Recensioni, La peste

Testo delle recensioni, in ordine cronologico di pubblicazione

Siglario

 

Andrea Rognoni, Giovan Pietro Arluno, il primo scienziato che nel ‘500 capì la peste, «la Padania», sabato 18 dicembre 1999, pagina 11.

Si deve all’opera inesausta di Francesco di Ciaccia, storico e saggista che, pur essendo di origine ausonica, è particolarmente interessato all’evoluzione del pensiero padano, l’edizione in lingua italiana di un’opera latina che, all’inizio dell’epoca moderna, riuscì finalmente in Padania, a gettare luce su uno dei fenomeni più inquietanti del tardo Medioevo in Europa, la peste.

È appena uscito “La peste” di Giovan Pietro Arluno (ed. ASEFI […]), illustre medico milanese che osò cimentarsi con uno degli argomenti sanitari più discussi del tempo e seppe dare così una svolta alla ricerca, attraverso un metodo empirico che abbandonò le precedenti astratte speculazioni, destinate a impedire, purtroppo anche dopo il Cinquecento, una cura adeguata del triste fenomeno.

Il libro, datato 1517, è diviso in quattro parti e parla soprattutto della profilassi della peste.

Si parte dal pensiero di Galeno e dalla lezione di un altro grande padano, Pietro d’Abano, detto il “Conciliatore”.

Si riesce ad individuare nel settore della respirazione la principale canalizzazione del contagio: e la peste può trasmettersi, questa la grossa novità diagnostica introdotta da Giovan Pietro Arluno e da Alessandro Benedetti, anche attraverso degli oggetti contaminati.

C’è, tra l’altro, un chiaro riferimento ad alcuni studiosi arabi come Avicenna e Aliabbas, che collegavano la diffusione della peste agli influssi nefasti provenienti dagli astri.

Molto minuziose le ricette per prevenire e curare la malattia. La postfazione del Di Ciaccia, in funzione complementare all’introduzione “scientifica” di Giorgio Cosmacini, uno dei massimi esperti europei di storia della medicina, si occupa, in guisa molto singolare, degli aspetti demonologici di una piaga collettiva che dovrebbe venire letta anche in chiave teologica e demonologica come libido possidendi, tematica su cui aveva già scritto pagine memorabili nel testo “Da Dio a Satana” (Xenia, Milano, 1988).

Le coltissime note e la ricca bibliografia finale fanno raccomandare la lettura di questo libro, capitolo importante della ricostruzione di una cultura medica che proprio in Lombardia e in Veneto ha trovato straordinari interpreti, che nulla avevano da invidiare a grandi ingegni nordeuropei come il belga Vesalio e il pur discutibile Paracelso. Andrea Rognoni

 

Luca Orsenigo, Anche con la peste, «moderatamente allegri», «Il Gazzettino», mercoledì 5 gennaio 2000, pagina 19.

Con la fine del Millennio non sono certo scomparse le paure ancestrali ed inconsce, quelle che volenti o nolenti permeano la vita di tutti noi e a volte si risvegliano dalla notte dei tempi per rendere i nostri giorni un incubo o procurarci anche solo un mal di pancia. Da che mondo è mondo, ad esempio, la peste ha rappresentato a pieno titolo le paure più nascoste e in sua assenza, non trovandosi di meglio, le malattie che infeudano l’immaginario simbolico collettivo, sono via via assurte a peste del secolo come nel caso dell’Aids, che quel titolo s’è guadagnato, e a ragione, in brevissimo tempo.

La cosidetta scienza medicava un tempo assai poco e del resto tuttora non è che le cose vadano tanto meglio: con la peste o con chi ne porta il nome di solito c’è ben poco da fare. La vediamo un’altra volta in azione, questa scienza cui ci aggrappiamo più per fede che per reale convinzione in un libretto tradotto per la prima volta di Giovan Pietro Arluno, intitolato appunto “La peste” (Edizioni Terziaria Asefi). È un testo del 1500 e a quel tempo parlare di peste significava parlare di morte tout court, ma Arluno, che tra i dotti del tempo faceva la sua bella figura, sulla profilassi da attuarsi consigliava soprattutto «di evitare in genere le emozioni troppo forti: tenersi lontano con gran cura da ansietà, angustie e furiosi sdegni. Si stia moderatamente allegri: bisogna esser lieti in qualsiasi circostanza, e ben sperare in tutto», che sono comunque dei bei consigli, validi ancor oggi, pur se magari non proprio risolutivi. Arluno comunque si muove tra risorse naturali, «alternative» diremmo oggi, e un indirizzo prettamente clinico, al quale di fatto doveva la sua larga fama. Come non manca di sottolineare Francesco De Caccia [in realtà Di Ciaccia], nella dotta e spiritosa introduzione investigativa della vita e dei tempi, «l’opera di Arluno non si circoscrive esclusivamente entro l’ambito della medicina clinica. Egli prestò attenzione anche alle teorie circa le cause della malattia, discutendo sulle dottrine e vagliando le indicazioni terapeutiche della tradizione: e più di una volta anticipava le obiezioni di chi avrebbe opposto l’indiscussa autorità di predecessori illustri». Luca Orsenigo

 

Giorgio Cosmacini, Tre studi che analizzano il rapporto fra «I promessi sposi» e l’epidemia del 1630, una tragedia che ispirò pagine realistiche e commoventi. Manzoni: cronaca vera sui giorni del contagio. Lo scrittore narra gli effetti della peste a Milano meglio di ogni testimone oculare, in «Corriere della sera», martedì 28 marzo 2000, pagina 35 [sulle “Recenti pubblicazioni: «Alessandro Manzoni. Società, storia, medicina», a cura di Gian Luigi Daccò e Mauro Rossetto, Leonardo Arte. «Contagio. Sudore, lacrime e sangue in tempi di pestilenze» di Andrea W. D’Agostino, Musumeci editore. Giovan Pietro Arluno «La peste», a cura di Francesco di Ciaccia, Asefi editore].

Scendeva dalla soglia d’uno di «quegli usci…». La pagina dedicata dal Manzoni alla madre di Cecilia, che «portava in collo una bambina di forse nov’anni, morta», è, molto più di ogni descrizione storica, rappresentativa della peste che infuriò a Milano, e in altre parti d’Europa, nel 1630-31: un disastro demografico, biologico, psicologico, sociale, morale. «Voltatasi di nuovo al monatto – voi disse (la madre di Cecilia) – passando di qui verso sera, salirete a prendere anche me». La prosa manzoniana da, molto più di ogni spiegazione epide-miologica, la truce dimensione del contagio che rapì inesorabile la vita della madre e della figlia: «come il fiore già rigoglioso sullo stelo cade insieme col fiorellino ancora in boccia, al passar della falce che pareggia tutte le erbe del prato».

La realtà immaginata dai romanzieri e dai poeti è a volte più «vera» della realtà narrata dai testimoni e dai cronisti. Peste e contagio: due parole, una paura. Peste, ha scritto il glottologo Giacomo Devoto, «dapes, radice indoeuropea antichissima, che significa soffiare»: un soffio mortale, opposto al divino soffio animatore. Contagio, ha scritto molto tempo prima Isidoro di Siviglia, «da contactus, perché inseminò chiunque l’avesse toccato». Se la peste era la morte, il contagio era il suo battistrada. Se non lo si evitava, si moriva. La sola risorsa per salvare la vita era la fuga: fuge cito, longe, tarde, «fuggì presto, va’ lontano, torna più tardi che puoi». L’aforisma della medicina veniva messo in pratica anche da medici che abbandonavano i pazienti, da preti che abbandonavano i morenti, da figli che abbandonavano i genitori, finanche da genitori (non dalla madre di Cecilia) che abbandonavano i figli. Salvare la vita spesso voleva dire perdere l’anima, abdicando alla solidarietà, all’altruismo, all’aiuto, rintanandosi nell’egoismo della paura.

L’impatto con la peste, quanto era biologicamente esiziale, tanto era psicologicamente traumatico. Come la fuga, anche l’aggressività era un comportamento reattivo, istintivo o inconscio, una reazione esistenziale alla paura e all’angoscia di morte. Ne scapitavano anche i «conservatori» della pubblica salute presso il Tribunale della Sanità, il vecchio protomedico Ludovico Sellala e il più giovane collega Alessandro Tadino. Sul finire del 1629, scrive quest’ultimo in terza persona, «essi avvisarono che veramente la peste era in Milano, e però dalla plebe n’ebbero villanie, e poco mancò non fossero percossi». Più esplicito al riguardo è il Manzoni: «Un giorno che (il Settala) andava in bussola a visitare i suoi ammalali, principiò a radunarglisi intorno genie, gridando esser lui il capo di coloro che volevano per forza che ci fosse la peste; lui che metteva in ispavento la città, con quel suo cipiglio, con quella sua barbaccia; lutto questo per dar da fare ai medici. La folla e il furore andavan crescendo: i portantini, vedendo la mala parata, ricoverarono il padrone in una casa d’amici, che per sorte era vicina. Questo gli toccò (e toccò al Tadino) per aver veduto chiaro, dello ciò che era, e voluto salvar dalla peste molte migliaia di persone». Più di 70.000, ad andar stretti nel computo: la stima, in una Milano di circa 200.000 abitanti, serve a dare un’idea delle dimensioni della strage. Non si può negare che i due «conservatori» di una sanità cittadina tutt’altro che conservata avessero visto giusto. Per quanto condividessero entrambi la credenza, diffusa nella medicina del tempo, relativa all’«influenza» degli astri e credessero ambedue che congiunzioni astrali in questo o quel segno zodiacale fossero «inditio manifesto del futuro castigo della peste che Nostro Signore ci voleva mandare», è ben vero che contro suggestioni e superstizioni popolari essi si prodigarono a fondo, consapevoli che ogni loro sforzo doveva essere indirizzalo contro la trasmissione e la propagazione del «contagio». Però credevano ambedue nella realtà delle «untioni pestilente»: «tutta quella rovina fu dipesa dall’interesse maledetto del denaro», scrive il Tadino al riguardo degli «untori», attivi per lucro nel rinnovare e aumentare «la mortalità delle creature» onde favorire, nell’immane dissesto della città e della convivenza civile, le imprese di rapina e di sciacallaggio delle «robe».

Gli ufficiali sanitari, con in testa il Sellala e il Tadino, erano in prima linea sul fronte del contagio. Non erano i soli; né erano i soli a non fruire della fuga davanti alla peste. C’era anche l’arcivescovo, il cardinal Federigo, non solo padre-pastore del suo popolo, ma anche uomo di governo provvisto di una grande capacità di organizzazione. Nella Vita di Federigo Borromeo di Biagio Guenzati (che giace manoscritta presso la Biblioteca Ambrosiana di Milano) leggiamo: «Tanto egli fece, gareggiando sempre col Tribunale della Sanità nel procurare anche dalla sua parte ogni opportuno rimedio per arginar questa piena di morte, in cui naufragava la vita di tante migliaia di cittadini». Nonostante qualche screzio fra autorità civiche e poteri ecclesiastici, in generale Chiesa e Stato trovarono il modo di collaborare attivamente contro l’immane flagello.

Anche il Manzoni vedrà il cardinal Federigo ergersi a padre difensore del suo gregge, capace di mutare il castigo di Dio in divina provvidenza, impegnato ad allontanare l’epidemica spada di Damocle incombente epì démon, «sopra il popolo»: figura emblematica del buon padre, in grado di alleviare l’esistenza umana dalla paura della peste, sia del corpo che dell’anima, e di alleviare la coscienza di ogni uomo dalla paura della morte, massimo evento innominato. [Giorgio Cosmacini]

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