Giachery, Emerico, 2011

Emerico Giachery, La vita e lo sguardo, [Roma], Fermenti (Nuovi Fermenti / Saggistica), 2011, pagine 242, in Literary.it, 11 (2001).

 

Copertina, Giachery, La vita e lo sguardo

 In copertina:  Guardando l’Adriatico,  olio su tela, di Sergio Ceccotti

 

 

Testo della recensione

L’opera, già pubblicata nel 2007 ed ora riproposta dall’Editrice Fermenti – la quale, in tal modo, rende di nuovo attuale un intenso scritto dell’insigne italianista Emerico Giachery -, è imponente per la molteplicità del contenuto, dato che raccoglie e convoglia, di fatto, “variazioni” (p. 18) innumerevoli su uno specifico tema: variazioni di cui egregiamente Paolo Carlucci, da cui cito (Transiti di luce. Radure di memoria. Un viatico di poetica di E. Giachery, in Literary.it., 10/2011) ha già illuminato la ricchezza e illustrato le modulazioni – ricchezza attinta dall’Autore “al proprio bosco di letture e ad una lunga stagione di fertili interpretazioni di poeti italiani e stranieri”. Si tratta infatti di un’opera che sta tra il saggistico e il memorialistico, quasi un’autobiografia del pensiero e delle visitazioni letterarie ed artistiche.

Il filo conduttore di tutto il materiale filosofico e narrativo consiste nella riflessione sulla poesia, “intesa principalmente come ritmo del sublime, limpida consapevolezza del bene della bellezza”, per esprimermi ancora con Paolo Carlucci.

Vorrei quindi iniziare la mia considerazione sul presente libro partendo dal concetto del “vivere poeticamente”, con il quale del resto si apre il volume.

“Vivere poeticamente” non solo non vuol dire, ovviamente, semplicemente scrivere testi poetici; non significa neppure condurre una vita estetica, per intenderci dannunzianamente – quello dannunziano è, per l’appunto, un vivere esteticamente. “Vivere poeticamente”, nella concezione dell’Autore, innanzitutto comporta guardare la vita con cuore puro, guardare la natura con occhi chiari e vuol dire, in sintesi, vivere “francescanamente”, per dirla con l’Autore. Bisogna quindi intendersi, con questo concetto. “Francescanamente” non significa sentire il mondo con epidermica o con estemporanea baldanza, con superficiale leggerezza. Significa invece – e qui prendo ancora in prestito una esemplificazione dell’Autore – entrare in contatto con il mondo con lo spirito creativo del puer aeternus. Il fanciullo, pascolianamente, purifica il mondo, perché egli stesso è puro, cioè semplice. Vede le cose per come esse semplicemente sono, nella loro natura, nella loro intimità, nella loro esistenzialità ed essenzialità, e non nella loro funzionalità, cioè nella loro sfruttabilità a servizio degli interessi antropocentrici di aggressione economicistica.

Da questo concetto prende le mosse il presente libro, appunto, quasi a stabilire un punto di partenza non soltanto materiale e fisico – il rapporto dell’uomo con la Terra (“Abitare poeticamente la terra” è il titolo del primo sottotitolo della Parte Prima del libro stesso) -, ma anche mentale e psicologico, poiché indica lo spirito con cui guardare a tutti gli oggetti del mondo e a tutti gli aspetti della vita, dell’esistenza e della stessa società. Con questo approccio, in effetti, l’Autore accosta il tema della “casa” al tema della “pietas”, del rispetto della natura: tutto è visto, come accennavo prima, con occhio non già antropocentrico – che è, in fondo, economicistico -, ma con spirito animocentrico, per indicare quello sguardo interiore con il quale l’uomo si affranca dall’interesse egoico e si affianca alla coscienza universale che anima tutte le cose – e qui l’Autore, acutamente, non manca di riandare al Cantico delle Creature, o Cantico di frate sole, di Francesco d’Assisi (p. 24) o alle parole di Zosima de I fratelli Karamazov (p. 25).

Da tali riferimenti si comprende anche come il senso di “poeticamente” rimandi all’esperienza della pietas nel significato profondo di disponibilità mentale e cordiale al contatto – o bacio – con l’anima mundi, e più concretamente di apertura dell’animo alla gratitudine verso l’essere e verso il prossimo, alla “cortesia e nobiltà d’animo” (p. 38), all’accoglimento dentro di sé, insomma, della natura e dell’uomo, di ogni parte della natura e di ogni individuo della specie umana. Ed una delle più potenti forze “poetiche” è l’eros, l’amore. Intendiamoci: l’eros, quella specifica sensazione collegata al sesso è molto di più che riproduzione biologica; è anche estasi sensoriale, è anche beatitudine vitale, è anche comunicazione con se stesso e con gli altri – il che, a sua volta, è tutt’altro che mero atto procreativo. Tuttavia, l’eros più in generale, nel significato più globale e “culturale”, è quello che ci fa piangere quando vediamo un bimbo che soffre, che ci fa tremare quando vediamo un bimbo che cade, che ci fa sognare quando ci viene in mente un’idea nuova e innovativa, che ci fa scrivere anche quando non vediamo quale utile esso ci possa portare (p. 54).

Nella sua carica inesauribile di uomo di scrittura e di uomo di pensiero, l’Autore tocca poi innumerevoli spunti di riflessione, ma anche di narrazione, soprattutto autobiografica – quasi riportandosi e riportando i lettori, attraverso il proprio percorso di vita, entro i solchi dei poeti e degli artisti -, in un succedersi avvincente – non necessariamente concatenato – di riflessioni e di indicazioni meditative che è impossibile tentare qui di registrare. Ma a me piace continuare il discorso nella scia dell’idea iniziale, segnalando un’osservazione strettamente collegata a quell’inizio: il concetto di donna come essenzialità dell’universo nella dimensione del femminile non solo in quanto fisicità, ma anche in quanto “leggerezza” d’essere e in quanto “luce”. La femminilità – quella che si sostanzia nella “gentilezza” di dantesca memoria stilnovistica – porta con sé la liberazione dall’angoscia dell’esistere – la pesantezza del vivere! -, quindi porta la luce della bellezza del mondo e della bellezza dell’animo – nella simbiosi tra il bello e il buono, il kalòs e l’agathòs, in cui si ripresenta, quindi, quell’atteggiamento di pietas cui s’è accennato. Che cosa, dunque, più coerente con la dimensione poetica del vivere, se non, appunto, questa imago di tenerezza e di accoglimento (si veda Luce di cortesia, musica di tenerezza, pp. 211-215), di congiungimento e di premura che segue la vita umana, passo dopo passo, come fa la luna – simbolo femminile – di leopardiana memoria?

Proprio su questo registro della cortesia – che “suona quasi sempre in Dante nel senso della nostra bontà” (p. 211, con citazione di Aldo Vallone) – voglio concludere questo mio intervento sul presente libro di Emerico Giachery, su cui del resto si chiude il libro stesso.

In quanto indicata come “regina delle virtù” dalla religione di Bahà’u’llàh, la cortesia mi fa venire in mente la povertà secondo Francesco d’Assisi – povertà che non ha a che vedere con la povertà giuridica e fittizia dei frati francescani. Francesco d’Assisi, se pur non definiva “regina di tutte le virtù” la povertà – così da lui era definita, invece, la “sapienza”, nella Lode delle virtù -, tuttavia la indicava come fondamento della propria vita e della propria “famiglia” (almeno, così egli avrebbe voluto). Ma appunto bisogna approfondire il senso di povertà, secondo la concezione di Francesco d’Assisi. Per costui la povertà era, sì, penuria di beni materiali; ma ciò era valido, qualora l’animo vivesse altrove, rispetto ai beni materiali, vivesse, cioè, sia nella prossimità fisica con il disgraziato – e qui rimando alle riflessioni di Giachery in vari passi del libro –, sia in contiguità esistenziale con l’universalità delle cose, cioè in fraternità con gli esseri animati e anche non animati, con una tale “cortesia” (per rifarmi al concetto di Giachery), che egli aveva cura di non calpestare i vermi che strisciano per terra, di non soffocare il fuoco che si era accidentalmente appiccato alle sue brache, addirittura a non scacciare i topi che lo tormentavano morente, steso sulla terra nuda. Questa “cortesia”, che accompagna il senso della fraternità tra tutti gli esseri, è, appunto con il sentimento della fraternità universale, esattamente la premessa e la condizione per accostare la pulcritudine dell’universo – su cui ritorna Giachery alla fine dell’opera – e che, in fondo, costituisce lo specifico della poesia come vissuto esistenziale. [Francesco di Ciaccia]

 

 

 

 

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