Lain, Luciana – Calloni, Francesco, La pelle dell’India

Luciana Lain – Francesco Calloni, La pelle dell’India, Gorle, Editrice Velar, 1989.

Lain-Calloni

 In copertina: foto Francesco Calloni

 

 

Testo della Introduzione

Avevo avuto l’incarico di sbirciare, proprio alla svelta e senza impegno di sorta, il contenuto del libro, per tentare di trarne non dico un giudizio globale, ma semplicemente un’impressione fugace. Così incominciai a leggerlo con svogliatezza tra uno sbadiglio e l’altro, mentre mi lavavo dopo cena la dentiera. Senza accorgermene mi ritrovai, mezz’ora dopo, con lo spazzolino ancora tra i denti: e stavo ancora leggendo. Feci un gesto di disappunto, contro di me, come nel sorprendermi a perdere tempo. Ma portai d’istinto, tuttavia, le bozze nel mio studiolo: continuai a leggere tutta la notte.

La fisica esperienza del posto, di quell’universo che si chiama India ma che si può definire tre terzi del mondo sotto alcuni riguardi, nella sua presenza corporea mi prendeva la pelle. Sentivo la pioggia, capivo la siccità, godevo del sole e piangevo delle piaghe dei miei sconosciuti fratelli.

Spaziavo realmente nella sua terra infida, nell’incognita purulenta d’un’India sperduta e penosa: io la stavo conoscendo, viso a viso, leggendo questo libro dagli occhi avidi di cose, la toccavo con mano di fantasia. Lo scritto di Luciana Lain avvinceva per due fascinazioni: primo, per la lucidità d’una narrazione che m’inchiodava alle persone, alle cose e agli stessi problemi dell’India; secondo, per, la liricità della prosa.

Diciamo allora una parola sul modulo scrittorio di questo libro. S’avvicina a quello della poesia-racconto, ma qui è la prosa che assume la cadenza poetica, modulata e incisiva. Non è lirica: al contrario. È descrizione asciutta, è annotazione realistica, osservazione sentenziosa. La scarnificazione delle immagini ha l’ampio respiro delle idee.

Il ritmo è svelto, il linguaggio è facile, le immagini icastiche. La lettura diventa un piacere.

Ma che cosa dice, che cosa dice a noi quest’India fetente, quest’India misterica, povera, esuberante, variegata, quest’India che stordisce di rumori ed acceca di solitudine, ricca e pezzente, livida di sogni e soffocata di realtà?

In questo libro, ciò che l’India è e ciò che “dice al mondo” è mediato dalla voce e meditato dallo sguardo dei nostri autori, testimoni attenti: entrati nella “pelle dell’India”. Non già visitatori che hanno percorso il Paese con la mente da stranieri, ma come Maria che si reca dalla cugina Elisabetta.

Nel libro ci sono descrizioni di città, nel loro panorama esteriore ma soprattutto nel brulichio della loro umanità. Quello che caratterizza questo scritto è l’indagine sul sociale, sui meccanismi e sulle contraddizioni del Paese, ma tutto attraverso il contatto diretto con la gente. Ne deriva una illustrazione non arida; obiettiva ma viva, penetrata nei dettagli, in dialogo con l’uomo degli affanni, registrata per strada ed insinuata nelle case.

Poiché non voglio anticipare al lettore il contenuto del libro, sottolineo due note della rivisitazione compiuta dagli autori: la delineazione privilegiata degli aspetti di povertà e d’umiltà, e la proteiforme problematica religiosa.

Focolaio di miseria, l’India annovera diverse cause oggettive della situazione di dissesto economico e di sperequazione sociale; e tra le varie spiegazioni c’è anche il fatalismo. Infatti, se esso genera in una parte della popolazione acquiescenza e accettazione passiva delle condizioni di vita, in un’altra, in minoranza, favorisce lo sfruttamento attivo.

Ebbene, il libro accenna agli speculatori e denuncia, per via indiretta, il meccanismo del loro arricchimento, ma non entra nelle loro abitazioni, non ne descrive la mano assassina. Ci fa vedere, invece, l’umanità che si arrabatta per guadagnare qualcosa, il lebbroso, il povero con la morte in agguato.

L’elemento religioso, poi, traspare qua e là come ingrediente di un popolo che al fato congiunge l’idea del divino. Ma la questione nella sua realtà istituzionale è specificamente trattata da Francesco Calloni. Egli traccia la storia delle maggiori religioni professate in India, induismo e buddismo, e non trascura le minoranze, islamismo e cristianesimo. Ciò che più colpisce nelle vicende della Chiesa cattolica in India è la sua capacità di adeguarsi ad ogni bisogno, e la dottrina diventa parola, la parola diventa silenzio ed azione, quando è necessario operare contro la miseria e la morte. Da ciò è derivata la grande considerazione in cui è tenuta la Chiesa, per il suo duplice volto: come istituzione dalle grandi risorse materiali, grazie alla solidarietà dei fedeli del mondo e alla mirabile organizzazione, e come compagna di vita. Teresa di Calcutta ne è uno degli esempi, e in questo libro ne è perfettamente delineato lo spirito. Ma anche molti altri missionari, e in particolare i Cappuccini, hanno assunto lo stile del “compagno di vita”, del fratello dei giorni penosi, con frutti di bene.

Il libro è corredato di splendide foto.

Al segreto del tempo, che sembra non scorrere, è strappato un brandello di vita, le immagini scavano istantanee di affanni, di sorrisi, di preghiere. Nulla è ufficiale e quasi nulla è “in posa”, salvo che in qualche interno delle case missionarie e per qualche viso di paradisiaca bellezza. S’è infatti già detto che gli autori hanno prediletto, tra la gente, gli umili e i poveri; ma s’è anche avvertito che, in quest’India di ultramillenaria cultura, alla povertà non è dissociata la bellezza: l’uomo e la donna conservano lineamenti degni di “signori del mondo”.

E se guardate non solo i sorridenti bimbi, ma anche gli adulti al lavoro o la donna che porta la brocca, voi vedete una finezza ed una gentilezza estetica che stupiscono: quasi fossero fresche della divina creazione. E anche questa povertà rivive attraverso l’obiettivo fotografico di P. Francesco Calloni. Scruta invisibile ovunque s’annida la vita quotidiana dell’arretratezza tecnologica. Non poca meraviglia destano l’aratro rudimentale tirato dai buoi macilenti, il mendico accovacciato come un ingrediente essenziale della civiltà cittadina, la donna che raspa nella pattumiera, contendendo a fianco a fianco coi cani e coi corvi il privilegio delle mucche indisturbate. Ciò che forse è l’immagine icastica d’un mondo rassegnato e pacifico, incosciente e insieme, a suo modo, risolto, è il fiume di fanghiglia che inonda le viuzze degli slum: la gente convive con il fango, passandoci dentro con la tranquillità con cui camminerebbe su dei tappeti… indiani. E un fanciullo si diverte scivolandovi sopra. Più dei nostri bambini sui pattini.

Quando sarà giunto all’ultima pagina del libro, il lettore non si troverà istruito su tutto ciò che è l’India: non vuol essere un’enciclopedia, questo libro, e neppure un saggio sociologico, storico, religioso.

Il lettore avrà invece la sensazione di aver “toccato con mano” tante piaghe e tanti volti e si sentirà più vicino a questa terra e a questo popolo nell’odore e profumo della sua “pelle” (pagine 3-4). [Francesco Di Ciaccia]

Prof. Francesco Di Ciaccia
membro corrispondente dell’Accademia Ceccardiana
e Vice Direttore di «Studi e ricerche francescane»