Piccotti, Sheyla, Svegliati uomo

In principio era l’io, Introduzione a Sheyla Piccotti, Svegliati uomo, Milano, Prometheus (Polimnia 15), 1998.

 

Piccotti. Copertina

 

Testo della Introduzione

L’exergo annuncia già l’impostazione culturale di Sheyla Piccotti: il valore primigenio è la persona. Alla persona non si può anteporre alcuna mitologia. La verità abita in te: e tu devi scoprirla. Nessuno te la può dare su un piatto. Neppure dorato.

Era già questo l’insegnamento socratico. Poi lo fu quello cristiano, già da quando fu detto: “Nessuno dovrà insegnare a voi. Lo spirito è dentro di voi, e lo spirito vi ammaestrerà”. Veritas intus, la verità è nell’intimo: come scrisse Agostino d’Ippona.

Il primato della persona impone innanzitutto che l’uomo non sia confuso con la moltitudine. È l’antitodo contro la massificazione. Delle menti. Ma anche del cuore, dei sospiri, del linguaggio. Di ogni filo d’erba non si può fare un fascio. Ciò vale soprattutto per l’individuo umano.

Sono voci, queste, innalzate quasi sempre, più o meno alte, nel corso della storia; ed oggi risuonano con maggiore vigore. La temperie liberista, coi suoi principi di libertà di coscienza, di pensiero, di parola, con la sua difesa dell’uomo inteso innazitutto come singolo individuo, sembra dar forza a questa voce, antica e nuova. E tuttavia, malgrado l’orientamento filosofico e antropologico, questa stessa società comporta in sé una gravosa zavorra: è lo spirito, generalizzato e direi istituzionalizzato, dell’interesse economico, del guadagno, dell’“utile” come orizzonte totalizzante. Esattamente, è lo spirito della economia. Sembra che il “gioco”, la pura gratuità, l’abbandono di sé a sé e alla vita, insemina tutto ciò che non sia commerciale, tocchi il suo culmine di negatività. Di riprovazione. Sociale e individuale.

Molti hanno già constatato – tra coloro che non hanno la testa integrata -, come la puerizia si diverta e goda con “poco”: una foglia, un sassolino, un poco di sabbia. Invece bisogna dare ai bambini giocattoli e giocattolini preparati, predisposti, programmati dal sistema! È solo un esempio. In realtà, la nostra testa è tutta dentro il profilo economico. Ritorna in mente il famoso episodio di un film: in una società primitiva, tutti raccolgono conchiglie. Senza conflittualità tra di loro. Ciascuno ne ha quante ne vuole. E tutti in abbondanza. Ma ecco che arrivano i civilizzatori del cosiddetto genere umano. I quali si mettono a esaltare il “valore” delle conchiglie, e ne progettano la raccolta a fine di lucro. Gli indigeni sono invitati a farvi parte. Gli indigeni si esaltano, inizia la concorrenza, si cerca il miglior risultato. Il fine è guadagnare le conchiglie. Alla fine gli indigeni si ritrovano in mano le stesse conchiglie di prima. Hanno perduto la propria libertà, per avere quello che avevano già. E ora, anzi, meno. E a carissimo prezzo.

Per il vero, c’è anche molto “volontariato”, nel mondo. Anche esso, però – lo si sappia –, è fonte di lucro per gli organizzatori. Un giorno – spero che mi inganni – si impadroniranno delle organizzazioni di volontariato le associazioni a delinquere! Si è perso il senso della “naturalità”: che è semplicemente vivere, che è semplicemente morire.

E si è perduto il senso della pura gratuità: che è far qualcosa per niente.

Il mito dell’economia non è l’unico che travolga l’individuo e la libertà originaria. Altri miti sgretolano l’essere, altri miti massificano. Sono gli idealismi. I quali, presentandosi come punti di vista “superiori” – così indicati dai “civilizzatori” –, decretano inferiore il soggetto, gli additano mete supreme – inventate – e, magari in nome di un’astratta “umanità”, soffocano l’uomo concreto. Con questo messaggio, in qualche modo misterioso e universale, Sheyla Piccotti inizia la sua presente raccolta (Svegliati uomo).

Nelle sue scelte scrittorie, Sheyla Piccotti è un esempio pratico dell’assoluta libertà del soggetto: il suo è uno stile anticonformista. Che permette un esito felicemente paradossale. Se l’ispirazione verte su sentimenti e temi personali, il risultato, grazie al testo dal sapore sibillino, travalica il puro dato empirico, proiettato su uno sfondo di mistero impersonale.

La vita privata è – come ho detto – la trapunta della presente raccolta. Ed è da segnalare – alle prime battute del libro – il raccordo col figlio. Un annuncio personalissimo, certo, e al contempo universale:

“L’animo mio fa festa”.

Una festa personale; ma che annuncia un confine senza confini, e che si appunta su un unico aggettivo possibile: semplice e splendido. Scontato e scoperto: “Bellissimo”. È la felicità per la vita nuova, rinnovata e rinnovante, il cui brivido trapassa per le vene di ogni vivente; per cui “si pasce di bellissimo / lo spirito ridente” (Mio figlio).

La poesia offre talvolta tasselli di vita nascosta: incastonati tuttavia nel mistero profondo della vita individuale. Come nella seguente:

“Intorno a un tavolino
creammo un nido
nella città straniera” (Intorno a un tavolino).

C’è di certo il magistero dell’ultimo Montale, poi accolto dalle generazioni degli anni ‘70. La poesia diventa “cosalità”, si occupa del “quotidiano”, eppure resta sempre solcata da un raggio di luce che illumina le “cose”, e apre ad esperienze esistenziali più ampie. Ad esempio, nel nido in terra straniera è condensato il bisogno di calore tra intimi, coi quali si fa trasmigrare il tempo vissuto il loco natio; ma, più in profondità, si legge il bisogno di amore, nella terra straniera che è questo mondo.

Altre volte la poesia diventa “morale” – per dirla col Manzoni – e, pur senza scendere nel “particulare”, dimostra la foga di chi sdegna la menzogna e l’inganno (Rapaci). In questo contesto, non sempre appare chiaro quale sia l’oggetto del contendere; tuttavia è sempre evidente l’intento di erigersi contro i trafficanti di morte e di dolore (A se stesso, 1997).

Ma il sentimento che più colpisce è la forza, coraggiosa e consapevole, di innalzarsi sopra le “maree” della vita (Maree). Tutt’altro che spezzata e vinta, e pur sommersa dalle onde – a volte distruttrici – dell’esistere, la vita si riconquista e si risolleva proprio grazie alle sofferenze patite: e dalle “macerie” delle illusioni, bevute come ad un amaro calice (Vivere vitam), riaffiora la consapevolezza della propria “regalità” (Nel sottobosco). Essere padroni di se stessi, pur sempre e nonostante tutto, è in effetti il vero regno dell’individuo. Soltanto allora si può cantare:

“Su questo terreno arido
deve di nuovo
speranza germogliare”.
Malgrado il desiderio di morte. Che attanaglia:
“Sul fondo della vita
sogno la vita” (Vivere vitam) (pagine 5-11) [Francesco di Ciaccia].

 

 

 

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