Canali-Giorgi, Borromeo e francescani, 2011

Paolo Canali – Rosa Giorgi (a cura di), San Carlo Borromeo e la famiglia francescana: dialogo fecondo tra carisma e istituzione. Atti del Convegno di studio, Milano, 29 gennaio 2011, Prefazione di Paolo Canali, ofm, Milano, Edizioni Biblioteca Francescana (Presenza di San Francesco 51), 2011, pagine 120, Literary.it, 11 (2011); poi «Studi Francescani», 109 (2012) pagine 274-275.

 Copertina, formato più piccolo

Copertina e Testo della recensione

Gli Autori del Convegno sostanzialmente trattano un aspetto fondamentale di san Carlo Borromeo: quello del “riformatore” della Chiesa cattolica dell’epoca; tuttavia, accostando questa sua specifica attività al rapporto, pastorale e personale, che egli ebbe con i frati minori – in particolare, gli osservanti e i cappuccini -, gli Autori, ciascuno secondo il compito loro assegnato all’interno del Convegno, hanno allargato la prospettiva istituzionale alla considerazione delle peculiarità progettuali dei frati stessi, in particolare dei cappuccini – sul cui “carisma” ha posto l’accento soprattutto il padre Fedele Merelli.

Il punto di partenza è comunque quello del san Carlo “riformatore”, trattato da mons. Marco Navoni (San Carlo “riformatore”, pp. 9-20), dottore dell’Ambrosiana e insigne studioso borromaico, attraverso la delineazione dei caratteri essenziali della riforma cattolica post-tridentina all’interno delle problematicità ecclesiastiche del ‘500 e arrivando anche alle componenti psicologico-esistenziali della “conversione” del cardinal nepote alla politica riformatrice – che possiamo definire missionaria. Data la sede del discorso, l’excursus storico-biografico ha richiesto ovviamente sintesi estrema, comunque densa e chiarificatrice, ma a me piace indicare in particolare un’arguta osservazione finale, offerta quasi con spirito faceto. Segnalando, attraverso il supporto iconografico del modulo romano della raffigurazione del Santo, la complessità armoniosa della sua personalità come uomo di preghiera, l’Autore osserva che “persino un cardinale della curia romana può diventare santo” (p. 20).

In realtà, Carlo Borromeo non fu soltanto un riformatore molto determinato e lineare; fu anche un uomo che seppe coniugare lo zelo per il suo ideale con le ragioni di prudenza e di diplomazia espresse dalla Curia romana; così fu ad esempio nel caso dell’intermediario Giacomo Savelli, protonotario apostolico, come emerge chiaramente dalla esposizione di padre Gianfranco Berbenni, frate minore cappuccino, nella sua relazione, “per un’analisi storica e geopolitica”, su Il contesto socio-religioso della seconda metà del secolo XVI: l’esempio dell’Ordine francescano (pp. 21-51).

In effetti, l’epoca del Borromeo fu molto complicata, per le contrastanti istanze in campo. Ciò risulta e risalta già nelle posizioni, ad esempio, da una parte, della Chiesa gerarchica – quella più illuminata -, la quale aveva individuato nella residenzialità dei vescovi diocesani il presupposto necessario per l’azione pastorale, contro il privilegio “parassitario” (per esprimermi con Marco Navoni, p. 10) dei vescovi, e, dall’altra, degli Ordini regolari – esenti dalla giurisdizione vescovile -, i quali paventavano la perdita della loro autonomia gestionale. Carlo Borromeo – come espone tutta la complessa situazione il Prof. Giorgio Dell’Oro (L’Ordine francescano e la “politica” diocesana del Borromeo, pp. 54-90) – era fautore della linea che voleva gli Ordini regolari soggetti all’autorità episcopale e cercò di mettere in pratica tale principio nella propria diocesi, arrivando a procedere ad arresti di frati “poco affidabili” (p. 61). Entro questa tendenza ecclesiastica, egli, nutrendo simpatia nei confronti dei frati francescani (soprattutto Cappuccini e “Zoccolanti”), ne promosse, nonostante i malumori della Curia romana, la diffusione grazie anche ad un incremento edilizio e residenziale e tentò di acquisire il controllo sugli Ordini regolari, tanto che Gregorio XIII pensò bene di intervenire per limitarne le pretese. In pratica, si contrapponevano due posizioni di politica ecclesiastica: quella centralizzatrice romana – la linea della Curia pontificia a partire dal 1564, solo all’indomani della conclusione del Concilio di Trento – e quella della decentralizzazione territoriale, che durante lo svolgimento del medesimo Concilio e ancora alla sua immediata conclusione (1563) risultava godere, teoricamente almeno, di caratteristiche di preminenza sul piano dell’organizzazione pratica della società ecclesiastica.

Il rapporto di Carlo Borromeo con il mondo francescano, cappuccino in specie, è affrontato, in un discorso dall’ampio respiro storico e spirituale, specificamente dal padre Fedele Merelli, frate minore cappuccino (Carlo Borromeo e i cappuccini: riforme a confronto, pp. 91-114). Mettendo, per l’appunto, a confronto due realizzazioni “riformistiche” dell’epoca – quella ecclesiastica del Borromeo, entro la problematica generale dell’epoca cinquecentesca, e quella religiosa francescana -, egli sottolinea la concretezza, l’effettualità quasi materiale dell’attuazione riformistica da parte del cardinale, nell’attenzione ai particolari pratici “anche minimi” (p. 98) delle cose da riformare, poiché “qualsiasi riforma se tocca solo gli aspetti intellettuali e generali, se si traduce in carta e in riunioni, ma non arriva ai particolari della vita non è vera riforma […]” (p. 99). La concretezza, nell’ambito della visione della vita, sia sul piano esistenziale, sia sul piano istituzionale e normativo, costituisce una caratteristica che era, un tempo, tipicamente cappuccina (come lo era, lo è e lo sarà di tutte le realtà di vita, in ogni ambito di aggregazione, finché quelle realtà conservino l’impulso originario); lo era – dicevo -, prima che tutto diventasse un qualcosa di generico, un qualcosa di fumoso e di fumogeno, invece che di materico e di concreto; prima che – dico – nell’ambito della vita degli Istituti religiosi tutto fosse accumulato in un calderone senza quasi più nessuna distinzione tra una entità e l’altra, a parte l’autonomia gestionale ed economica delle risorse di ciascun ente e a parte i posti di comando dei vari superiori degli enti stessi.

Questa mia digressione riflessiva – al di là dei rigorosi e rigidi lineamenti storici dell’Autore, offerti, in questa sede, in modo estremamente succinto (p. 91) – vale peraltro a riandare alla considerazione dell’Autore, proprio al riguardo della diversità progettuale e istituzionale – carismatica, quando all’epoca il carisma consisteva in qualcosa di realistico – degli Istituti religiosi. Egli sottolinea ed esamina con chiarezza il dato storico secondo il quale i frati minori cappuccini concorsero alla riforma cattolica e borromaica del ‘500 non già, essenzialmente, con la predicazione e la cura pastorale, dato che la loro peculiarità era la vita eremitica. Carlo Borromeo, pur proiettato generosamente ed animatamente verso l’efficienza pastorale e ministeriale della Chiesa, ha sostanzialmente rispettato la caratteristica cappuccina, anche se intervenne a volte per caldeggiare un qualche impegno pastorale – nella predicazione e nell’esercizio dell’ascolto della confessione sacramentale – in più. L’autore si prende quindi la cura di dimostrarlo sul piano documentale: per mettere chiari puntini storici sulle “i”.

Un indizio del particolare legame tra Carlo Borromeo e i frati francescani – dei quali egli era cardinale protettore – può essere individuato nel collocamento del dipinto del Mazzucchelli raffigurante il Santo medesimo, da poco innalzato agli onori degli altari, in una cappella della chiesa di Sant’Angelo, a Milano, dei frati minori osservanti. Rosa Giorgi, in Pier Francesco Mazzucchelli, detto il Morazzone: la tela di san Carlo in gloria nella chiesa di S. Angelo (pp. 115-120), ne spiega con chiarezza i tratti pittorici da un punto di vista anche simbolico. Ne deriva la rappresentazione di un santo tridentinamente – per non dire controriformisticamente – glorioso e mistico, che fa tornare in mente – a me, non so se agli altri – l’osservazione iniziale di Mons. Marco Navoni. [Francesco di Ciaccia]

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