Madre Amedea, 2007

Nulla temo nell’obbedienza. Memorie della venerabile Madre Maria del Beato Amedeo Vercellone, Clarissa Cappuccina del Monastero di Nostra Signora del Suffragio di Torino. Versione in lingua corrente, introduzione e note a cura di Nicola Gori; presentazione di Mons. Massimo Giustetti Vescovo Emerito di Biella; prefazione di Padre Costanzo Cagnoni [sic!] O.F.M. Cap. Istituto Storico dei Cappuccini, [Roma], Edizioni San Clemente, 2007, pagine 349, [15] tav., «Rivista di storia della Chiesa in Italia», anno LXIV, N. 2, luglio-dicembre 2010, pagine 566-570.

 

 Copertina, Madre Amedea, 2007

In copertina: incisione dalla biografia di Gallizia, 1726 (particolare)

 

Testo della recensione

Il volume contiene l’autobiografia inedita di Caterina Vercellone (Biella, 1610 – Mondovì, 1670), divenuta monaca cappuccina nel 1627 con il nome di Maria del Beato Amedeo – detta quindi Madre Amedea -, ed è corredato di due Appendici di lettere ugualmente prima d’ora inedite indirizzate dalla stessa ad alcuni componenti della Casa Savoia e a personalità ecclesiastiche, conservate all’Archivio di Stato di Torino nel faldone Lettere dei santi.

L’autobiografia di Madre Amedea, redatta per volontà dei suoi superiori e iniziata il 15 luglio 1654, ripercorre gli anni dalla nascita fino al 1655, alla cui data il testo registra una evidente brusca interruzione. Si ritiene che il testo delle memorie continuasse, ma che i successivi codici siano andati distrutti o persi. Di fatto, quando il piemontese Giacinto Gallizia, che divulgò per primo la vita di Madre Amedea (P. H. Gallitia, Vita della venerabile serva di Dio suor Maria del beato Amedeo detta Madre Vercellona di Biella, fondatrice del monastero delle Cappuccino di Mondovi, Torino, Stamperia di Gianfranco Mairese, 1726), utilizzò la copia del testo autografo – un po’ modificato e diviso in capitoli, come pronto per la stampa -, custodito presso la curia vescovile di Mondovì, già non vi apparivano elementi e notizie che potessero far ritenere che egli conoscesse la eventuale continuazione del racconto (cf. la postilla del curatore, p. 253). In seguito, la notizia su di lei fu inserita, nel 1787, nel Leggendario Cappuccino, ovvero, Vite di persone per virtù e pietà illustri della serafica religione cappuccina del Padre San Francesco d’Assisi, Faenza, presso Lodovico Genestri, 1787. In occasione della traslazione della salma di Madre Amedea da Mondovì a Torino nel 1965, fu redatta dal Padre cappuccino Zeffìrino Signetto da Tonengo la biografia divulgativa Fascino del calvario. Amedea Vercellone del Beato Amedeo, clarissa cappuccino, Torino 1965, e, dopo il ritrovamento del manoscritto, nel 1999, fu stilata una biografia moderna da Cristina Siccardi, Madre Amedea Vercellone. Fra misticismo e azione nella Torino del Seicento, Cinisello Balsamo 200l. Infine, nel 2007 è stato pubblicato il presente volume, contenente tutti gli scritti autografi di Madre Amedea.

Gli aspetti rilevanti della figura di Madre Amedea interessano due ambiti: l’uno riguarda la sua influenza nel mondo esterno, l’altro la sua esperienza interiore. Amante della solitudine, Madre Amedea si trovò tuttavia, ben presto – già badessa nel 1641[1] – a doversi occupare di faccende pratiche. Nel 1639, dovette cercare una nuova dimora per le monache, dopo che il primitivo monastero di Torino fu abbattuto per ragioni strategiche nel corso della guerra fratricida per la successione al ducato dei Savoia; nel 1659 fondò il monastero di Mondovì, voluto da Madama Reale per la promessa fatta a Madre Amedea alle cui preghiere attribuiva la guarigione della figlia Ludovica; nel frattempo fu impegnata nel redigere le Costituzioni della sua comunità monastica, poi approvate da Urbano VIII nel 1643.

La Vercellone era convinta – osserva Nicola Gori nella Introduzione – che il Signore volesse servirsi di lei, attraverso le illuminazioni interiori, come strumento della sua misericordia per il bene anche del mondo sociale e politico. In effetti ella, grazie alle illuminazioni mistiche, conseguì in breve tempo tanta autorevolezza, da intervenire anche nella sfera pubblica. Quando, ad esempio, intorno al 1641-1642 il Ducato contestò il diritto delle immunità religiose, ella ebbe una visione che rivelava sciagure per i responsabili dei sequestri – e al contempo esortava l’arcivescovo di Torino a non lasciarsi intimorire -; la notizia, arrivata all’arcivescovo, passò a Madama Reale, che fece togliere immediatamente i sequestri fatti ai religiosi e alle religiose. Per il vero, nel proseguo del tempo, la questione delle immunità non sarebbe stata del tutto risolta; ma intanto una cosa era certa: Madre Amedea era in grado di influire sulle vicende civili.

Al suo ascendente presso i contemporanei si deve inoltre sia lo sviluppo della Riforma dei Carmelitani, detti scalzi, nel Ducato sabaudo – si tenga presente che la guida spirituale del suo monastero era affidata a sacerdoti dell’ordine dei Carmelitani riformati -, sia la fondazione dell’Oratorio di San Filippo Neri nella città di Chieri. Il suo primo intervento a favore dell’Oratorio filippino è databile nel 1658, con una lettera del 2 aprile indirizzata al padre Pompeo Salvio, oratoriano, e di fatto la prima pietra della casa oratoriana di Chieri fu posta il l0 ottobre 1664 da mons. Michelangelo Broglia. La lettera autografa, rinvenuta dall’agiografo Daniele Bolognini nella Biblioteca Storica della Provincia di Torino, costituisce, in Appendice, uno dei documenti più preziosi del presente volume.

Nella lettera risulta che la metodica suggerita da Madre Amedea per far fronte alle realizzazioni logistiche corrispondeva esattamente al suo stesso stile religioso: impegnarsi con tutte le proprie forze, ma avere fiducia solo in Dio e a lui solo attribuie il merito del successo, verso il quale non nutrire alcun dubbio, neppure in un solo momento. Quindi, poiché tutto il bene viene sempre operato da Dio, in tutte le sue realizzazioni ella si sentiva solamente il “garzone” del Signore, come diceva spesso. Conseguentemente all’idea che il “garzone” non va messo in luce, Madre Arnedea, in calce alla suddetta lettera, ne chiedeva al destinatario la distruzione: «Subito letta la dii al fuoco». La lettera ci è pervenuta, tuttavia, grazie al fatto che il direttore spirituale di Madre Amedea, il carmelitano padre Pietro Tommaso di Sant’Eufrasia, nel consegnarla al destinatario accluse una propria missiva in cui lo esortava a non eseguire la richiesta di distruzione, come risulta da un’altra lettera inedita, anch’essa in Appendice.

L’operosità di Madre Amedea verteva, però, soprattutto sulla salute delle anime.

Il Signore o la Madonna le facevano vedere, in sogno o con illuminazioni interiori, lo stato dell’anima di alcune persone che si trovavano fuori dal raggio della grazia divina, e volevano espressamente che ella cooperasse alla loro salvezza. Tra costoro, risulta ad esempio il nome di un responsabile della linea antiecclesiastica: il Signore le rivelò che costui, benché purifìcato nella confessione sacramentale, rimaneva offuscato nell’anima per mancanza di profondo pentimento, e quindi doveva essere avvertito. Nei riguardi delle sue consorelle, però, Madre Amedea tenne a precisare che esse non rientravano tra le persone di cui veniva a conoscere le imperfezioni – salvo che per una, e per una sola volta, puntualizzò -; tuttavia, a volte il suo intervento dovette risultare un po’ problematico, come quando si trattò di un religioso che aveva come confessore il medesimo di Madre Amedea, per cui avveniva che il confessore comune esortasse l’uno a rivolgersi a lei per consigli spirituali e che costei svelasse al confessore comune le “imperfezioni” dell’altro. E su tale intreccio di spirituale perfezione Madre Amedea si soffermò così a lungo. che ella stessa ebbe ad avanzare il sospetto che qualcuno avrebbe potuto pensare che quella «storia» andava troppo «alla lunga» (p. 175). Il primo ad essere convinto delle soprannaturali indicazioni spirituali di Madre Amedea fu proprio un suo confessore. Costui le ordinò, per metterla alla prova, di riferirgli quale fosse il primo peccato mortale da lui compiuto, quale la specie del peccato, quale il modo del peccare e in quale età lo avesse fatto; e dopo che ella, all’istante, riferì con precisione la cosa, il confessore le ordinò per obbedienza che ella redigesse una autobiografia. Da questo esordio scaturì il precetto del confessore perché ella lo tenesse sempre aggiornato su ciò che la Madonna le avesse fatto conoscere circa i pericoli che egli avrebbe dovuto evitare e il comportamento che avrebbe dovuto tenere per il profitto spirituale. Ne nacque una tale fiducia in Madre Amedea, che egli, quando aveva compiuto qualcosa di buono dietro suo avvertimento, andava, tutto festante, da lei per comunicarglielo.

Per il vero, una procedura spirituale del genere, soprattutto in quanto implicava personalità laiche di spicco, tra cui alcuni membri di Casa Savoia, ebbe a creare qualche equivoco con la conseguente nascita di divergenze tra i direttori spirituali sulla sua opportunità; ma prevalse il giudizio dello stesso arcivescovo di Torino secondo cui ella, pur con discrezione, doveva essere autorizzata a proseguire nel manifestare le rivelazioni ricevute da Dio. Questo particolare è importante, dal punto di vista della posizione spirituale di Madre Amedea, perché mostra l’obbedienza della monaca, la quale aveva sempre dichiarato – e sempre si era comportata di conseguenza – di parlare o di tacere secondo quanto i suoi superiori stabilivano.

Un altro aspetto dell’esperienza estatica di Madre Arnedea riguarda il contenuto delle visioni mistiche. Un esempio è la visione della Trinità nella Incarnazione: dentro il Ventre della Santissima Madre del Signore ella vide tutte e tre le persone divine, presenti non solo nel modo ordinario con cui Dio sta in tutte le cose. E vide anche i momenti della Incarnazione, quando per opera dello Spirito Santo prese a cornporsi il corpo di Cristo nel Ventre di Maria e fu creata dalla Santissima Trinità quell’anima che nello stesso istante restò unita al Verbo. Per il vero, non era dichiarata se non la verità di fede, benché esposta in forma narrativa. A volte le visioni erano accompagnate da sensazioni olfattive, come quando l’assunzione dell’Ostia consacrata produceva una percezione di «carne e di sangue nella bocca», congiunto ad un «sapor di latte dolcissimo più che miele» (p. 205). E consta anche la visione del Paradiso, con la Vergine Santissima alla destra del Figlio di Dio.

Sul piano della vita spirituale, le frequentazioni di Madre Amedea erano carmelitane. Le Costituzioni dei frati minori cappuccini stabilivano, infatti, al capitolo XI – dalle prime, ufficiali, del 1536, alle successive del 1552, del 1575, del 1608 e del 1643, per fermarci all’epoca di cui qui trattasi -, che, in assoluto, da parte dei frati non «se acceptino cure de monasteri ne etiam de confraternita ne de alchuna congregatione de homini sive de donne: ne se li diano confessori et non habiano alchuna cura di loro» (Costituzioni del 1536, in Constitutiones Ordinis Fratrum Minorum Capuccinorum, I, Constitutiones Antiquae [1529-1643], Editio anastatica, Romae 1980, 69: per le successive Costituzioni, 131, 196, 271, 623). Il monastero di Madre Arnedea, all’epoca in cui ella scrisse le memorie, aveva come confessori due padri carrnelitani riformati (o scalzi): il primo, come confessore ordinario, il secondo straordinario. Furono costoro ad ascoltare le esperienze di Madre Amedea e a parlarne al vicario generale della diocesi di Torino, mons. Beggiamo, dal quale poi venne la richiesta che la monaca redigesse le memorie autobiografiche. Con tali premesse, ella pose il suo scritto sotto la protezione specifica di santa Teresa d’Avila. Quanto a san Giovanni della Croce, ella dovette aver letto anche le sue opere, se ne citò alcuni versi.

La mistica di santa Teresa tendeva ad escludere gli apporti dei sensi e della immaginazione. Circa le visioni sensoriali, Teresa d’Avila aveva scritto di se stessa, ad esempio al cap. XXIX dell’autobiografia, anche nel suo caso redatta per obbedienza: «Desiderosa di conoscere il colore dei suoi [di Gesù] capelli e la sua statura per poterne dire qualche cosa, non vi sono mai riuscita: le mie diligenze non giovavano a nulla. Anzi, appena lo tentavo, la visione [mentale] spariva completamente» (Vita di S. Teresa di Gesù scritta da lei stessa, in Santa Teresa Di Gesù, Opere, Roma 1958, 283 s.); e sul piano dottrinale, trattando della visione di “immagini” di Gesù: «Ho detto immagine, ma non nel senso che debba parere una pittura, bensì come un essere veramente vivo, che parla alle volte con l’anima e le svela dei sublimi segreti. Tuttavia, anche se l’apparizione si protrae per qualche tempo, non si può in essa fermare lo sguardo più di quello che lo si possa nel sole, per cui la sua vista ne è sempre rapidissima […]» (Castello interiore, Settime mansioni, cap. IX, in Opere, 927). La concezione di san Giovanni della Croce – il quale pur fu sublime, nelle sue esposizioni poetiche dell’esperienza mistica – era ancora più rigida: egli insegnava ad aborrire ogni visione corporale di natura celestiale, di qualunque origine essa fosse (cf. ad esempio Salita del Monte Carmelo, Libro 2, cap. Il, par. 7-8; Libro 2, cap. 16, par. 6). Secondo lui, le visioni, comprese quelle che si presentano al senso interno, sono in rapporto inverso al livello di contemplazione – nella quale si esplica il grado di unione con Dio -: «Se non si distacca dalle visioni immaginarie l’anima non potrà crescere in fede, umiltà, semplicità e solitudine di spirito» (Salita del Monte Carmelo, Libro 2, cap. 18, par. 3-4, in San Giovanni Della Croce, Opere, Roma 1979, 145 s.).

L’esperienza contemplativa di Madre Amedea sembra avvicinarsi a quella tipologia – in auge soprattutto nel sec. XVII – che non disdegnava la sensorialità della vita contemplativa e ammetteva il cronachismo nelle verità cristiane, se non proprio la teatralizzazione dei contenuti delle visioni. Ad esempio, circa la presentazione di Gesù al Tempio la Madonna disse a Madre Amedea che avvenne a mezzogiorno. Però, Madre Amedea ebbe spesso ad aggiungere che le cose che ella vedeva erano piuttosto cose che Dio le faceva capire o comprendere o intendere, oppure sentire, come quando percepiva la presenza della Madonna come se fosse lì personalmente. A proposito di san Giuseppe, dal quale le sembrava essere guidata nello scrivere le memorie, stando egli vicino alla sua destra. al di sopra della spalla e “mirando” la mano destra della scrivente, precisò che quella conoscenza di san Giuseppe al suo fianco era così chiara come nella realtà, ma la visione avveniva «non con gli occhi del corpo, bensì con conoscenze intellettuali, come in tutte le altre» (p. 162). Inoltre, a volte ella si espresse in termini di analogia dei contenuti delle visioni corporali e immaginarie. A proposito della Trinità vista come «una unica fonte grande da cui si di partono tre fontane», avvertì che in realtà non si vede la fonte e non si vedono le fontane: si tratta di “similitudini” per riferire contenuti non facilmente esprimibili (p. 236).

In concreto, le “visioni” di Madre Amedea erano illuminazioni interiori, anche se espresse come se fossero reali contenuti sensoriali o immaginativi.

Il tema della mistica è comunque complesso e vasto, tale da imporre la necessità di indagini specifiche su ciascuna delle sue manifestazioni individuali. Il merito del presente volume è di aver portato alla luce una autobiografia che concorre ad arricchire il panorama fenomenico intorno a questo grande argomento, su cui c’è ancora molto e ci sarà sempre tanto da scoprire e da approfondire da parte degli studiosi della teologia e della storia dell’esperienza mistica. [Francesco di Ciaccia]


[1] Cf. lntroduzionc, p. 33: ma il manoscritto a p. 91 colloca l’elezione, tuttavia dubitativamente – «credo fosse» —, il 17 settembre 1642.

 

 

 

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