1987 – La parola e il silenzio

Francesco di Ciaccia, La parola e il silenzio. Peste carestia ed eros nel romanzo manzoniano, Pisa, Giardini, 1987, pp. 282.

La parola e il silenzio. Jpeg

In copertina: Francesco di Ciaccia [pseudonimo Francesco Laurana],
La parola e il silenzio,  disegno n. 51,
Collezione privata

 Presentazione

Il saggio manzoniano accosta I promessi sposi e la Storia della colonna infame da un punto di vista particolare: la dialettica narrativa e storica tra le forze costruttive – il positivo, in senso etico – e quelle distruttive – il negativo. I personaggi sono considerati sotto questa precisa angolatura, senza tuttavia che essi si dividano, come avveniva nel Manzoni delle opere precedenti, in “totalmente positivi” e “totalmente negativi”. Da qui, l’acribica lettura dell’Autore tra le pieghe dei comportamenti dei personaggi, con scrupolosa attenzione al testo manzoniano – con considerazioni anche variantistiche -, la quale si traduce in un’ampia rivisitazione degli scenari della peste e della carestia. L’indagine sull’«eros» permette di comprendere l’atteggiamento del Manzoni – e dei suoi personaggi – nei confronti dell’amore a partire dagli anni giovanili.

Recensioni e segnalazioni

Tesinth, Peste, carestia ed eros nel romanzo manzoniano, «Seregno Oggi. Periodico di politica, attualità e cultura», Seregno, Anno III, n.° 19, maggio 1987, pagina 8.

Il volume è distinto in quattro capitoli: sulla peste nei Promessi Sposi, sul processo agli untori nella Colonna Infame, sulla carestia e sull’amore.

Globalmente, la peste rappresenta, nei Promessi Sposi l’atteggiamento positivo, cioè di sollecitudine operativa ed affettiva nei confronti dell’uomo colpito dal dolore e dalla morte, in contrasto con lo spirito cinico che, nel romanzo, è individuato per essere superato dallo spirito di carità. L’Autore in effetti, analizzando la predica di Felice Casati rivolta ai convalescenti al Lazzaretto, deriva gli insegnamenti intrinsecamente implicati nell’azione e nella parola di questo personaggio storico, del quale egli sostiene la centralità nell’economia narrativa del Lazzaretto manzoniano. Contestando alcune posizioni critiche, l’Autore dimostra il disinteresse degli “inservienti” cappuccini al Lazzaretto, spiega il loro stile d’azione, conforta le indicazioni manzoniane, il tutto suffragando la propria disamina letteraria con documentazione dell’epoca concernente questi “inservienti” stessi.

L’epilogo critico coinvolge il “sogno di don Rodrigo” appestato: ultima sollecitazione alla “libertà” dall’egoismo, percepita dal signorotto stordito, ma non raccolta. La descrizione dello stato di coscienza di Rodrigo è ottenuta dall’Autore con sottili ed energiche radioscopie coscienziali, sempre fondate sulla lettera del testo manzoniano, ed infine l’indagine si slarga, attraverso la comparazione tra il Lazzaretto e la “vigna di Renzo”, su una rappresentazione “morale” della peste.

Della Colonna Infame l’autore sostiene il genere letterario pluridimensionato: il romanzo-saggio è indagine giudiziaria, è racconto morale, è parabola: esso è accostato dal Manzoni con la mentalità dello storico, con l’animo del riformatore morale, del biblico Giobbe. Con timore e tremore.

L’autore spiega perché il Manzoni sia “andato in crisi”, tanto da abbandonare la strada del romanzo – e non solo -, affrontando la storia dei processi agli untori.

La carestia offre all’autore lo spunto per vagliare alcune idee manzoniane di politica economica e, seguendo il testo del romanzo, afferma che, trascendente le effettive concezioni liberiste del lombardo, un’indicazione profetica, forse, si insinua in questa problematica: ed è lo spirito dell’“elemosina”, superamento radicale delle particolari e storiche configurazioni dei rapporti sociali, economici ed umani.

L’eros è studiato nel Manzoni uomo, è indagato nelle sue poesie giovanili ed è approfondito nel rapporto Lucia-Renzo. L’autore accenna al tipo di atteggiamento erotico del poeta, documentato nelle liriche giovanili e, in parte, confermato nel romanzo: dove l’amore è sviluppato come “sentimento”, in un’attesa “discreta”. Dell’amore nei Promessi Sposi l’autore rivela quali siano il senso, la finezza e le modulazioni narrative, operando acute analisi del testo, e conclude che, dell’amore, nel romanzo ce n’è quanto basti perché sia apprezzato nella sua sostanza: che è nell’interiorità innamorata. A scanso di facili equivoci.

Il lavoro dell’autore si impone per approfondimenti notevoli e per innovazioni interpretative. Tesinth

Roberto Marchi, Quattro capitoli sui ‘promessi’ per la Seregno “manzoniana”, «Corriere di Monza e Brianza», Seregno, martedì 30 giugno 1987, pagina 19.

Romano di nascita, ma seregnese d’adozione, Francesco Di Ciaccia ha recentemente pubblicato l’ultima sua fatica letteraria: «La parola e il silenzio» (Pisa, Giardini, pp. 282). Il libro è un saggio tra letteratura e storia, ha come argomento «peste, carestia ed eros nel romanzo manzoniano» e si qualifica sia per l’acume storico-critico che per la piacevolezza di lettura. Il volume è distinto in quattro capitoli: la peste ne «I Promessi sposi», il processo agli untori nella «Colonna Infame», la carestia e l’amore.

Secondo Di Ciaccia, la peste rappresenta, ne «I promessi sposi», l’atteggiamento positivo, cioè di sollecitudine operativa ed affettiva nei confronti dell’uomo colpito dal dolore e dalla morte, in contrasto con lo spirito cinico che, nel romanzo, è individuato per essere poi superato, e cancellato, dallo spirito di carità. In effetti, Di Ciaccia, analizzando la predica di Felice Casati rivolta ai convalescenti del Lazzaretto, sottolinea gli insegnamenti impliciti nell’azione e nella parola di questo personaggio, del quale sostiene la centralità nell’economia narrativa del «Lazzaretto manzoniano». Contestando alcune posizioni critiche e avvalendosi di documentazione dell’epoca, Di Ciaccia dimostra il disinteresse degli «inservienti» cappuccini al Lazzaretto. L’epilogo critico coinvolge il «sogno di don Rodrigo» appestato: ultima sollecitazione alla «libertà» dall’egoismo, percepita, ma non raccolta, dal signorotto stordito. Sulla base del testo manzoniano, l’autore descrive lo stato di coscienza di Rodrigo, per poi allargare l’indagine, attraverso il paragone tra il Lazzaretto e la «vigna di Renzo», ad una rappresentazione “morale” della peste.

Della «Colonna Infame», Di Ciaccia evidenzia il genere letterario a più piani: il romanzo-saggio è indagine giudiziaria, racconto morale, parabola. Nello scrivere la «Colonna Infame», il Manzoni aveva contemporaneamente la mentalità dello storico e l’animo del riformatore morale, ma soprattutto «timore e tremore». L’autore spiega perché il Manzoni sia «andato in crisi», tanto da abbandonare la strada del romanzo.

La carestia offre a Francesco Di Ciaccia lo spunto per vagliare alcune idee manzoniane sulla politica economica.

L’eros è studiato nel Manzoni uomo, è indagato nelle sue poesie giovanili ed è approfondito nel rapporto Lucia-Renzo. Di Ciaccia accenna al tipo di atteggiamento erotico del poeta, documentato nelle liriche giovanili e, in parte, confermato nel romanzo: dove l’amore è sviluppato come «sentimento», in un’attesa «discreta». Roberto Marchi

Redazionale, Eros & carestia in manzoni, «il Corriere», domenica 5 luglio 1987, pagina IV, segnalazione di Francesco di Ciaccia, La parola e il silenzio. Peste carestia ed eros nel romanzo manzoniano, Pisa, Giardini, pp. 282.

Il tema della peste, con tutti i suoi connotati metaforici, è certamente uno dei più affascinanti e moderni all’interno della complessa partitura narrativa dei «Promessi sposi». Appunto a «Peste, carestia ed eros nel romanzo manzoniano» (così suona il sottotitolo) è dedicato il volume «La parola e il silenzio» di Francesco Di Ciaccia (Giardini editori e stampatori in Pisa, pp. 884, s.i.p): vasta e amorosa ricognizione all’interno del capolavoro manzoniano, in una inesausta ricerca di nessi significativi.

Giuseppe Santarelli, «L’Italia francescana», n. 4-5, 1987, pagine 563-565.

Il prof. Francesco Di Ciaccia si sta affermando come uno dei più attenti e informati studiosi del Manzoni, in particolare nello specifico settore dei cappuccini e della peste ne I Promessi Sposi. Dopo i precedenti saggi apparsi su Studi e Ricerche Francescane, in L’Italia Francescana, in Frate Francesco, e dopo un nutrito contributo dal titolo Sollecitudine e delirio nella peste manzoniana, offerto anche come estratto della citata rivista Studi e Ricerche Francescane [14 (1985) 1-245], ha dato alle stampe ultimamente un volume che li raccoglie in sintesi: La parola e il silenzio. Peste carestia ed eros nel romanzo manzoniano, Giardini Editori e stampatori, Pisa 1987, pp. 282.

La nuova elaborazione, rispetto ai precedenti saggi sparsi, si presenta con notevoli modifiche, date per lo più da abbreviazioni e espunzioni, essendo stati relegati in nota molti brani disquisitivi. Ne deriva una lettura che privilegia la parte propositiva, in cui talune punte polemiche dei precedenti scritti si attenuano in un discorso più pacato, che non rinuncia però alla «negazione della contraddizione».

L’indagine precedente – Sollecitudine e delirio nella peste manzoniana – si snodava in due sezioni: la prima, considerata «positiva» e direttamente riferita alla peste nel romanzo, spiegava perché il Manzoni avesse potuto trattare un simile argomento, «il quale, estrapolato dalla storica sollecitudine, sarebbe alla base della crisi manzoniana sul romanzo storico» (p. 7); la seconda, attraverso le riflessioni sulla Colonna Infame, metteva allo scoperto il turbamento dello scrittore di fronte al delirio e affrontava il problema del silenzio manzoniano.

Sono le direttrici dell’indagine del Di Ciaccia, il quale sviscera il tema della «ragione e carità nella peste», appuntando l’attenzione sul P. Felice Casati e rivendicando al clero e ai religiosi del tempo una chiara testimonianza di sollecitudine pastorale e di servizio come «ministero».

In quest’ultimo saggio ovviamente non muta la prospettiva dell’indagine, che viene ulteriormente puntualizzata ed esplicitata. Qui viene contrapposta la «parola propositiva, che è fattiva e benefica», ed il «silenzio della inconcludenza». Si tratta della contraddizione tra la «presenza» della razionalità sottile quanto efficace, discreta quanto profonda, e «l’assenza» della razionalità e della premura (p. 11).

Scrive testualmente il critico: «‘Parola’ e ‘silenzio’ sono dunque archetipi metaforici, rispettivamente del ‘verbo’ che crea, dell’atto che comunica, e della ‘ombra’ che nasconde, della chiacchiera che insidia. Essi non sono fenomeni fonici. In questo senso possiamo dire che il Manzoni, ritraendosi dalle lettere a seguito della ‘follia’ legata alla peste, e cioè col proprio silenzio letterario, ha proseguito con la parola taciuta un silenzio disturbato, quasi per correità storica e morale, ma al contempo catartico, in quanto il patire riscatti il perdersi. L’antagonismo alla sessualità-sensualità è l’eros come ‘presenza’, la quale non schiamazza e non disturba. E qui è il Manzoni, cantore dell’amoroso affetto con la parola sommessa per pudicizia del mistero dolce. Il ‘silenzio’ nel segno della prevaricazione, quanto all’eros è nel sotteso, come un negato. L’essenza della preterizione manzoniana in amore è qui: nella ‘parola soave’. In questa ‘parola’ è contraddetto precisamente colui che, disturbando, relega l’amore nel ‘silenzio’ dello sfruttamento» (pp. 11-12).

Ci siamo permessi la lunga citazione perché essa chiarisce l’ambito e fa intravedere i risultati, in vero notevoli, dell’indagine.

Non è possibile qui seguire l’autore del saggio lungo tutto l’itinerario del suo denso discorso, ma piace sottolineare come efficacemente esamini e spesso rettifichi affermazioni gratuite sul clero, sui cappuccini e in genere sulla Chiesa del tempo, fatte da alcuni studiosi, come il Cordero, il Moravia ed altri.

La puntualizzazione avviene sempre su due piani: quello documentale e quello argomentativo, nel quale emerge una sicura conoscenza della teologia e delle sue branchie, quali la morale, l’ascetica, ecc. Questa solida base gli permette di procedere con sicurezza e di penetrare nel profondo universo manzoniano.

Lo studio si articola in quattro precisi argomenti: La peste nei «Promessi Sposi» (p. 13-100), La peste nella «Colonna Infame» (pp. 101-198), La Carestia (p. 199-225) e L’Eros nei «Promessi Sposi» (pp. 227-272).

Dato il carattere di questa rivista, qui accenniamo soprattutto al discorso relativo alla presenza dei cappuccini nell’opera manzoniana. Anzitutto il Di Ciaccia chiarisce bene che il «servizio» dei cappuccini durante la peste del 1630 va inteso come «ministero» non solo nella direzione di cura d’anime, ma anche, in primo luogo, come «servizio» materiale, nello spirito della carità fraterna e nel nome di Cristo.

L’autore analizza felicemente, in proposito, questa espressione del Manzoni, messa in bocca a P. Felice Casati: «Senza alcun nostro merito, siamo stati scelti all’alto privilegio di servir Cristo in voi» (I Promessi Sposi, cap. XXXI, 47-48). Occorre dire che l’analisi del Di Ciaccia è fondata sia sul piano filologico che su quello ermeneutico e corregge le interpretazioni di alcuni studiosi contemporanei che tutto leggono in una prospettiva di giuoco politico, pesantemente umana, facendosi sfuggire l’intimo messaggio, di conio superiore, insito nel testo delle fonti secentesche e nella fine narrazione manzoniana.

Altrettanto interessante è l’analisi del Di Ciaccia sul «ragionamento» di P. Felice Casati, ossia la sua predica agli scampati dalla peste nel lazzaretto. Egli vi vede un discorso sulla «giustizia che, in universale, invera teoricamente la ‘giustizia’ del perdono e la ‘giustizia’ della morte, fondandole» (p. 35).

La «benedizione» di lode del discorso del P. Felice è ben raccordata con le parole rivolte da P. Cristoforo a Renzo: «va preparato sia a ricevere una grazia, sia a fare un sacrificio; a lodare Dio, quale sia l’esito delle tue ricerche (cap. XXX, 53)». Sembrano l’eco della predica di P. Felice: Dio sia «benedetto nella morte, benedetto nella salute». L’autore prende di qui lo spunto per svolgere pertinenti osservazioni sull’«ottimismo» e sul «pessimismo» del Manzoni, con copiose citazioni bibliografiche.

Successivamente il Di Ciaccia, discorrendo sulla «benedizione» del servizio, chiarisce che «il sacrificio di P. Felice è ‘per gli altri’, e che anche la ‘lode’ è per gli altri». «E precisa che « il ‘gran ministero dei cappuccini agli appestati’ non si definisce solo dal materiale servizio di assistenza, ma dall’affettiva dedizione, si intende in senso morale e non puramente psicologico» (pp. 47-48).

Tutta la predica del P. Felice viene analizzata nelle singole espressioni, con penetrazione psicologica e buon supporto teologico, e con utili riferimenti alla dottrina e alla prassi cappuccina in materia.

L’excursus critico dell’autore sui «cappuccini e la peste» sa ben vagliare, distinguendo la paglia dal grano e sottolineando le convincenti interpretazioni del Momigliano, che definì quel servizio dei frati «un sapiente inno alla carità», del Ficara, che lo vede come contrapposizione delle «opere» rispetto alle «parole». Il Di Ciaccia qui ribadisce che le «parole», nel diletto e nel giuoco dell’opinare, costituiscono come il «delirio», mentre le «opere» danno vita alla «sollecitudine». I cappuccini impersonano l’operosità e quindi la «sollecitudine», mentre altri, specie i politici, perseguono il vacuo opinare e quindi il «delirio».

In questo contesto l’autore sottolinea e respinge l’ironia del Cordero, che guizza pungente anche nei riguardi del servizio dei cappuccini agli appestati. In particolare il Di Ciaccia scagiona giustamente il P. Felice dall’accusa di «despota» nel lazzaretto, notando che egli, alla luce delle fonti storiche, appare «dolce» e lascia a P. Michele Pozzobonelli – un «mastino », secondo il Cordero – il ruolo di «giusto e rigoroso», ruolo giustificato dai disordini, prevedibili e reali, nel lazzaretto.

Il discorso del Di Ciaccia si estende poi alla presenza dei cappuccini nell’altra opera manzoniana, La Colonna Infame, di cui interpreta con obiettività l’opera, le difficoltà e anche i limiti.

Lo studio si sviluppa poi nelle altre citate parti, sempre con lo stesso metodo e con gli stessi risultati, veramente apprezzabili. Giuseppe Santarelli

  1. Mario Masini, O.S.M., Servizio e sfruttamento secondo il recente saggio di Francesco di Ciaccia, «Palestra del clero», 1-15 Agosto 1987, Anno 66 – N. 15-16, pagine 977-980.

La peste è stata oggetto dell’ispirazione manzoniana in due momenti poetici distinti e complementari, ciascuno obbedendo ad una visione teorica, specularmente richiamata dalla prospettiva particolare. Nei Promessi sposi il male manifesta, sì, la condizione del mondo materiato di patimenti, ma si lascia recuperare a quel livello di ulteriorità reale che è costituito dal miglioramento etico della società – almeno come indicazione «profetica» – e dallo sviluppo coscienziale, almeno come possibilità, in termini di rifondazione del senso della vita intesa come «servizio». Ma poiché il male è profeticamente e realmente superato dal fatto storico dialetticamente contradditorio, per questo il Manzoni ha offerto la prova, dove sia stato sorretto dalla documentazione, della sollecitudine che toglie la perdizione (la quale è, alla fin fine, «di-speranza» nel patire e nel trattare l’uomo). Il critico, con approccio diretto sul «solenne ragionamento» di Felice Casati, approfondisce le idealità evangeliche e francescane del «Servizio», inquadrando storicamente l’operosità assistenziale (che ben si occupa, cappuccinescamente, pur della salute del corpo: e senza trucchi «religiosi») e affrontando affilatamente posizioni critiche opposte. La polemica del di Ciaccia, benché sottile, non mira tuttavia agli aspetti secondari, ma alla sostanza delle cose, in una ricerca della verità, documentata e sofferta, senza percorrere la facile via ideologica o encomiastica.

In due interessanti paragrafi egli dimostra, con ermeneutica psicologica, come il «sogno» di Rodrigo, anch’egli bubbonato come tanti altri mortali, sia stato architettato dal romanziere (con varianti tra le stesure) in maniera da insinuare il sognato (Cristoforo) come immagine salvante, non già condannante: il giudizio passa infatti, nel romanzo, solo e sempre attraverso il reticolo spinato dell’autocoscienza; esso pesa come una «scure» sul capo, ma per nulla levata alla maniera del Battista. Ed è il cappuccino a disvelare la misericordia del giudizio. Il critico, poi, allarga la rappresentazione delle due «morali», quella della confusione e quella della ricomposizione, attraverso la lettura della «vigna» di Renzo.

Nella Colonna infame la storia, non suffragando la pietà, fa toccare la disperazione: la logica della «ragione di Stato» rende «vendicativo» il diritto, facendo dell’uomo un lupo per l’uomo; l’immaginifico collettivo si scarica apotropaicamente sui meschini, mentre la necessità di «salvare la faccia» si avvale della legge, affossando la giustizia: si colpisce chi è facile bersaglio. Ma il coperchio non è chiuso ermeticamente, gli altarini si scoprono nelle contraddizioni del processo penale, nei lapsus delle formulazioni del Senato, viene a galla il marchingegno del tornaconto politico, si smaschera il gioco che non regge. Intorno a tale idea manzoniana il critico opera un paziente, certosino escavo, per nulla formale, con strumenti d’una chiarissima logica onestà, dimostrando la scorrettezza di interpretazioni forfettarie.

Naturalmente, si deve discutere – come appunto fa di Ciaccia – sulla congruità, o meno, della disamina privilegiata dal Manzoni nel suo lavoro sulla «Colonna infame». La conclusione è che Manzoni ha inteso «emblematizzare», prendendo spunto da un’indagine giudiziaria, un modo di concepire il rapporto con la propria immagine e di vivere le relazioni interpersonali. Ne consegue la polisignificanza e polivalenza della Colonna Infame: con tutti i pericoli ma anche con tutta la forza «utopica». Condannata è, alla fin dei conti, la mentalità del tornaconto, sempre, ovunque e per qualunque motivo si compia. Ciò permette un’ulteriore definizione della Colonna infame, come «metafora biblica».

Quel che manca nella storia «infame» è la testimonianza pubblica, elicita, dilagante della ecclesia, l’agàpe fraterna, riconosciuta in mezzo al popolo dei dolori, per cui la speranza – avverte il critico – è soggettiva, è nello scrittore, a differenza di quanto accadeva nel romanzo «d’invenzione» – invenzione fondata sul documento -: dalla scodella allungata al «povero» Renzo alla stretta dei bimbi appestati, tenuti in braccio dal canuto uomo in cappuccio; dall’organizzazione, severa e benigna, dei frati al Lazzaretto al perdono di Renzo, ministerialmente accolto dall’emaciato cappuccino sconfitto (Cristoforo), che dà vita morendo; dalla sollecitudine di Federigo, che trae gloria manzoniana in un angolo diverso da quello nel quale il mondo dà gloria, alla contrizione, pur breve, del malcollocato curato. Insomma, l’«invenzione» permetteva al romanzo la traduzione fantastica di concezioni e di realizzazioni fattive di bene, scorrenti da sempre nel deserto affocato ed affranto del male: tra questi trapunti testuali il critico fissa contrapposizioni, enuclea concetti, stabilisce spartiacque rigorosi.

In particolare intorno al processo agli untori, egli si inoltra in una scepsi scrupolosa che insegue l’intendimento morale del Manzoni ed assiepa la roccaforte del «silenzio». Più che nella morte, capace di sopravvincere nel ricordo amoroso e nella risurrezione di Cristo, il silenzio è quello che nasce, cinico, dall’orgoglio, e nelle ingiurie sociali, nel legalismo «pro domo sua» si sedimenta, innalzando sepolcri imbiancati. Se era agevole incriminare, come «untori», della plebaglia spudorata, non erano però sufficienti (sostiene Manzoni, e il critico articolatamente ci spiega) né tal precedente né la credenza generale della «peste manufacta» per convincere di un reato chi d’altri misfatti, e non di quello, era colpevole. Di Ciaccia spietatamente, ma piacevolmente per l’andamento narrativo, che si lascia leggere d’un fiato, dimostra che due pesi e due misure – per dirla con il Manzoni – furono usati nel processo penale.

Il critico ripropone e rilancia la ben nota tesi sul «silenzio letterario» di quel Manzoni che, crogiolato sulla meditazione «pestifera», abbandona il genere del romanzo ed evita anche la storiografia (a parte qualche eccezione). Egli avverte, però, che, pur dopo aver affrontato in prima stesura (Appendice della Colonna infame) la storia degli untori, il Manzoni riprende la «peste» nel romanzo. Ciò convince che non prima della seconda stesura della storia sul processo giudiziario (Storia della Colonna infame) il Manzoni «andò in crisi». Se dunque una definitiva soluzione per il «silenzio» è nella Colonna infame, la scelta non si colloca se non dopo che, ripresa la storia della peste nella seconda stesura dei Promessi Sposi, a livello di storia «salvata» nel positivo della carità, Manzoni ha ristudiato definitivamente la medesima storia a livello di «dannazione».

La «parola» predicata e operante si riconferma a proposito della carestia, intorno a cui il critico esamina, sempre sulla base del testo, con le Osservazioni sulla morale cattolica incluse, il concetto di elemosina: strumento di concreta soluzione nelle fattuali circostanze di indigenza e al contempo «segno profetico» di una visione fraterna della società. Di contro stanno il «silenzio» sospiroso dei politici, l’altalena impazzita delle norme e contronorme sgangherate.

Circa l’eros, il critico parte dal contesto biografico-psicologico del Manzoni, analizza le poesie amorose giovanili e, dopo aver lucidamente configurato il tipo fenomenologico dell’amore nel Manzoni giovane, ne scandaglia il senso nel romanzo. L’amore dei «promessi» si muove tra il realismo degli affetti delicati, con la discrezione che si addice all’ineffabile, e il «simbolismo» della comunione spirituale. La coppia è proiettata sul prototipo biblico della sponsalità: «con-vivere» la santificazione.

L’impostazione manzoniana, in campo erotico, è quella di incarnare le idealità emotive nella filigrana del racconto: qui, il silenzio è del narratore; un silenzio, questa volta, profondo e attivo, che «custodisce» nel segreto la parola e la dice a coloro che comprendono la dedizione e 1a totalità d’amore. Affinché coloro che non sanno, non intendano e i sordi non odano: non è, dunque, solo questione di risparmiare al lettore dimostrazioni erotiche ben «naturali» e largamente, quotidianamente, comunemente praticate e note. Per contro, l’egoismo si materia, ancor nell’universo del sesso, nella «chiacchiera» falsa, nel discorso astuto, nell’allusione ingannatrice, nella cosificazione della persona umana, nel rapporto intersoggettivo come puro «processo» individuale, come radicale autoriferimento, in cui anche il dono di sé (la «protezione» offerta da Rodrigo!) è per sé e non per l’altro. Splendidi squarci si aprono, nel saggio, sull’animo innamorato di Lucia: immagini d’un amore che inonda anche il subconscio.

Il volume si condensa in un susseguirsi logico di analisi e di pensiero ricco e nuovo che non concede nulla allo scontato e alla genericità delle osservazioni trite e viete; si appassiona dietro al vero, sia esso storico-documentaristico che psicologico, sia esso letterario che esegetico; si snoda in una prosa forte, scavata, narrativa a volte, a volte sentenziosa, in alcuni punti ironica, altrove «filologica». Non mancano brani dalla difficile lettura: in cui il soffermarsi insegna la metodica della ricerca. P. Mario Masini, O.S.M.

Domenico Tuccillo, «Esperienze letterarie», Anno XII, N. III, 1987, pagina 138.

Il presente volume risulta articolato in quattro sezioni: La peste nei «Promessi Sposi», La peste nella «Colonna Infame», La carestia, L’eros nei «Promessi Sposi». «Introduce il presente lavoro uno sguardo panoramico su quella parte degli operatori nell’assistenza che il Manzoni indica più attenti e fedeli nella cura degli appestati». Così l’autore, ed infatti il primo capitolo del libro consta in buona parte di un’indagine sulla chiesa milanese ed in particolare su quello che fu l’atteggiamento dei cappuccini, il loro adoperarsi, in rapporto proprio all’episodio della pestilenza. È dalla sollecitudine ‘corporale’ e dall’operosità da essi manifestata in tali circostanze, sostiene l’autore, che nasce nello scrittore la fiducia e la forza per volgere quel delirio in parola, in particolare nella parola di padre Felice, nella sua predica che viene a configurarsi come la «forma antagonistica» del delirio della peste, non a caso costruita «secondo una struttura la cui atipia è in Francesco d’Assisi e, poi, nella riforma cappuccina». Diversamente avverrà per La Colonna Infame. In questo caso, si fa rilevare, saremo di fronte ad «un brano di storia in cui Dio non è qui, negando l’affermazione di Lucia, o, meglio, è qui, ma per colui che crede, non per gli operatori, non nei fatti storici». E, difatti, decisamente diverso sarà, in questo caso, il modo di porsi rispetto all’evento da parte della Chiesa e dei cappuccini, la cui azione si risolverà in un «buon volere, che operativamente resti inefficace». Da qui, poi, da una storia in cui la salvezza è diventata un problema individuale, di cui la Chiesa come società stessa risulta assente, deriva il silenzio del Manzoni. Un silenzio che «implica una richiesta non un rifiuto, da parte dell’autore, della funzione evangelizzatrice», e che, prima di farsi tale, nella riconsiderazione e nel ribaltamento finale della prospettiva ermeneutica da parte del critico, dà vita alla rappresentazione positiva della Chiesa e dei cappuccini nei Promessi Sposi: «come ultima parola, su questo argomento, della stessa Colonna Infame». Particolare attenzione dedica infine l’autore al problema della presenza dell’eros nei Promessi Sposi. In questo caso, attraverso un’analisi più dettagliata sul testo, egli mostra le forme e i modi precipui del manifestarsi dell’impulso erotico nel romanzo manzoniano, negando il quale qualcuno ha cercato, per la verità assai goffamente, di negare anche la validità e la vitalità dell’opera. «In sintesi» dice bene l’autore «ci sembra che il pudore manzoniano, se rivisitato nella sua specifica ed individuale luce e non già giudicato con i criteri validi per altri autori, di genere erotico, svela una sua intimità umanamente sensibile e profondamente delicata nel campo dell’amore». (Domenico Tuccillo)

Redazionale, «Rosetum», anno XXXI, 8-10, agosto-ottobre (1987), pagina 23.

Il volume tratta della peste nei Promessi Sposi e nella Storia della Colonna Infame, della carestia e i Cappuccini, e dell’amore nelle poesie giovanili del Manzoni e nel romanzo. Ribaltando parecchie idee comuni, l’autore mostra la centralità della predica del padre Felice Casati al Lazzaretto e quindi spiega in profondità, ricavandoli dal testo, il messaggio cristiano e le caratteristiche francescane nel modo di porsi di fronte al dolore umano e alla morte, sottolineando lo spirito di sacrificio, di umiltà, di pazienza e di umana tenerezza dei Cappuccini. Sempre con riferimento alla tradizione di pace dell’Ordine e alla sua legislazione sulla povertà, in un altro capitolo l’autore scava dentro il significato dell’«elemosina», forse superamento, secondo la mente del Manzoni, della logica economica del «dare per avere», se per elemosina si deve intendere, sostanzialmente, rinunciare a sé per amare gli altri, come insegna padre Cristoforo. Infine, il capitolo sull’eros conduce alla convinzione – radicata nel Manzoni fin da giovane – che l’amore è fondamentalmente nell’animo; e svela come di questo ce ne sia, nel romanzo, tanto quanto basta perché venga ritenuto apprezzabile, senza che diventi provocante. Mediatore sacerdotale è il padre Cristoforo, che ha capito amorosamente la vocazione dei promessi sposi, così come il cardinal Borromeo autorevolmente l’ha difesa.

Redazionale, «Cammino nuovo», 8, Ottobre 1987, pagina 48.

II volume tratta della peste nei Promessi Sposi e nella Storia della Colonna Infame, della carestia e i Cappuccini, e dell’amore nelle poesie giovanili del Manzoni e nel romanzo. Ribaltando parecchie idee comuni, l’autore mostra la centralità della predica del padre Felice Casati al Lazzaretto e quindi spiega in profondità, ricavandolo dal testo, il messaggio cristiano e le caratteristiche francescane nel modo di porsi di fronte al dolore umano e alla morte, sottolineando lo spirito di sacrificio, di umiltà, di pazienza e di umana tenerezza dei Cappuccini. Sempre con riferimento alla tradizione di pace dell’Ordine e alla sua legislazione sulla povertà, in un altro capitolo l’autore scava dentro il significato dell’“elemosina”, forse superamento, secondo la mente del Manzoni, della logica economica del “dare per avere”: se per elemosina si deve intendere, sostanzialmente, rinunciare a sé per amare gli altri: come insegna padre Cristoforo. Infine, il capitolo sull’eros conduce alla convinzione – radicata nel Manzoni fin da giovane – che l’amore è fondamentalmente nell’animo; e svela come esso ce ne sia, nel romanzo, tanto quanto basta perché venga ritenuto apprezzabile, senza che diventi provocante. Mediatore sacerdotale è il padre Cristoforo, che ha capito amorosamente la vocazione dei promessi sposi, come il cardinal Borromeo autorevolmente l’ha difesa.

Redazionale, «Libri e Riviste d’Italia», Roma, 451-454, settembre-dicembre 1987, pagine 354-355.

Il volume è distinto in quattro capitoli: sulla peste nei Promessi Sposi, sul processo agli untori nella Colonna Infame, sulla carestia e sull’amore. Globalmente, la peste rappresenta, nei Promessi Sposi, l’atteggiamento positivo, cioè di sollecitudine operativa ed affettiva nei confronti dell’uomo colpito dal dolore e dalla morte, in contrasto con lo spirito cinico che, nel romanzo, è individuato per essere superato dallo spirito di carità. L’Autore in effetti, analizzando la predica di Felice Casati rivolta ai convalescenti al Lazzaretto, deriva gli insegnamenti implicati nell’azione e nella parola di questo personaggio storico, del quale egli sostiene la centralità nell’economia narrativa del Lazzaretto manzoniano. Contestando alcune posizioni critiche, di Ciaccia dimostra il disinteresse degli «inservienti» cappuccini al Lazzaretto, spiega il loro stile d’azione, conforta le indicazioni manzoniane, il tutto suffragando la propria disamina letteraria con documentazione dell’epoca concernente questi «inservienti» stessi. L’epilogo critico coinvolge il «sogno di don Rodrigo» appestato: ultima sollecitazione alla «libertà» dall’egoismo, percepita dal signorotto stordito, ma non raccolta. La descrizione dello stato di coscienza di Rodrigo è ottenuta dall’Autore con sottili ed energiche radioscopie coscienziali, sempre fondate sulla lettera del testo manzoniano, ed infine l’indagine si slarga attraverso la comparazione tra il Lazzaretto e la «vigna di Renzo», su una rappresentazione «morale» della peste. Della Colonna Infame l’Autore sostiene il genere letterario pluridimensionato: il romanzo-saggio è indagine giudiziaria, è racconto morale, è parabola: esso è accostato dal Manzoni con la mentalità dello storico, con l’animo del riformatore morale, del biblico Giobbe. Con timore e tremore. Di Ciaccia spiega perché il Manzoni sia «andato in crisi», tanto da abbandonare la strada del romanzo – e non solo -, affrontando la storia dei processi agli untori. La carestia offre inoltre a di Ciaccia lo spunto per vagliare alcune idee manzoniane di politica economica. Seguendo il testo del romanzo, egli afferma che, trascendente le effettive concezioni liberiste del Lombardo, un’indicazione profetica, forse, si insinua in questa problematica: ed è lo spirito dell’«elemosina», superamento radicale delle particolari e storiche configurazioni dei rapporti sociali, economici ed umani. L’eros è studiato nel Manzoni uomo, è indagato nelle sue poesie giovanili ed è approfondito nel rapporto Lucia-Renzo. Si accenna al tipo di atteggiamento erotico del poeta, documentato nelle liriche giovanili e, in parte, confermato nel romanzo: dove l’amore è sviluppato come «sentimento», in un’attesa «discreta». Dell’amore nei Promessi Sposi l’Autore rivela quali siano il senso, la finezza e le modulazioni narrative, operando acute analisi del testo, e conclude che, dell’amore, nel romanzo ce n’è quanto basta perché sia apprezzato nella sua sostanza: che è nell’interiorità innamorata.

Res [Rosario Esposito], «Vita pastorale», 2 (1988) pagina 133.

La bibliografia manzoniana si arricchisce con un apporto la cui caratteristica fondamentale ci sembra l’interdisciplinarietà. L’A., ferratissimo nelle questioni concernenti l’opera manzoniana, realizza una sua lettura onnicomprensiva: l’aspetto letterario è indubbiamente la piattaforma sostanziale, e si può dire che tutta la critica degli ultimi cinquant’anni sia da lui passata al vaglio, con notazioni di consenso o di dissenso (si pensi alle pagine polemiche nei confronti di Moravia, Cordero, Musatti e altri) che sono motivate non solo dalla rilettura del testo, bensì da tutta la massa di informazioni e di ricerca che le sta dietro. A noi però interessa soprattutto la dimensione pastorale di un lavoro che è severamente fondato sull’analisi globale delle situazioni, alcune delle quali vengono sottoposte a un esame minuzioso, che tuttavia mai dà l’impressione della pedanteria: si pensi alle espressioni di Renzo e Lucia, alla figura di fra Galdino, ai portinai di don Rodrigo, Pescarenico, Monza, per non parlare dei personaggi di primo piano. Anche in questo caso il Di Ciaccia non percorre i sentieri usuali, ma collega i contenuti storici, sempre attentamente studiati dal Manzoni ma non espressi ripetitivamente, bensì inserendoli in un progetto-messaggio che trasfigura la storia e la indirizza alla costruzione d’un mondo non solo “diverso” da quello che ha provocato tante sofferenze, ma “migliore”. L’interpretazione interdisciplinare della peste in questo senso ha un significato straordinariamente spesso e vibrante. Le due opere meritano amplissima attenzione e offrono una lettura erudita e brillante (Res).

Fernando Saisano, “Le parole e il silenzio”. Interpretazioni manzoniane, «L’Osservatore Romano», 5 febbraio, 1988, pagina 3.

È destino dei grandi – voglio dire grandissimi – scrittori mantenere un rapporto di dare e avere con le stagioni della cultura e della civiltà. Dante e Manzoni, per esempio, offrono alle generazioni umana un’altissima lezione, fatta di giudizi e illuminazioni, che sostanzia e in certo senso travalica la ragione poetica: è come una perenne sorgente – se mi è consentita la metafora lirica – che dall’alto d’una eccelsa dignità umana discende alle pianure esistenziali del lettore di buona volontà. Con moto opposto, ma non certo corrispettivo (poiché la spiritualità dei grandissimi gravita nell’eterno, come la critica che li investe gravita nel tempo) la successione delle generazioni risponde con l’entusiasmo, l’indifferenza, lo ostracismo, ed esprime giudizi critici ora protesi ad una sintonia storicistica, ora condizionati da allotrie spinte temporali.

Ma, per restare ai due grandi nominati, se il dantismo secolare ha oscillato sul piano della popolarità e dell’entusiasmo, e ha espresso variazioni esegetiche e testuali piuttosto che di giudizi di valore; per il Manzoni – sarà lo scarto tra la poesia del divino e la poesia dell’umano (ma la distinzione non è poi così semplice) -, a un secolo dalla sua morte, il bilancio è ancora problematico, nel senso che al fermo, definitivo riconoscimento della sua grandezza, in prospettive etiche ed estetiche, si contrappongono remore e riserve, senza dire che certi entusiasmi hanno sortito effetti negativi (per esempio, il manzonismo, il romanzo messo in mano a scolari imberbi senza la mediazione di docenti consapevoli etc.). E forse è anche da rilevare il tatto che il cristianesimo di Dante si è incontrato per secoli con una religiosità più pacifica e comunque sintonica; mentre il cristianesimo del Manzoni, già nativamente problematico, ha dovuto immediatamente confrontarsi con una modernità avversa, ora nella prospettiva sociale dell’anticlericalismo, ora in quella estatica dell’idealismo, ora in quella politica del marxismo. Insomma rimane aperta una statistica – chi è bravo la testi – di Manzoni sì e Manzoni no, e in ognuno dei corni disgiuntivi sono da conteggiare squilibri a disturbi vari.

Su siffatto versante problematico degli studi manzoniani si colloca il volume di Francesco di Ciaccia, La parola e il silenzio. Peste carestia ed eros nel romanzo manzoniano (Pisa, Giardini Editori, 1987).

Il di Ciaccia ripubblica in volume saggi manzoniani pubblicati tra il 1885 e il 1988, in periodici francescani: «La peste nei “Promessi Sposi”», «La peste nella “Colonna infame”», «La carestia», «L’eros nei “Promessi Sposi”». I capitoli sulla peste sono notevolmente modificati rispetto alla prima edizione, a vantaggio della parte prepositiva e col sacrificio o la collocazione in nota dei brani disquisitivi; processo che si giustifica in considerazione dell’impianto decisamente polemico degli studi manzoniani del di Ciaccia, e che si precisa nell’intento di presentare, nel volume, un testo di più agile lettura, non nella rinuncia a «contraddire e a precisare», ovvero al registro polemico.

La resistenza di tale registro non è ascrivibile a discutibile pervicacia, sibbene ad una consapevole fedeltà a principi della logica, «secondo cui una posizione di pensiero non è superata se non per la posizione provata del suo contraddittorio, e la dimostrazione ha validità nella prova di falsità del proprio contraddittorio. In questa conformazione mentale, non basta quel proporre, quel dirsi che, in letteratura ed in poesia, è sufficiente e necessario. Il pensiero critico si garantisce con la negazione della contraddizione…» (p. 9). Fatto l’occhio al doppio rigo testo-note, il libro si legge con interesse e, rispetto al Manzoni, con soddisfazione. Perché bisogna ricordare che la letteratura critica relativa a un autore di così alta statura ha avuto ai nostri di manifestazioni, diciamo, disfattiste, a fronte delle quali la stagione crociana diventa una primavera, grazie anche alla nota resipiscenza, in extremis, del Croce sui valori poetici. Romanzieri e giornalisti di successo, critici politicamente impegnati e improvvisatori vari hanno offerto, all’insegna della dissacrazione, della prosopopea e dell’originalità a oltranza, interpretazioni e giudizi tanto rumorosi quanto fallaci: sicché le messe a punto del di Ciaccia, relative a proposizioni di Moravia, Arbasino, Cordero, Astaldi, Zepponi, ecc., sono le benvenute, e non per fanatismo di logica o di manzonismo, ma per rispetto della verità e dell’arte.

I due capitoli sulla peste – Promessi Sposi e Colonna infame – si legano in saggio unico per evidenti, organiche connessioni; tuttavia il primo è caratterizzato dalla presenza dei Padri Cappuccini – etica e tradizione di carità -; il secondo offre più forti conclusioni critiche, il cui nucleo fondamentale è nel concetto che la peste «è l’idea centrale della “favola”» che «assomma, conchiude, esplica e spiega (“didatticamene” attraverso il cappuccino Felice, “favolosamente” parlando) il complesso e gli elementi singoli della problematica morale del romanzo» e insomma «l’entelechia etico-religiosa della “peste” manzoniana è nei Promessi Sposi; ma lo spessore storico-scientifico è nella Colonna infame, senza del quale non si può neppure accedere alla suddetta tensione teleologia» (p. 185).

Altrettanto interessanti le pagine sulla carestia, orientate al rapporto tra la calamità economico-sociale e l’etica dei religiosi. Lo stesso dicasi per quelle sull’eros, che, passando per i comportamenti del giovane Manzoni e l’amore delle poesie giovanili, pervengono all’esame di «spunti d’amore nel romanzo» in una prospettiva critica che mi pare significata nel primo paragrafo del saggio: «il pudore manzoniano, se rivisitato nella sua specifica e individuale luce e non già giudicato con i criteri validi per altri autori, di genere erotico, svela una sua intimità umanamente sensibile e profondamente delicata nel campo dell’amore» (p. 234). [Fernando Saisano]

Mariella Malaspina, La parola e il silenzio, in «Letture», febbraio 1988, anno 43° / quaderno 444, pagine 182-183.

Il volume si articola in quattro capitoli: «la peste nei Promessi Sposi», «La peste nella Colonna infame», «La carestia», «L’eros nei Promessi Sposi». Nel primo capitolo l’autore mostra il ruolo fondamentale del lazzaretto come luogo emblematico di due concezioni antitetiche, che nel romanzo si contrappongono entro il tessuto della narrazione: il tornaconto personale come fine della vita, anche mediante la distruzione degli altri, mediante la rapina dei beni e lo sfruttamento delle doti altrui; di contro, la vita intesa come servizio, magari anche mediante la propria morte. L’analisi è assegnata al «solenne ragionamento» di padre Felice Casati ai convalescenti: il critico lo scandaglia con spirito teologico, pur sempre attentissimo al testo e, tra qualche puntigliosa contestazione interpretativa, grado per grado precisa i livelli della disponibilità cristiana. Il conflitto tra la prepotenza presuntuosa e la libertà dall’egoismo è visto sottilmente nel sogno di don Rodrigo appestato: con strumenti concettuali psicologici, il critico conclude che, diversamente dalla prirna stesura del romanzo, in quella definitiva la figura onirica di padre Cristoforo costituisce un’immagine di salvezza offerta, non più di condanna pronunciata.

La medesima contrapposizione tra l’amor di Dio e l’amore di sé si snoda narrativamente, afferma il di Ciaccia, nel caso della carestia: occasione di sospiri per i politici, momento di generosità suppletiva da parte dei frati. Nell’elemosina cappuccina il romanziere vedrebbe non certo la soluzione politica dell’economia – che nel Manzoni restò liberista e borghese – ma il segno profetico di un atteggiamento che, posto alla base della via che l’umanità percorre faticosamente, dovrebbe saper risolvere evangelicamente i problemi reali. Insomma, è sempre questione di scelta: parlare, tanto per parlare e per ingannare, e parlare per creare, servire l’uomo, elevare l’umanità.

Nella Storia della colonna infame il Manzoni avrebbe toccato la faccia buia della vita pubblica, quando la norma giuridica diventa alleata di interessi politici. Di Ciaccia, all’intemo di un discorso sul genere letterario polivalente del romanzo-saggio manzoniano, si schiera dalla parte della tesi – che è della Colonna infame – secondo cui la condanna penale degli untori fu pilotata dal bisogno del potere politico di scaricare la colpa su qualcuno; ed era poi facile che fosse qualche pregiudicato per altri reati. Si sa che oggi, più che mai, l’obiettività storiografica del Manzoni circa il processo agli untori è oggetto di dispute tra gli studiosi: ma vale sempre la precisazione che egli impegnò tutto se stesso, con forte senso morale, per sollecitare tanto la correttezza processuale quanto l’onestà di intenzioni, che devono essere obiettivamente giuste.

Si può definire rifondativo il saggio sull’amore. Esso ripropone interpretazioni già note nel panorama critico. D’altra parte, il di Ciaccia disegna una trama ampia, puntando l’attenzione innanzitutto sui precedenti biografici. Senza scivolare nel biografismo, studia l’eros del Manzoni giovane nelle sue prime prove poetiche e nei suoi risvolti psicologici, che svelano una contiguità tra i vari momenti della sua vita. Le acute analisi dell’autore mostrano in questo campo una delicatezza che sta ad eguale distanza tra lo studioso di teologia morale, il critico severo e il poeta dell’interiorità. In primo luogo, tuttavia, il volume si qualifica per l’imponente mole di bibliografia consultata e valutata. Mariella Malaspina

Luciano Bottoni, in «Lettere italiane», Anno XL – N. 3, luglio-settembre 1988, pagine 450-457, recensione congiuntamente di Francesco di Ciaccia, La parola e il silenzio. Peste carestia ed eros nel romanzo manzoniano, Pisa, Giardini, e di Umiltà e francescanità nei «Promessi Sposi», Pisa, Giardini, 1987.

I due volumi raccolgono una serie di saggi pubblicati dal 1983 al 1986 in «L’Italia francescana» e in «Studi e ricerche francescane». Nessun dubbio quindi sulla matrice ideologica dell’autore che in tutta franchezza rivendica alla propria vis polemica il diritto di «contradditorio» e il dovere di non scendere ad alcuna compromissione. Già con il capitolo iniziale (Gli umili come «significante») le puntigliose analisi polemiche del [di] Ciaccia hanno buon gioco nel dimostrare quanto poco si convengano le sommarie qualifiche di «borghese» o «populista» ad un romanzo dove l’autentica giustizia non può essere quella retributiva operante attraverso «provvidenziali punizioni». Questa, se mai, è la giustizia vista dalla prospettiva «carnale» di don Abbondio. Nel romanzo la giustizia appartiene agli umili – allo stesso cardinal Borromeo che si umilia davanti al suo sacerdote renitente – ed opera per mezzo della conversione come carità, come umiltà del servizio fraterno. In rapporto all’instaurazione della giustizia, nell’universo romanzesco, si salva soltanto – rileva il [di] Ciaccia – chi sa patire la sua negazione «contrapponendovi il diritto e il fatto della giustizia stessa» (p. 16-18). Così Lucia rimanda sempre a questa verità, ne è un «significante» nella misura in cui la sua vicenda riesce a porre la fiducia e la speranza in Dio al di sopra di ogni accadimento. La significanza del personaggio è data appunto dal suo resistere e combattere per l’innocenza, dal suo saper perdonate e rassegnarsi. Proprio come insegnava il Russo – è sempre lei che resiste in tutto il romanzo sino agli affettuosi dissensi con il Renzo dell’ultimo capitolo. Così la significanza di Renzo, dal punto di vista assoluto della giustizia-carità, è incrementata dall’intreccio che riconduce una seconda volta a Milano il personaggio in cerca di Lucia. Prima di ritrovare la sua giovane compagna Renzo deve restituire, a chi patisce una maggiore necessità, «i due pani» che gli ricordano quelli trovati «vicino alla croce», nell’altra sua entrata a Milano» (cap. XXXIV, 19-20).

Sul piano ideologico – ossia nella coscienza del narratore – il gesto quasi rituale di Renzo assume il valore specifico di un’opera di misericordia valida in assoluto: come qualcuno ha sagacemente osservato, potrebbe anche sembrare che il personaggio sia chiamato un’altra volta nell’inferno della città più per compiere quest’opera che per ritrovare Lucia (pp. 58-59).

Dedicando il secondo capitolo ai personaggi «minori» francescani, il [di] Ciaccia ridisegna con sottile competenza le immagini di una sfaccettata coscienzialità religiosa che si individualizza e vive nei diversi rappresentanti dell’Ordine dei Cappuccini. A livello pre-letterario l’insufficienza pastorale di padre Cristoforo – cui si lega il «mistero» della sua grandezza – può essere riequilibrata dall’esperienza invisibile d’un fra Galdino: nella situazione critica di Agnese e Lucia la sua favola miracolistica di fatto rivelerebbe – argomenta il critico – «un nascondimento del Verbo, che si è fatto idiota per affetto» (p. 93). D’altronde, a proposito della bonaria indifferenza con cui il frate cercatore informa Agnese della «obbedienza» (cap. XVIII), già il Donadoni sospettava che fra Galdino conoscesse lo spirito «imprudentemente democratico» del padre Cristoforo ben più di quanto non dicessero le sue parole.

Anche l’allontanamento di un frate da parte del suo superiore potrebbe di per sé rientrare nelle transazioni d’una «diplomazia senza peccato» giacché, per il Provinciale alle prese con il conte Zio, «il peccato senza diplomazia» consiste nel conculcamento della carità, nel venir meno alla propria coscienza morale. La «bagatella» dietro cui si cela la transazione è l’abbandono d’un suddito innocente, sacrificato per egoistica premura di non trovarsi in pasticci giuridici con il potere civile, in pasticci diplomatici con il potere ecclesiastico. Se il realismo manzoniano rappresenta le lacune dell’Ordine in alcune contraddizioni della sua vita istituzionale, questo non esclude – nella prospettiva «teologica» del critico – che l’intentio habitualis dei suoi rappresentanti non consenta loro di far vivere intimamente il senso profondo delle azioni compiute. È il caso della «umiltà disinvolta» con cui il padre guardiano si presenta al fratello del gentiluomo ucciso da Lodovico: «non è affettazione per far credere quello che non era vero – scrive acutamente il [di] Ciaccia -, né per far credere di credere quello cui non credeva… è anche disinvoltura di una certezza, di un’«umiltà» che sa di non fare il gioco di colui che la esprime, ma di servire colui a cui essa è espressa. Pur dannosa, sempre, al convento, un’umiliazione della famiglia era uno scorno per la famiglia stessa».

Mentre il terzo capitolo torna agli episodi che vedono in scena fra Galdino e ravvisa nella «semplicità» l’attitudine fondamentale della prassi francescana, il capitolo successivo affronta il problema del «francescanesimo» nei Promessi Sposi specificandone alcuni aspetti peculiari. Di immediata evidenza è che si tratta d’un francescanesimo ricostruito attraverso la letteratura fiorettistica, cronachistica, biografica, memorialistica e giuridica del Seicento; l’istituzionalizzazione dell’Ordine comportava quasi ineluttabilmente qualche forma di abitudinarietà, qualche stasi di idealità nel rapportarsi intersoggettivo degli stessi cappuccini. L’ideologia manzoniana tendeva inoltre ad una religiosità che istituzionalizzasse le istanze evangeliche e quindi il narratore non aveva alternative tra un frate combattivo, che come padre Cristoforo prefigurasse un Ordine «di democrazia evangelica» ed un ingenuo «giullare di Dio», legato all’arcaico profetismo francescano. Per il critico, che scruta in una dolorosa biografia la morte preziosamente cristiana di don Alessandro, la sua ansia di giustíficazione confermerebbe uno spirito caratterologicamente «economico»: un evangelismo «borghese» del tutto antitetico all’esorbitanza espansiva di san Francesco che, morente, vede ed esige tout-court il perdono.

Benché chi scrive sia affascinato dalla intelligenza di queste sottili ermeneutiche, sospese tra caratterologia e psicanalisi, deve confessare – da lettore laico – una certa perplessità di fronte a certe «coincidenze fattuali» che inducono l’autore a ravvisare nell’alone di benignità del Borromeo qualcosa «da fioretti» (p. 180).

A nostro avviso l’unico modo per evitare le insidiose amplificazioni delle «peculiarità francescane» resta quello di attenersi alla ludica avvertenza del Crispolti, giustamente perentorio – come osserva il [di] Ciaccia – nell’affermare che il Manzoni fu «francescano» nel derivare le virtù non dai santi, ma direttamente dal Vangelo.

Così non riesce a convincerci un’analogia che si instaurerebbe quando alla sollecitudine spirituale di fra Cristoforo risponde alla perfezione «l’obbedienza di Lucia come quella di Chiara alla meditazione di Francesco… » (p. 201). E ancora ci sembra che se la risposta di Cristoforo sulla questione cavalleresca è «utopica», se alla sua semplicità francescana non è estranea la «vera letizia» («sorella della sapienza, e madre della giustizia»), non va neppure dimenticato come nella logica romanzesca la coscienza confusa di Lodovico-Cristoforo sia stata sconvolta proprio da un omicidio legato ad una questione cavalleresca. Per di più – a considerare il sistema dei personaggi che nel romanzo si rivelano gli uni attraverso gli altri – fra Cristoforo sale al castello in sostituzione di Renzo cui – come una sorta di doppio paterno – interdirà la vendetta; e resterebbe da valutare, nella scala assiologica dell’universo romanzesco, la correlazione del personaggio con don Abbondio, la sua figura antitetica.

Detto questo, non resta che compiacersi della passione intellettuale, che anima la prospettiva critica e la scrupolosa accuratezza dell’indagine. La storia della critica ai Promessi è anche – bisogna ammetterlo – una storia di appropriazioni, più o meno intenzionali, ove talora i ruoli si invertono per una sorta di ironica e altalenante imprevedibilità.

Sono ben note le accuse di un don Albertario che nel «cattolicesimo» liberale del Manzoni continuava a vedere il modello, «l’archetipo di quello che i liberali pretendono dovrebbero essere i cattolici: subire la rivoluzione e acconsentire alle sue enormezze»; e ciò accadeva quando già l’anno prima le ultime Lezioni di letteratura italiana (1872) del Settembrini avevano scandalizzato i benpensanti liberali affermando che i Promessi erano «il libro della Reazione, della reazione religiosa, la quale anche oggi si specchia in esso fatta bella dall’arte del poeta». A detta del Dossi sembra che il vecchio don Alessandro avesse ancora sufficiente spirito sarcastico per commentare: «Vun che l’è staa ai pè de la forca, el gha el diritto de di tutt quel ch’el voeur». Nel romanzo la distanza ironica del narratore è attivata anche nei confronti della «francescanità» proprio perché nell’ironia s’accende l’intelligenza segreta del racconto. Basta verificare come nella sfera semantica umile-umiltà l’«umiltà disinvolta» del padre guardiano o i «ringraziamenti umili e sviscerati» di don Abbondio si contrappongono al «contegno d’umiltà» dell’Ordine o alla «riflessione d’umiltà» di Cristoforo.

E abbiamo il viso «tutto umile, tutto ridente, tutto amoroso» di Ferrer, la voce «forzatamente umile» della vecchia al castello dell’Innominato, la carità «umile» del nuovo marchese che non era «un portento d’umiltà»; sul versante della contrapposizione, infine, stando alle disinvolte parole del conte Attilio, «per adoperarlo a proposito, il cordone di san Francesco, non è necessario d’averlo intorno alla pancia» (cap. XVIII).

Nei saggi di La parola e il silenzio certe antiche contrapposizioni pregiudiziali o ideologiche riaffiorano in termini di reticenza/verità storica per essere superate da un’ermeneutica più attenta alle ragioni «letterarie» del testo. Con metodica circolarità l’indagine si articola di pagina in pagina aprendosi, in ogni momento, ai problemi di contenuto e alla referenzialità storica degli eventi narrati.

Il lungo capitolo iniziale sulla peste nei Promessi focalizza, nel segno della «sollecitudine» evangelica, e grandi figure del Borromeo e di padre Felice; al primo F. M. Ferro addebita la responsabilità d’una farneticante saldatura tra «peccato e castigo della peste», al secondo il Cordero rinfaccia la denuncia, quale untore, d’un infelice ricoverato al lazzaretto (La fabbrica della peste, Bari 1984), Con pazienza meticolosa, con la caparbietà d’una polemica che non è mai fine a se stessa e non rinuncia all’intelligenza delle posizioni altrui, il «contraddittorio» esamina e ritorce tutti i capi d’accusa.

Per i lettori del romanzo non dovrebbe tanto interessare la straordinaria difesa del [di] Ciaccia – abile sino a sfiorare la capziosa ipotesi d’una «discrezione dei torturatori», p. 21 – quanto la paziente ricostruzione di una parola propositiva che illustra, nel gioco romanzesco del mondo «inventato», l’opera della Chiesa, il servizio come ministero dei cappuccini. Nei Promessi non è in discussione se il Borromeo avvertisse di più l’esigenza della riforma rispetto a quella dell’annuncio. Da una lettera al Fauriel, dell’agosto 1823, sappiamo infatti che il cardinale rappresentava, per il suo narratore moderno, uno di quei «caratteri dotati di una virtù forte e originale in proporzione agli ostacoli, ai contrasti, e in ragione della loro resistenza, o qualche volta del loro assoggettamento alle idee comuni».

Con il ritratto-biografia del capitolo XXII il personaggio prende appunto rilievo sullo sfondo della propria epoca, soprattutto nella misura in cui vive il messaggio evangelico rifiutando di «conformarsi al secolo»: la divisa etica di Federigo è quella del cristiano «libero» dalle tentazioni d’ipocrisie dei galantuomini del ne quid nimis».

Si tratta d’una prospettiva «apologetica» deliberatamente introdotta nel romanzo; ma nella stessa scrittura romanzesca il narratore introduce una distanza giudicante («Non dobbiamo però dissimulare che tenne con ferma persuasione, e sostenne in pratica, con lunga costanza, opinioni, che al giorno d’oggi…») e si differenzia perciò sia dalle scelte culturali o storico-pragmatiche del personaggio, sia dalle possibili giustificazioni interpretative da parte di difensori beneintenzionati.

Nell’ultima parte del ritratto le zone d’ombra di una vita «limpida» riaffiorano inesorabili proprio perché il narratore non vuole e non può eliminare il problema della responsabilità di fronte ad «errori» che hanno prodotto la sofferenza di altri uomini.

A nessun lettore può sfuggire che i tragici pregiudizi del secolo contro streghe, untori ed eretici – di fatto condivisi dal Borromeo – restano appena attenuati dietro la velatura d’una formula, espressiva come «opinioni strane che mal fondate». D’altronde uno dei nuclei ispiratori della Colonna Infame è che la responsabilità personale non viene mai cancellata dai pregiudizi collettivi. Al capitolo XXXII, poi, la credenza del Borromeo nel maleficio e nell’origine diabolica delle unzioni si rivela attraverso le stesse ipotesi del cardinale: «Si unguenta scelerata et unctores in urbe essent… Si non essent…».

Il narratore non elude affatto il problema della responsabilità, ma – chiedendosi se nel cedimento di Federigo al consentire la processione vi fosse «un po’ di debolezza della volontà» – finisce per incriminare l’intelletto se non la coscienza dell’alto prelato. Quindi anche per il personaggio del Borromeo il Manzoni si mantiene nel solco d’una prospettiva, prima etica che storiografica, il cui principio resta quello di non sottomettere la legge della giustizia all’implacabile corso degli eventi: negli eventi denuncia, quando occorre, il controsenso e la follia.

Lo stesso si può dire della persona storica di padre Felice Casati – la cui valenza romanzesca va cercata nel tempo «umano» d’un cronotopo storico, il lazzaretto, ove la benedizione di lode del cappuccino prepara Renzo ad una definitiva conversione al perdono e – come scrive puntuale il [di] Ciaccia – «congiunge nel lazzaretto non solo, romanzescamente, le avventure degli sposi, promessi, ma anche, idealmente, il messaggio di Lucia – poi, della «terrena» famiglia – con quello di Cristoforo» (p. 35).

La forma «antagonistica» della parola cappuccina – la rigorosa fedeltà ad una tradizione registrata dalle Memorie di Pio La Croce – trova un ulteriore riscontro nella biografia del padre Antonio da Modena e proprio quelle modalità retoriche che tanto infastidiscono un Moravia inverano, in un rito di fratellanza, le risorse spettacolari della oratoria secentesca.

Le parole di padre Felice amplificano il tema della confessione pubblica nel recitativo d’una coscienza che esce sublimata dal suo stesso umiliarsi. Il suo recitativo di benedizioni e la sua reiterata richiesta di perdono implicano un dialogo profondo con tutto il proprio «popolo» per commuoverlo e coinvolgarlo nella tensione d’uno stesso destino. Nell’uguaglianza d’una comunità fraterna la predica di padre Felice rappresenta per Renzo un intermezzo corale che si pone – giuste le puntualizzazioni del [di] Ciaccia – a compimento del perdono di don Rodrigo ma anche in opposizione romanzesca con l’oratoria macabra e ghignante dei monatti.

Concludendo il capitolo l’autore suggerisce una possibile associazione iconica tra la teoria dei visi pallidi e languenti, fissati da Renzo nella speranza di vedervi Lucia, e i visi gialli, «distrutti» degli appestati che invadono il sogno-incubo di don Rodrigo. La proposta ermeneutica concerne l’ingiunzione del profetico «verrà un giorno…» e l’emblematico iterarsi del gesto che riassume tutto il messaggio del lontano incontro al palazzotto. L’ambiguità della frase richiamata dal gesto – avverte il [di] Ciaccia – contiene l’ultimo augurale presagio di dolore giacché l’ingiuria della morte sarebbe ancora più ambigua se non fosse preparata dall’ingiuria della vita; il significato di cui si carica il gesto ingiuntivo è un significato ultimo di giustizia: «se, ora, capisci, per allora, l’accoglimento della giustizia allora rifiutata, puoi operarlo ora, ed essa ti vale anche per allora. Questa è misericordia. La giustizia non è senza misericordia» (p. 92).

Mentre nel romanzo la speranza è concessa pure agli uomini di volontà «non buona», nella Colonna Infame, a contesto dei processi giudiziari, il Manzoni non può salvare neppure gli uomini di buona volontà giacché la Chiesa, come sollecitudine nella carità, risulta assente da un universo in preda alla follia più atroce e alla coercizione più violenta.

I cappuccini che si ritirano davanti ad un condannato che li respinge danno l’immagine d’una assenza operativa, di un abbandono «storico» su cui entra in crisi la fiducia manzoniana nel «vero poetico»: questo il supporto interpretativo del secondo capitolo dedicato dal [di] Ciaccia alla peste nella Colonna Infame.

Quando vengono meno le dinamiche proiettive che il genere romanzesco consentiva, riguardo ai sentimenti e ai personaggi della vita quotidiana, lo spettacolo d’una storia infame – rimasta ai margini del romanzo – rende irrecuperabile e preclude definitivamente all’invenzione artistica l’inferno delle «cause cieche», il vortice storico del potere, della passione, dell’arbitrio, della menzogna complice e dell’abuso rabbioso.

Rispettando la complessa delicatezza dell’argomento, la razionalità interpretativa del critico ha modo di smontare il coacervo di sofismi e paralogismi gratuitamente condensati nel volume pamphlettistico del Cordero: una feroce storia di torture e di misfatti giudiziari non la si può liquidare, in nome di presunti garantismi, sottraendo al giudizio – come irrilevabile – la coscienzialità dei giudici (p. 127). Né si possono cancellare le scorrettezze processuali denunciate dal Manzoni – osserva sarcastico il [di] Ciaccia – in quanto altro non sarebbero che «Tipica mediazione da intellettuale organico: timidissimo, anzi tremebondo, diffidente, alquanto malevolo, davanti al pubblico adatto e avendo Sancta Mater alle spalle, rugge profeticamente» (p. 155). Di argomentazione in argomentazione il [di] Ciaccia mobilita così tutta la critica manzoniana più agguerrita e impegnata, dal Baldi, al Nigro, allo Spinazzola al Marchese; il rapporto fra i Promessi e il romanzo-inchiesta investe direttamente la «componente sociologica» dei due testi: se anche gli umili vengono travolti entro l’«infamia», nel cerchio di pregiudizi che sotto una reciproca minaccia salda potenti e «popolo», si incrina anche il concetto di «populismo» che vorrebbe estranea la «gente di nessuno» alle degenerazioni dei potenti.

Il nucleo propositivo del saggio è quello di recuperare lo spessore storico-scientifico della Colonna Infame entro la struttura dei Promessi proprio perché la tensione etica dell’investigazione giuridica e giudiziaria accende la tensione teleologica del romanzo. Non bisogna dimenticare – scrive il [di] Ciaccia – «che il Manzoni, pur frastornato da quella “specie di disperazione” che lo avrebbe potuto affrontare a proposito dei racconti sulla peste “infame”», continua il romanzo, lo ricorregge, lo pubblica» (p. 190). Dopo l’esperienza d’una perversione storica, l’unica possibile ricomposizione poteva essere la storia della peste nei Promessi ove risorge la presenza ecclesiale, la sollecitudine nella carità dei cappuccini. Quindi sono i capitoli finali del romanzo, che andrebbero letti a conclusione della Colonna. Se questa consegna alla coscienza turbata il romanzo dell’infamia, se dimostra come il peccato restasse nel cuore di uomini che pur dovevano «essere onesti», nei Promessi il male è posto antagonisticamente di fronte alla presenza altrettanto storica del bene, di una Chiesa cioè che può togliere il peccato nell’intimo (p. 197).

Le pagine di congedo spettano infine a Lucia, alla sua «parola soave» come presenza sommessa che nel silenzio si sottrae alla prevaricazione della sessualità-sensualità. Pur consentendo che l’ironia del romanzo abbia corroso dall’interno le convinzioni dell’innamoramento, il [di] Ciaccia rileva come le spiritosaggini arbasiniane su una Lucia promessa a «Miss Broncio» – in parallelo ad un presunto masochismo di don Rodrigo – risultino del tutto inadeguate quando si voglia valutare l’effettiva sovversione dei tradizionali moduli narrativi. Neppure la rassegnazione di Lucia, la sua coscienza quasi «teologale» del voto, riesce a stornare il suo pudico ma insopprimibile amore per Renzo: la sua coscienzialità sincera ed assoluta salva, nella preterizione, il dinamismo psicologico della sua idealità esistenziale. Così i rossori della giovane compagna di Renzo sottolineano un sentimento, una affettività tanto più vera quanto più rinuncia ad «esprimersi». Questa chiave di lettura, la prospettiva dell’«eros come attesa discreta», fa giustizia di tante sommarie semplificazioni; forse non vale neppure la pena di ricordare che ancora negli anni Settanta, sull’onda della polemica di costume, giornalisti e scrittori si esercitavano in assurde attualizzazioni del personaggio: per un Pasolini in Lucia si cristallizzava un’immagine materna che non poteva avere rapporti con Renzo a causa d’una inconscia tendenza omosessuale del Manzoni; per le femministe Lucia era «il simbolo dell’obbedienza» con «tutte le virtù di una serva»; per i rappresentanti della FGCI l’eroina manzoniana poteva invece rappresentare «una donna politica in tutta la forza del termine» perché creava utili alleanze con fra Cristoforo.

In effetti sin dall’inizio della storia – quando Lucia rivela ai familiari l’agguato di don Rodrigo, cap. III – il rossore caratterizza costantemente la sua interiorità; i suoi turbamenti schivi tradiscono un amore che purifica la passione d’ogni sensualità. Il narratore non esclude la sensualità, semplicemente la tace o la allude: è don Abbondio che parla del «bruciore addosso». In Lucia – come altrove si è avuto modo di dire – la fede verginale diventa comportamento etico in cui autocensura e giovinezza coincidono.

Le osservazioni del [di] Ciaccia ci ricordano quelle altrettanto puntuali e argute di un commentatore come il Negri, puntigliosamente impegnato – già agli inizi del Novecento – nel dimostrare che l’amore dei due promessi esclude la «legge delle membra» di cui parla l’Apostolo. Nel romanzo Lucia alterna, con straordinaria intensità fisica, la speranza allo sgomento: dall’altalena di timori e di disperato coraggio (cap. VII) alle sensazioni tumultuose e caotiche della grande notte degli imbrogli (cap. VIII), dagli impacciati rossori davanti ad una monaca «singolare» (cap. IX) al «ribollimento» di pensieri nel ricordo del voto (cap. XXIV), alle lacrime senza pianto che lasciano costernata la povera Agnese (cap. XXVI).

Non per nulla il «sugo di tutta la storia» viene affidato al sorriso «soave» di Lucia: è il momento in cui la sua esplicita dichiarazione d’amore – l’arguzia idiomatica del suo «sproposito» – riversa sul romanzo ormai concluso il segno affettuoso d’una ironia esistenziale. Luciano Bottoni

Paolo Di Sacco, «Studi cattolici», settembre 1988, N. 331, pagina 637.

Nel primo capitolo (La peste nei “Promessi sposi”) è svolta una interessante ricognizione sull’operosità” e sulla “sollecitudine corporale” dei cappuccini nella Milano manzoniana appestata dal “delirio”, al quale si oppone, quale “forma antagonistica”, la predica di padre Felice. Nel secondo il critico, già noto per i suoi numerosi interventi manzoniani, rileva il tema del “silenzio” che lo scrittore mantiene nella Colonna Infame, di fronte all’analogo “silenzio” delle autorità civili e alla colpevole assenza della Chiesa istituzionale. Il terzo capitolo tratta della carestia nei Promessi sposi; il quarto e ultimo del “pudore” con cui l’autore vi ripercorre l’emergenza del tema dell’eros.

Un libro senz’altro accettabile nelle sue tesi critiche e che rivela finezza d’analisi e d’interpretazione. Paolo Di Sacco

Redazionale, Due saggi sul Manzoni, «Turinscuola», n. 1, a. 1 del 13.10.1988.

Si tratta dei volumi di F. Di Ciaccia, La parola e il silenzio. Peste carestia ed eros nel romanzo manzoniano, pp. 284 e Umiltà e francescanità nei «Promessi Sposi», pp. 226, ambedue di Giardini editori, Pisa 1987. Già recensiti sia in riviste critiche che su quotidiani ed insigniti della medaglia d’oro del Premio Città di Alanno, trattano delle figure positive e negative a proposito dei temi, di cui nei titoli.

Sulla peste, indagata nei Promessi Sposi e nella Colonna infame, l’autore compie un’analisi serrata sul piano testuale ed inoltre aggiunge informazioni nuove per delineare l’immagine degli inservienti al Lazzaretto. Particolarmente interessante appare poi lo studio sull’eros: esso muove dalle composizioni giovanili del poeta innamorato, per portarsi sul rapporto sentimentale tra Renzo e Lucia, che egli vede focalizzato dal romanziere sull’aspetto «affettivo» dell’eros.

Il libro sulla francescanità nei Promessi Sposi consta essere assolutamente originale: mentre dimostra l’opposizione caratteriale tra Manzoni e l’Assisiate, scopre consonanze d’’intuizione estetica tra i due. Ne discendono interpretazioni molto differenti da quelle consuete, con spaziose ed avvincenti rivisitazioni di diversi personaggi.

Redazionale, «Premio Letterario Nazareno», aprile (1989) pagina 10.

L’Autore soffermandosi sulla peste, sulla carestia e sull’eros ne I Promessi Sposi, anche alla luce di una rilettura de La Storia della Colonna Infame, del Fermo e Lucia (la prima stesura di quelli che saranno I Promessi Sposi) e di alcune liriche giovanili, attraverso un esame di ciò che l’autore del più noto e più discusso romanzo della letteratura italiana ha detto, mette in evidenza anche ciò che il Manzoni ha taciuto.

Il Di Ciaccia dimostra come, anche là, dove può sembrare che il Manzoni abbia voluto tacere, non è escluso che egli abbia fatto del silenzio una scelta poetica, anche perché, in fondo, il silenzio gli ha permesso di dire più di quanto avrebbe potuto dire con le parole. L’«assenza» in Manzoni, secondo il Di Ciaccia, dice più della «presenza», se non per altro, perché fa sentire il bisogno di ciò che è assente.

L’esposizione chiara, nonostante il rigore scientifico del lavoro, fa sì, che l’opera sia accessibile a tutti e non solo agli specialisti, e permette di collocare questo volume tra gli studi sicuramente più originali che negli ultimi tempi siano apparsi nel panorama della critica manzoniana.

Redazionale, «Studi e ricerche francescane», Anno XVIII, nn. 1-4, 1989, pagine 264-265.

Sono raccolti in questo volume (in forma abbreviata) alcuni studi del grande studioso di temi manzoniani prof. F. di Ciaccia, già pubblicati in riviste specializzate di tematiche francescane, «Studi e ricerche francescane» e «L’Italia francescana».

Nei primi due capitoli tratta della peste nei «promessi sposi» e nella «Colonna infame». Nel terzo capitolo parla della carestia e nel quarto dell’eros nei «Promessi sposi».

Sono tali e tante le suggestioni, le idee, le riflessioni, forse non da tutti condivise ma tutte e sempre interessanti e intelligenti, che è davvero difficile riassumerle. Del prof. F. di Ciaccia è stato detto che conosce il Manzoni come le sue tasche.

Allorché furono editi nelle sopraindicate riviste, questi studi suscitarono molto scalpore e interesse non soltanto in Italia, raccogliendo significativi consensi, riconoscimenti e premi.

A tutti questi consensi si unisce la Direzione della presente rivista, augurando all’illustre professore di continuare per lunghi anni ancora ad approfondire un romanzo e una figura come quella del Manzoni che continua a «parlare» con il suo «silenzio» eterno.

Angelo Colombo, «Otto/Novecento», 2 (1989) pagine 269-270.

I due volumi del Di Ciaccia, giunti al pubblico insieme per felice concomitanza di tempi editoriali, offrono un contributo di indubbio interesse per lo studio di una dimensione particolare nello sviluppo narrativo dell’opera massima manzoniana: dalla speciale angolazione costituita dalle presenze cappuccine nell’ordito del romanzo – voci e cose, e ancora libri e memorie omiletiche rimesse in circolo attraverso il Prato fiorito inviso al Porta, per fornire linfa alla vicenda non meno che alla cultura delle ‘genti meccaniche e vili’ – il Di Ciaccia agevola l’affioramento di quanto, all’ingrosso, si potrebbe designare come una ‘teologia francescana’ deposta dal Manzoni accanto ai suoi innumerevoli materiali di lavoro; la duplice ricerca, quindi, esibisce – quasi sempre per la prima volta – una nutrita documentazione della (forzando una titolazione più cauta) francescanità del romanzo, accanto al quale è del resto convocato l’importante teste a carico della Colonna infame.

L’operazione si rivela in tutta la sua consistenza qualora si pensi alla scarsa attenzione – o al vaglio non sempre equanime – prestata dalla critica ai personaggi francescani dei Promessi, con l’ovvia eccezione della figura di Cristoforo. La memoria non può che andare alle pagine finissime di un esegeta come Giovanni Getto, pur sensibile nel cogliere, quasi dall’interno, la psicologia dei personaggi soggetti alle più drammatiche e travagliate conversioni, e tuttavia non così benevolo, si ricorderà, davanti alla figura – e, in specie, alle parole – di fra Galdino. Quanto di ciarlatanesco e di fuorviante può apparire nell’‘esempio predicabile’ del frate cercatore trova, grazie alla disamina attenta del Di Ciaccia e alla serrata discussione imbastita con pagine non meno note di Ezio Raimondi, una sua giustificazione nelle misure proprie del narrare fabulatorio-miracolistico di Galdino e nella visione «paradigmatica» della realtà ad esso sottesa; ad Arnese spetta dunque una visione critica delle cose, al «capitano» Cristoforo una aggressiva, a Galdino il ruolo di svelare, stornando l’attenzione dalla matassa del presente, il piano provvidenziale e divino nei destini del mondo. Nondimeno credo lecito rammentare che, come asserisce, questa volta, un gesuita, Emanuele Tesauro, coevo di Galdino e Cristoforo, il divino si manifesta in aenigmate, attraverso le misure discrete e segmentane dell’exemplum, o ancor più, secentescamente, dell’emblema, del geroglifico, della metafora (che sarà di diverso tra un’autentica allegoria del disegno salvifico di Dio sopra gli ‘impicci’ e le ‘sventure’ umane, del resto, e il miracolo delle noci, incardinato all’opposizione giusto-ingiusto, pio-empio?).

Si consenta un secondo indugio, a fornire una nuova prova dell’ampiezza e delle ragionate proposte ermeneutiche di cui le analisi del Di Ciaccia si sostanziano. Anche in tal caso, l’attenzione si sofferma su una pagina celeberrima del romanzo, riletta a partire da un’equilibrata revisione delle indagini di uno studioso benemerito, Giorgio Bàrberi Squarotti: l’episodio della vigna di Renzo – un originario locus amoenus convertito, mi pare, ai colori di un paesaggista romantico, e nel cap. XXXI posseduto infine dal male, o emblema stesso, tesaurianamente, di un maligno insediato naturaliter nelle cose. Il Di Ciaccia procura una sinossi persuasiva fra il passo in esame e uno stralcio del cap. XXXIII (la descrizione del lazzaretto), grazie alla quale si rivelano le concordanze di accenti e di lessico fra l’intrico botanico attraverso cui sopravvivono le vestigia della vigna e la distorsione – o il coacervo babelico – del vivere societario nella segregazione, governata dai cappuccini, del lazzaretto milanese. Mi pare necessario solo precisare che, come non poteva non accadere nel caso della vigna di Renzo, anche nel quadro turbato su cui Manzoni indugia nel XXXIII dei Promessi Sposi il romanziere fornisce una lettura in chiave esplicitamente astorica, privilegiando quindi, mediante le filigrane del cap. XXXI depositate nella sena del lazzaretto, l’immagine del ‘naturale’ quale luogo del disordine, del dissonante, della molteplicità – emblema del male nel mondo come nel poema cristiano della Gerusalemme (il binomio Tasso-Manzoni, riproposto in anni vicini da Sergio Zatti, potrebbe in definitiva farsi garante di nuovi acquisti anche in questa direzione).

Varrà da ultimo, quale incombenza propria del recensore, sacrificare al rendiconto sommario dei temi trattati nei due volumi il piacere di intervenire su altri luoghi stimolanti della ricerca, da riservare perciò al solo lettore attento o a diversa circostanza di discussione. Il primo saggio, che si apre con una lunga analisi delle pagine manzoniane sulla pestilenza milanese nei Promessi Sposi e nella Colonna infame (capp. I e II: già editi in rivista nel 1985), concede spazio allo studio della carestia (cap. III) e dell’eros nel romanzo maggiore (cap. IV: pubblicato, come il precedente, nel 1986 in rivista). Il secondo volume, che si apre (cap. I: su rivista nel 1984) con pagine efficaci sugli «umili» – riannodando i fili del dibattito attorno a un oggetto caro a un altro manzonista di valore, quale Umberto Colombo –, si sofferma sui personaggi «minori» francescani (cap. I), edito originariamente con il cap. I (nella medesima sede), sulla missione di fra Galdino (cap. III: pubblicato nel 1983), infine – capp. IV (1985) e V (da due articoli, rifusi, del 1984) – sulla «francescanità» nei Promessi Sposi; il saggio dunque, pur articolandosi in forma pressoché monografica attorno al tema dell’umiltà «cappuccinesca» e ai personaggi dei frati minori, appare, per efficacia di rinvii e di intagli, complemento naturale del volume cui si è accompagnato in queste note sommarie di presentazione. (Angelo Colombo)

Attilio Agnoletto, «Il Ragguaglio librario», Nuova Serie, anno 60° – Febbraio 1993, N. 2, pagina 68.

Il titolo contiene un’ipotesi interpretativa della «peste» manzoniana, sia ne I Promessi Sposi, sia ne La colonna infame. La stessa impostazione è assunta per i temi della carestia e dell’amore. L’interpretazione proposta intende riscontrare le due tendenze, contraddittorie tra loro, che il Manzoni fa emergere nella storia, sia privata, sia pubblica: lo spirito di servizio e lo spirito egoistico. La «parola» corrisponde dunque alla «verità» che opera efficacemente il bene (con allusione ad un chiaro semantema biblico); il «silenzio» corrisponde all’«inganno». Il critico esamina analiticamente il testo, seguendo l’una e l’altra tendenza, e mostra la fenomenologia del loro atteggiamento. Figura emblematica del silenzio è, narrativamente, il Griso; politicamente, lo sono i Governatori vari, che a parole fanno molto per gli altri e di fatto pensano a vincere le proprie guerre.

Il dramma del Manzoni si consuma nell’indagine sulla «colonna infame»: nella storia documentata il Manzoni ha scorto l’assenza della «parola» benefica (nel romanzo, essa passa attraverso padre Cristoforo, padre Felice Casati, la vedova del Lazzaretto, ecc.). A dominare, nei processi agli untori, è l’intenzione di chi difende il potere anche a costo di creare prove contro innocenti che, per i loro precedenti censurabili, possono diventare credibili untori. Il critico riconosce che la passione morale dell’indagine storico-giudiziaria del Manzoni conferisce all’opera un pathos poetico, ma ne difende i principi ispiratori e le conclusioni dedotte.

L’amore, esaminato a partire dalle poesie giovanili del Manzoni e analizzato con fine critica testuale, è dimostrato nella sua interessante continuità di atteggiamento psicologico: un «innamoramento» che parla senza chiasso. Con riserbo. Il critico ne scandaglia i recessi, concludendo che esso è ben più reale di quanto appaia. Attilio Agnoletto