo da Dio resa preclara (cfr. De ecstaticis, II, cap. XIII, p. 85) – lo indusse a dedicare a tali esperienze, con le relative e strette connessioni demoniache, varie opere a stampa e a redigere diversi quaderni di appunti.

[4] «Non ego Cardani sum admirator, eiusque opinionum assecla. Sed […] caput inueni quoddam de Scientia animi, quo scilicet capite conabatur ille perscrutari humani pectoris arcana, quæ multis occultata simulationum inuolucris, Deus ipse tantum videt» (De ecstaticis, III, cap. XI, p. 117). Per l’edizione italiana, Girolamo Cardano, Il prosseneta, ovvero Della prudenza politica, Milano, Berlusconi, 2001. Nella Biblioteca Ambrosiana consta un estratto (Della prudenza politica, D 481 inf., foll. 16-17), manoscritto, del Proxeneta incentrato sull’uomo “prudente”: che fu, in effetti, un assillo constante di Federico Borromeo. Ma è anche opportuno di segnalare, qui, sempre per accenni, come al “laboratorio della scrittura” (ZARDIN, p. 334) di Cardano, accuratamente studiato da Danilo Zardin, corrisponda il processo scrittorio di Federico Borromeo (cfr. GIULIANI, pp. 89-110).

[5] Cfr. De ecstaticis, III, cap. XIII, p. 128; III, cap. XIV, p. 134; III, cap. XVI, p. 138.

[6] «[…] cum Sacræ Theologiæ decreto constet, Naturalia dona, sicut initio fuerant, mansisse lapsis, atque damnatis» (De ecstaticis, III, cap. XX, p. 147); ma si veda l’intero cap. XX del De ecstaticis, pp. 148 s., riportato più sotto.

[7] Cfr. De cognitionibus, cap. II, p. 4.

[8] De ecstaticis, III, cap. XIX, p. 147.

[9] De cognitionibus, cap. XIV, p. 64.

[10] De ignorantia, Opuscula, ms, foll. 139-140.

[11] De ignorantia, ms, 1, fol. 19.

[12] Cfr. De cognitionibus, cap. XIII, pp. 60-61; cap. XXIX, p. 115; cap. XXXIV, p. 129; cap. XXXV, p. 131.

[13] De ignorantia Demonum (scritto così, senza dittongo), che costituisce il quaderrno manoscritto che qui cito con la sigla De ignorantia, ms. (Si veda l’«Indice degli scritti federiciani citati o menzionati»).

[14] De ignorantia, ms, 30, fol. 22. Per il vero, le frasi di questa annotazione non sono integre, dato che non tutte le parole sono leggibili; e non è espressamente precisato che si trattava del titolo riferito all’“ignoranza”, benché sia ragionevole ritenere che lo fosse, dato che tale è il titolo del blocco di annotazioni.

[15] Sottolinatura nel manoscritto.

[16] De ignorantia, ms, 30, fol. 22.

[17] Cfr. De ignorantia, ms, 79, fol. 28, citato sotto.

[18] De ignorantia, ms, 79, fol. 28.

[19] Quello di “scientia” vi compare, applicato nel modo sopra detto, cinque volte soltanto.

[20] Sententia Cardani, fol. 5v.

[21] Essi sono inclusi nei Quattro libri di addizioni da farsi à diversi trattati composti dal Cardinale Federico Borromeo (si veda Addizioni nell’«Indice degli scritti federiciani citati o menzionati»).

[22] E tuttavia in due casi su dieci lo indicano ancora con quello di “De ignorantia Dæmonum” (cfr. Addizioni, «Codex primus Additamentorum», fol. 272 e fol. 275). Sembra che l’“ignoranza” in cui i demoni sono stati visti da Federico Borromeo lo abbia profondamente colpito, se egli li tacciò perentoriamente, in un appunto, «vere ignorantes» (De ignorantia, ms, 64, fol. 26, con rimando a Lorenzo Anania: «Demones uere ignorantes. Laurentius Anania lib. 3 fol. 132.»), e dovette forse compiacersi dell’opinione secondo cui a volte i demoni sono «ignorantissimi» (De cognitionibus, cap. XXXX, p. 137).

[23] Si tratta del De ignorantia Demonum all’interno del codice Miscellanea uaria, un blocco di 111 appunti raggruppati in 23 fogli, che costituisce il quaderrno manoscritto che qui cito, come riferito più sopra, con la sigla De ignorantia, ms.

[24] De ignorantia, ms, 71, fol. 27.

[25] De ignorantia, ms, 12, fol. 20.

[26] De ignorantia, ms, 11, fol. 20.

[27] De ignorantia, ms, 4, fol. 19.

[28] De ignorantia, ms, 23, fol. 21.

[29] Cfr., ad esempio, i capitoli VI, XII, XV, XXX, XXXV, XXXVII, XXXXII, per i Dottori di teologia; il cap. XXXXX, per i Padri della Chiesa, sempre del De cognitionibus, di cui trattasi.

[30] De cognitionibus, cap. VIII.

[31] De cognitionibus, cap. XV.

[32] De cognitionibus, cap. XII.

[33] De cognitionibus, cap. XXXI, p. 121.

[34] De cognitionibus, cap. XXXXII, p. 147.

[35] De cognitionibus, cap. XXVIII: «Sed quam arcta sit potentia Spirituum malignorum, ostendunt etiam ipsi conatibus suis, præstigijsque inanibus circa res eas, quæ materia constant, sensibu<s>que percipiuntur» (p. 111); «Species autem epularum amœnissima, et elegantissima ibi sit, proptereaquod Dæmones, cum vera dapis habere nihil possint, nisi vile quidpiam, et vulgatum, subsidio assumunt fictam imaginem elegantis, et opipari conuiuij, atque ita suis illudunt» (pp. 112-113).

[36] De cognitionibus, cap. XXX, p. 117.

[37] De cognitionibus, cap. XXX, p. 120.

[38] De cognitionibus, cap. XXXI, p. 121.

[39] Ad esempio: «Vnde Augustinus in Libro tertio de Trinitate, Capite nono ex ineffabili potentatu Dei fit, ut quod possent mali Angeli, si permitterentur, ideo non possint, quia non permittuntur» (De cognitionibus, cap. XXXV, p. 130). «Postquam vero talis extiterat equus, leue negotium fuit sistere eum Philippo Regi, quem < cuiusque > eius inusitatæ rei curiosum fore apparebat» (De cognitionibus, cap. IV, p. 12), in cui la costruzione del verbo “apparere” con proposizione infinitiva non è supportata dalla struttura dell’intero periodo. «Ob eam nimirum quoque causam, minus expositum esse Dæmonum insultibus, qui comitatus incedat, quam qui solitarius» (De cognitionibus, cap. XXII, p. 92), in cui il ricorso alla forma impersonale («expositum esse»), del resto non necessario, è comunque strano.

[40] Ad esempio, «Quod autem < interdum > in peccati pœnam < priuetur Angelus varijs naturalibus donis > perierint Angelo pleraque naturalia dona, quibus < nisi peccatum admisisset, libere usus fuisset > ante peccatum clarus, excelsusque fuerat, eaquæ deinceps proponemus argumenta declarabunt» (De cognitionibus, cap. XX, pp. 88-89), in cui quest’ultima proposizione: «eaquæ proponemus argumenta declarabunt», è formalmente insostenibile. «Nouissime etiam < simili quiddam accidit casui illi, quem > sicuti Tertullianus idem refert, mulier fuit una ecc.» (De cognitionibus, cap. XXXI, p.122): cambiata la struttura sintattica con l’aggiunta di una proposizione relativa e l’eliminazione di una proposizione incidentale, non è stata tuttavia modificata l’interpunzione in relazione alla nuova struttura, per cui è rimasta la virgola dopo quella che era, in precedenza, una proposizione incidentale («sicuti Tertullianus refert,»).

[41] «In sede di inventio il cardinale ama attingere contemporaneamente a tutti i materiali a sua disposizione, effettuando prelievi dai suoi vari codici di studio.» (GIULIANI, p. 91); per cui i quaderni di appunti «offrono materiali per più opere; singoli brani vengono innestati nel corpo di testi diversi […]» (GIULIANI, p. 90).

 Recensioni e segnalazioni

Ginevra Crosignani, «Archivum Historicum Societatis Jesu», vol. 79, a. 2010, 158, pp. 586-590.

Il De cognitionibus quas habent daemones liber unus fu data alle stampe dal cardinal Federico Borromeo nel 1624, lo stesso anno dell’altra sua opera a carattere demonologico: Paralella cosmographica. De sede et apparitionibus daemonum. Liber unus. Francesco di Ciaccia, già autore di una pregevole edizione del Paralella cosmographica (2008), ci propone un’altra opera del cardinal Borromeo, ovvero lo stampato latino del De cognitionibus basato su di una delle due copie conservate presso la Biblioteca Ambrosiana (ma “contenente interventi di modifica e correzione più numerosi e più precisi” [p. 29]), e la sua traduzione, realizzata con l’ausilio dei “quaderni di studio” federiciani, ovvero quaderni di appunti preparatori al testo stampato.

A causa della presenza di “costruzioni sintattiche errate o strane” o “sviste nelle operazioni di modifica … con conseguenti confusioni grammaticali e sintattiche …” (p. 26), il curatore ha considerato essenziale l’utilizzo dei quaderni preparatori nel processo di traduzione dell’opera. Essa risulta, pertanto, estremamente accurata sia da un punto di vista grammaticale che contenutistico, ed è precisamente grazie ai quaderni federiciani che il curatore ha potuto colmare le lacune interpretative presenti nel testo e, dunque, documentare i raccordi tra i libri stampati e gli appunti manoscritti” (p. 26).

La genesi del De cognitionibus risale al tempo della stesura di uno scritto a chiaro fine pastorale, il De ecstaticis mulieribus et illusis, apparso nel 1616, con il quale il cardinale offriva direttive riguardo ai cosidetti fenomeni “estatici”, ovvero connessi con visioni che avrebbero potuto provenire da Dio. Inoltre, la tematica che si cela dietro un titolo che il cardinale dovette oculatamente selezionare onde non dar luogo a confusione, rende il De cognitionibus assai differente dal Paralella cosmographica. Infatti, la problematica che il Borromeo si trovava ad affrontare era “annosa e notoria” (p. 13), ma la sua analisi non voleva essere incentrata sulla conoscenza che gli uomini hanno o possono avere dei demoni, tema che caratterizza parzialmente il Paralella cosmographica, bensì sulle “conoscenze che i demoni [corsivo nostro] possiedono dall’inizio della loro creazione o a cui sono in grado di accedere nel tempo” (p. 13). La questione di quali mezzi abbia il demonio a disposizione per corrompere, pervertire ed eventualmente conquistare un’anima era ovviamente cruciale sia da un punto di vista dottrinale che di direzione spirituale, e vanta un’antichissima tradizione, dalla filosofia antica alla patristica, “dalla teologia alla psicologia, dalla dogmatica alla fenomenologia dell’arte magica” (p. 18). Opinione comune era che il demonio fosse in grado di conoscere l’intimo dell’uomo, i suoi pensieri più reconditi, le sue fantasie così come gli atti esterni. Tuttavia, era altresì considerato assodato che in quanto “decaduto” il demonio non potesse vantare le stesse conoscenze degli angeli, e ciò risultava comprovato dalla pratica pastorale (ed inquisitoriale), laddove uomini di Chiesa illuminati avevano dimostrato di poter facilmente smascherare il demonio nei suoi tentativi di illudere o ingannare soggetti particolarmente deboli.

Questo particolare trattato del cardinal Borromeo rientra in un genere diverso da tutti gli altri che sono essenzialmente di carattere pedagogico, didattico o pastorale: il De cognitionibus è, infatti, “un prodotto dottrinale in senso stretto” (p. 22), cioè un’opera di carattere teorico o speculativo, come provato dalla sua struttura interna che segue lo schema argomentativo proprio della trattatistica scolastica tradizionale. Oltre a ciò, la naturale complessità connessa alla trattazione saggistica delle conoscenze demoniache dell’animo umano, ha prodotto un testo che in certo senso manca di unitarietà e che mette in evidenza “alcune lacune formali e qualche disorganicità, meno marcati in altri libri demonologia del medesimo Autore” (p. 22). L’intenzione del cardinal Borromeo di trattare della conoscenza dei demoni è al tempo stesso spirituale e razionale, ed il solo fatto che egli si sia cimentato in un compito tanto arduo gli rende onore. Tuttavia, mentre Paralella cosmographica è un’opera che affronta il tema delle apparizioni demoniache dal punto di vista fenomenologico e medico, muovendo dall’esperienza della ragione umana, il De cognitionibus prende in considerazione “la sfera operativa dell’attività demoniaca” (p. 24) argomento che manca, per definizione, di una vasta ed “oggettiva” letteratura. Il tema dell’esistenza del demonio è ricorrente nelle Sacre Scritture, ma esso non viene mai trattato in maniera organica, tanto che la Chiesa deriva le sue conoscenze ed i suoi insegnamenti essenzialmente dalla Genesi e l’Apocalisse di S. Giovanni, alla luce di una interpretazione patristica e teologica compendiata nei decreti del Concilio Lateranense IV (1215). Lo stesso cardinale non si cimenta nell’ermeneutica di tutti i passi biblici in cui viene menzionato il demonio, poiché egli stesso è consapevole delle incertezze teologiche della disciplina demonologica (p. 197). Piuttosto, si trova costretto a fare appello alle testimonianze degli uomini su questo tema, anche quando si tratta di filosofi, uomini illuminati o Padri della Chiesa, oppure ad alcune conoscenze che si davano al tempo per scontate, come il fatto che gli astri avessero un’influenza sulla esistenza umana (pp. 206-207).

Il libro unico del De cognitionibus è articolato in 34 capitoli, la maggior parte dei quali dedicati all’esame della autorevole letteratura teologica in materia demonologica, la quale – pertanto – non necessita di alcun chiarimento o spiegazione, ma anche di quegli aspetti che “sono più incerti ed ambigui circa le conoscenze dei demoni” (p. 161). In seguito, vengono esaminati i modi del conoscere dei demoni e l’oggetto della loro conoscenza: essendo stati essi stessi un tempo angeli buoni, viene anche affrontata la conoscenza degli angeli e la natura della loro conoscenza degli uomini, dei loro pensieri ed azioni.

Poiché gli angeli “vedono e conoscono la natura e l’essenza divina … Parimenti conoscono tutte le cose naturali, ed al di là dei confini naturali, sia in forza di rappresentazioni impresse, sia grazie al lume della rivelazione” (p. 164). La conoscenza dei demoni invece, è notevolmente limitata per volontà del Creatore il quale decide egli stesso di manifestare loro alcune cose ed occultarne altre, o impedisce che essi possano compiere alcune cose che vorrebbero o potrebbero fare (pp. 198, 243-244). Pertanto, le cose “puramente soprannaturali” (p. 164) sono ignote ai demoni, ma non il “modo” in cui taluni eventi di siffatta natura si sono verificati, come per esempio certi sacri misteri, “i miracoli di Cristo, la Verginità della madre di Dio, la Resurrezione del Salvatore” (p. 164). Molti filosofi antichi attribuirono ai demoni ingegno acuto e facoltà divinatorie, ma secondo i Dottori della Chiesa essi non avrebbero alcuna facoltà di predire il futuro se questo non gli è permesso da Dio o se esso non gli è mostrato dagli angeli o da altri demoni, ma sempre che ciò avvenga per volontà del Creatore. Talvolta Dio può servirsi dei vaticini dei demoni per ammonire gli uomini circa qualche peccato loro, distoglierli da certi vizi o esortarli alla virtù, ma ciò non solo avviene per “permissione di Dio, ma anche per suo volere” (p. 169). Poiché Dio solo ha assoluta e completa conoscenza dell’animo umano, è chiaro che i demoni non conoscono i sentimenti ed i pensieri degli uomini. Dunque, il cardinale va ad esaminare fino a che punto si estendano le conoscenze dei demoni dell’animo umano. Secondo il Borromeo i demoni sono sensibili alle alterazioni fisiche – come il “movimento del corpo” o “1’agitazione delle membra” (p. 171) – o chimiche del nostro organismo (“1’alterazione degli umori”) e ciò può fornire loro una certa conoscenza delle nostre fantasie, inclinazioni o predisposizioni ad un certo momento, ma non certo – come affermato dallo stesso San Tommaso – i pensieri dell’animo umano. “La stessa pratica di vita” può rendere i demoni in grado di fare congetture su quali saranno le azioni degli uomini, ma ciò è cosa comune presso gli stessi esseri umani, che non mancano di dedurre ciò che accadrà da ciò che è accaduto. I demoni possono infiltrarsi nella nostra fantasia perché hanno conoscenza della nostra pura facoltà intelligente, o specie impresse, ma non della nostra capacità cognitiva, che è la specie espresse, e che è all’origine del moto della volontà il quale “induce l’animo in modo tale che si occupi di una cosa piuttosto che di un’altra” (p. 172). I demoni non sono dunque in grado di fare i sillogismi che sono propri dell’intelletto umano, poiché non possono accedere ad un elemento proprio dell’animo che è la volontà: la volontà, infatti, ordina all’intelletto e lo induce alla riflessione, il che fa parte del processo della conoscenza umana. Secondo San Tommaso, Tommaso Argentinense, Erveo Brito, Durando, Duns Scoto e Gabriel Biel, i demoni hanno una superficiale conoscenza dei “sentimenti” del cuore umano ma solo per ciò che non coinvolge la volontà o l’atto cognitivo. Talvolta, ai demoni può essere noto l’atto intellettivo, o i “contenuti immaginativi dell’intelletto” (p. 181) di un soggetto, ma ciò avviene esclusivamente per volontà di Dio e per i suoi personali fini. San Bonaventura conferma che i demoni non possono accedere ai pensieri umani poiché Dio ha deciso che l’uomo conservasse intatta la sua volontà che è all’origine del libero arbitrio. Se dunque Dio stesso lascia liberi i suoi figli di scegliere tra il bene ed il male, a maggior ragione ai demoni è interdetta la conoscenza del processo cognitivo umano o delle azioni che originano dalla volontà (p. 177). Ora, per quale motivo l’antichità è piena di credenze secondo cui il futuro fosse ad alcuni anticipato in sogno? La risposta del cardinale è semplice: “l’antichità fu oltremodo superstiziosa e intenta ad ogni minuzia” (p. 183) e la spiegazione di ciò è straordinariamente moderna, e cioè che queste predizioni sono solitamente reinterpretate ed adattate “dopo che i fatti erano successi … Accade la stessa cosa nelle previsioni degli avvenimenti in base all’influsso celeste: avvenimenti che si ritiene allora siano stati previsti, quando cioè sono accaduti. Anche le più antiche testimonianze storiche – parlo di quelle profane – consta che sono state di fatto messe in dubbio anche dagli antichi profani, tanto che ai greci fu tolta la credibilità e fu ritenuta sospetta la credenza superstiziosa dei latini” (p. 184). Non fa meraviglia, poi, che il cardinale considerasse i demoni all’origine dell’eresia: secondo la testimonianza oculare di persona cui era appartenuta la casa dove risiedeva Zwingli, il riformatore svizzero sarebbe stato visto dal buco della serratura parlare con il demonio in persona (p. 189). Della dottrina degli anabattisti è pure responsabile il demonio: per il cardinale, infatti, i demoni si servono di vaticini “santi” che auspicano un rinnovamento della Chiesa e raggiungimento di uno stadio di maggior perfezione per piegarli ai loro fini funesti, ed inducono “le sette degli eretici a farsi come maestre della riforma della Chiesa, e a questo titolo specioso, hanno construito la loro credibilità e il loro insegnamento con menzogne e scelleratezze” (p. 189).

Il tema della conoscenza dei demoni riconduce ad un problema di natura teologica molto importante, cioè si interroga sulle ragioni che favorirono la caduta di quegli angeli (che poi divennero demoni), e che il cardinale fa risalire ad una combinazione di invidia (pp. 211, 214) ed ignoranza: Lucifero non capì “quanto ignobile e grave fosse la rovina di allontanarsi dalla volontà di Dio e di essere suo nemico” (p. 214). Nel tema dell’operatività dei demoni rientra la questione dei poteri magici tradizionalmente attribuiti alle creature sataniche. Ebbene non solo gli uomini che vantano di saper esercitare quest’arte in sommo grado attirano su di sé soltanto scherno, poiché “promettono … cose che non possono dare”, ma gli stessi demoni sono impediti da Dio nell’esercizio della magia perché “se la divina provvidenza non lo facesse, sarebbe gravemente perturbato l’ordine universale e tutto precipiterbbe verso il peggio” (p. 265).

Ancora una volta il cardinale mostra di avere una sensibilità ed una razionalità da far invidia a molti dei nostri contemporanei, i quali come apprendiamo dalle statistiche, fanno ancora affidamento su di oroscopi e talismani. Il De cognitionibus è a nostro giudizio meno accattivante del Paralella cosmographica, parzialmente a causa del fatto, come per Francesco di Ciaccia, che il testo si presenta meno organico sia da un punto di vista strutturale che contenutistico. Eppure il pregio di quest’opera sta precisamente nel tentativo di offrire un quadro unitario di una disciplina che a tutt’oggi, benché la Chiesa Cattolica sia lungi dal dubitare dell’esistenza del demonio, organica non è, e mai lo sarà, per la stessa natura dell’oggetto in questione.

Con grande erudizione e minuzia scientifica, Francesco di Ciaccia persevera nel merito di mostrare al pubblico dei contemporanei come un ecclesiastico del diciassettesimo secolo sappia trattare un tema che anche oggi esporrebbe grandi esperti al ridicolo, senza mai perdere di credibilità scientifica e teologica. University of California, San Diego. Ginevra Crosignani

Felice Accame, I demoni del rischio, Radio Popolare, 25 aprile 2010.

Federico Borromeo (1564-1631), cugino di quel Carlo assurto lo sa Dio come alla dignità di Santo, arcivescovo di Milano a 31 anni, fondatore della Biblioteca Ambrosiana e, ne I promessi sposi del Manzoni, personaggio – a rappresentare cristianesimo puro e dedizione intelligente -, Federico Borromeo ha scritto, tra l’altro, De cognitionibus quas habent daemones liber unus (“Cosa diavolo sanno i demoni”, traduciamolo così), che recentemente, per la cura attenta e scrupolosa di Francesco Di Ciaccia, è stata ripubblicato dalla Biblioteca Ambrosiana stessa e da Bulzoni editore.

La tesi che Federico Borromeo sostiene nel libro è che questi demoni abbiano conoscenze piuttosto limitate. In particolare, per loro costituzione, non riescono ad accedere ai “moti della volontà” altrui, ovvero a tutti quei processi dell’animo umano che fan sì che ci si occupi di una cosa piuttosto che di un’altra. Di ciò non possono avercene un’idea – se non “accidentalmente” o tramite gli effetti che ne scaturiscono. Anch’io – come un demone qualsiasi – non posso avere conoscenza del pensiero altrui, ma – in proposito –, un po’ come fan tutti, cerco di arrangiarmi.

Illustrando le difficoltà cui vanno incontro i demoni per penetrare nel pensiero umano, Borromeo riutilizza anche un noto racconto di Tacito, presumibilmente già di seconda o di terza mano – un racconto la cui traduzione fu parzialmente inflitta qualche anno fa anche agli studenti che volevano superare l’esame di maturità. È quello che narra della passione dell’imperatore Tiberio per l’astrologia, delle noie di cui si era dovuto caricare per trovarne uno buono e del modo in cui, finalmente, uno buono – un astrologo veramente in gamba – l’abbia trovato. Tiberio, dunque, aveva preso l’abitudine di ingaggiare un astrologo e di portarlo a passeggio con lui nella parte più alta della sua villa con vista mare arroccata su una scogliera. Godendosi il fresco interrogava l’astrologo di turno e, se questi tradiva ignoranza o millantato credito – o, più semplicemente, se forniva oroscopi poco favorevoli -, sulla via del ritorno, lo faceva buttar giù dalla scogliera. Ora, ammettendo pure che la tivù di regime non ne parlasse, a mio avviso va da sé che una tal volatilità di astrologi non poteva passare del tutto inosservata. Quando venne il turno di Trasillo, infatti, le cose si svolsero diversamente. Alle ovvie richieste dell’imperatore, Trasillo risponde presagendo potere sempiterno e fauste sorti, ma, così facendo, ne aizza anche i sospetti. Mussolini, in queste cose, non era tanto diverso da Tiberio: quando incontra Rol, teme il ciarlatano, ma non sa fare a meno della certezza di un roseo futuro. Fatto sta che Tiberio – giusto mentre si accingono alla discesa – decide di metterlo alla prova e gli chiede se ha studiato il proprio, di oroscopo; cosa gli dicono le stelle per il giorno stesso. A questo punto, Trasillo deve aver cominciato a sudare freddo, ma, essendo persona perspicace prima che valente astrologo, si impegna in complicatissimi calcoli circa le posizioni e le distanze di questo o quell’astro. E, palesemente, si impaurisce, lo dà a vedere fino a che Tiberio gli chiede che gli ha preso. Al che l’astuto Trasillo si gioca l’unica carta che gli rimane e dice all’imperatore di sentire su di sé un’oscura, improvvisa, immediata minaccia. Tiberio è una pasta d’uomo, abbocca e lo abbraccia congratulandosi con lui – non vede l’ora, d’altronde, di poter credere negli oroscopi favorevoli e, se fa fuori l’astrologo, ogni fondamento dell’oroscopo crolla con lui. Se lo terrà quindi caro, prezioso consigliere, per lunghi anni – una sorta di archetipo dell’intellettuale di sinistra.

In molti hanno ritenuto che sia stata la sua competenza astrologica a salvargli la pelle – che, effettivamente, le stelle avessero parlato al terrorizzato Trasillo all’apice del suo dramma -, ma Federico Borromeo non ci casca. Dice che “la scaltrissima divinazione di Trasillo fu opera dei demoni” – altro che stelle.

Un vecchio trucco utilizzato da alcuni galleristi, in occasione di mostre d’arte, consiste nell’applicare un minuscolo bollino rosso in un angolino basso della cornice. Significa – nel linguaggio richiesto dalla discrezione signorile – che il quadro è già stato venduto. In alcuni casi può esser vero – perché no ? -, ma in altri casi è frutto di un astuto calcolo. Se qualche quadro è già stato venduto – più o meno è questo il ragionamento retrostante -, significa che il pittore ha successo, che le sue quotazioni sono in rialzo, che c’è dell’interesse nei suoi confronti. Allora – anche se di quadri non ne sono stati venduti affatto -, qualche bollino rosso qua e là – secondo il principio che sono sempre in tanti a voler salire sul carro del vincitore, secondo il principio che più una merce sembra richiesta e più è richiesta davvero – può incentivare le vendite.

Che il trucco, però, comporti un rischio è evidente. Se il quadro è già stato venduto non è più in vendita – e, dunque, diminuiscono le merci in offerta. Diciamo che qualche esemplare – a ragion veduta o a ragion da vedersi – viene sacrificato alla propaganda. Una volta convinto qualcuno ad acquistare un’opera d’arte, poi, sull’esemplare vero e proprio ci si può sempre mettere d’accordo. Di solito si compra una firma e l’aura che la circonda, quasi mai quella specifica opera e solo quella.

Non ritenendo sufficiente quello sul portone, sulle finestre di un appartamento in un palazzo al primo piano non lontano da casa mia, per un lungo periodo – mesi e mesi, forse qualche anno – era stato affisso il cartello di “vendesi”. Da qualche giorno sui medesimi cartelli – di traverso – ne è stato aggiunto un altro: “venduto”. Parrebbe una diseconomia stridente. Se l’appartamento è stato venduto andrebbe da sé che i cartelli siano tolti: l’appartamento non è più in vendita, perché è già stato comprato. Non siamo in una galleria d’arte. Quell’appartamento, in quel palazzo, era l’unico in vendita. Quello non è l’esemplare di una lunga serie e invogliare qualcun altro al suo acquisto, quando l’acquisto è già avvenuto, è privo di senso – non comporta utile alcuno.

Invece, a ben intrufolarsi da demonietti nel pensiero altrui, non si tratta di un caso di diseconomia, ma di un raffinato uso del linguaggio nella sua funzione persuasoria. L’immobiliare canta gloria e invita a salire sul proprio carro. L’immobiliare che aveva ricevuto l’incarico di vendere l’appartamento vuol far sapere al mondo intero di aver adempiuto alla propria missione. Contro la concorrenza, lo grida ai quattro venti per far sì che altri proprietari smaniosi di vendere il proprio appartamento le affidino la fatale delega. Se la pubblicità è l’anima del commercio, anche la metapubblicità è l’anima del metacommercio.

Il pensiero altrui è un ginepraio, il linguaggio non sempre aiuta o, meglio, non sempre aiuta la sua espressione esplicita. L’astuto Trasillo, l’astuto gallerista e l’altrettanto astuto immobiliarista sia che negozino la propria vita, l’opera d’arte o la casa affrontano rischi e cercano di calcolarli al meglio in rapporto all’utile loro. Agli interlocutori tocca arrangiarsi alla meno peggio nel non detto per limitare i danni – soprattutto se si è ingenui acquirenti. Diverso è il caso degli imperatori.

Svetonio racconta l’episodio di Trasillo in modo significativamente diverso. “Anche l’astrologo Trasillo”, dice, “gli diede prova del proprio sapere avvertendolo che una nave, avvistata in lontananza, gli avrebbe dato la gioia, mentre Tiberio, poiché le sue cose andavano sempre peggio, aveva deciso proprio in quel momento, mentre stavano passeggiando insieme, di precipitarlo in mare”. Qui coraggio eventuale, competenza astrologica e astuzia servono ancora meno. Si può effettuare una duplice scommessa piuttosto facile. Prima che la nave arrivi a destinazione, dalla scogliera si ha fatto in tempo a scendere e se qualcuno sta arrivando da uno come Tiberio è più probabile che gli porti notizie buone che cattive.

Note

In un commento alle prove per l’esame di maturità, Luciano Canfora racconta la vicenda di Trasillo in modo ancora diverso. Dice che “se la cavò perché predisse a Tiberio che un grave pericolo, forse fatale, lo minacciava. Tiberio fu grato perché poteva prevenire e cautelarsi”. Con il che i rapporti tra l’astrologo – mai stato in pericolo – e il cliente – mai avuto cattive intenzioni – sarebbero ricondotti alla normalità. Cfr. “Il Corriere della Sera, 24 giugno 2005. Mi scuso di non aver avuto il tempo sufficiente per verificare la versione dei fatti alla fonte – che è il sesto libro degli Annali di Tacito. Cfr., poi, F. Borromeo, De cognitionibus quas habent daemones liber unus, a cura di F. Di Ciaccia, Biblioteca Ambrosiana e Bulzoni Editore, Milano e Roma 2009 e cfr. Svetonio, I dodici cesari. Gli uomini illustri, Rizzoli, Milano 1968, pag. 163 – nella traduzione del vecchio amico Felice Dessì.

Armando Torno, Le streghe di piazza Vetra: in nove finite sul rogo, «Corriere della Sera», 2 agosto 2010, p. 5.

A Milano durante l’episcopato di Federico Borromeo, tra il 1595 e il 1631, furono bruciate nove streghe (i loro processi sono conservati in un armadio di ferro nell’archivio della Curia). Il luogo delle esecuzioni fu quello abitualmente utilizzato dalla giustizia del tempo: piazza Vetra. In città operava un esorcista di fiducia del cardinale, fra’ Francesco Maria Guaccio (o Guazzo), che scrisse il Compedium maleficarum (prima edizione Tradati, Milano 1608; la seconda stampata nel 1626 dalla tipografia dell’Ambrosiana). Alla fine del secolo scorso Luciano Parinetto lo definì «squallidissima epitome persecutoria certo cara alla inquisizione milanese». Nel primo libro, una frase fa sobbalzare: «I malefici e le lamie (cioè stregoni e streghe) usano compiere l’atto sessuale quelli coi demoni succubi, queste con i demoni incubi». Guaccio era nato a Milano nell’ultimo quarto del Cinquecento e fu chiamato in diversi Paesi europei per la sua autorità nelle questioni di stregoneria. Praticava esorcismi nella sacrestia della Chiesa del Carmine. Queste notizie dobbiamo tenerle presenti riaprendo un’opera di Federico Borromeo che ora, curata con competenza da Francesco di Ciaccia, ritorna in libreria: De cognitionibus quas habent daemones, ovvero Le conoscenze che hanno i demoni (Bulzoni Editore – Biblioteca Ambrosiana, pp. 288, euro 20). È il compendio milanese più interessante in materia e in esso si possono trovare le considerazioni del cardinale caro ad Alessandro Manzoni sulle menzogne e le astuzie che questi esseri infernali possiedono, sul loro amore per le cose turpi, persino sugli odori che li caratterizzano. Fa impressione leggere un passo come il seguente, quasi sicuramente proferito in una confessione da una strega meneghina, dopo aver ammesso la partecipazione a un banchetto con il diavolo: «I cibi non erano amari né tanto sgradevoli, ma proprio non avevano quel sapore naturale che sentiamo mangiando comunemente, e che infine ne seguiva disgusto e nausea». Milano, detto in parole semplici, non si fece prendere dalla febbre della caccia alle streghe che colpì non poche regioni d’Europa, ma ebbe le sue vittime e soprattutto i testi che ne certificavano la repressione. Del resto, oltre la Vetra e il Carmine, nel capoluogo lombardo si credette di vedere il demonio arrivare in carrozza con paggi e sei cavalli bianchi il 16 agosto 1630 e andare in Duomo a discutere con i teologi. Sciocchezze? No, è scritto in un documento, tradotto anche in tedesco, recuperato da Ermanno Paccagnini in Ambrosiana tra le carte di Federico. Il quale, va detto a suo merito, proprio non credette alla storia. Anche se molti descrissero fisicamente quel diavolo. Torno Armando

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