1982, SF, Madonna Povertà

“Madonna Povertà” e Francesco d’Assisi nel canto XI del Paradiso, «Studi Francescani», 1-2 (1982) pp. 137-142; poi Literary.it (2016).

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“Madonna Povertà” e Francesco d’Assisi nel canto XI del Paradiso

Il canto XI del Paradiso inizia con una denuncia del Poeta, il quale, «suso in ciclo – Cotanto glorïosamente accolto» (vv. 11-12), inveisce contro alcuni mali dei «mortali» (v. 1). Dante, in verità, non lesina mai invettive; ma, qui, l’andamento stilistico e il tono generale, così come i singoli termini, hanno un qualcosa di pacato. Se questo risponde da una parte alla condizione paradisiaca, dall’altra è in contrasto con il testo cui sembra ispirarsi l’Autore, e cioè con l’Arbor vitae, V, l, di Ubertino da Casale: «[…] vivevano – dice egli simbolicamente ma duramente, riferendosi agli uomini del tempo – giumenti di lascivia, rettili di avarizia, bestie di superbia […], turba ipocrita dell’eretica empietà».

Ma la pacatezza dell’Alighieri non sembra essere casuale, né determinata soltanto dalla felicità del cielo; sembra che l’Autore abbia in mente un modello cui la sua ispirazione poetica e la sua intuizione lirica si conformi. E in effetti, Dante sapeva che la modalità rivoluzionaria di quel protagonista, di cui stava per parlare, non passava attraverso la polemica, ma attraverso il sacrificio di se stesso, l’esemplarità della propria dedizione; Francesco non aveva mai puntato il dito contro gli altri, ma aveva mostrato Gesù, e Gesù crocifisso, nei propri costumi. Il suo essere «segno di contraddizione» era stato sempre avvalorato dall’atteggiamento di una reale imitazione del Cristo, come Francesco raccomandava anche agli altri, perché il vero discepolo di Gesù è più «madre» delle anime, e quindi in certo senso di Gesù stesso, che giudice: «Siamo madri sue (di Gesù) quando lo portiamo nel cuore e nel nostro corpo […], e lo generiamo attraverso sante opere che devono risplendere agli altri in esempio»[1]. Il «biasimo» di «tutti i malvagi» è operato, secondo un’interpretazione di Ezechiele 3, 18-20, semplicemente, e veramente, dalla «luminosità dell’esempio e santità in se stesso»[2].

Ma ci sono anche elementi più specifici che ci fanno supporre un riferimento preciso nella mente dell’Alighieri. L’Autore stigmatizza, fin dall’inizio, le preoccupazioni fallaci («insensata cura», v. 1) e i ragionamenti sbagliati («difettosi […] sillogismi», v. 2) che portano in «basso» l’animo umano. Presentando un quadro delle preoccupazioni da cui l’uomo contemporaneo è preso, delle occupazioni in cui l’umanità si immerge, cioè attività redditizie e superbe, esercizio di potere ottenuto e praticato con la violenza ed il raggiro, l’Alighieri sembra aver presente la vita e l’insegnamento del protagonista del canto. A parte alcune coincidenze lessicali, è tutta la vita di un «poverello» che appare intenzionata in questo prologo, in cui è tracciata la prassi e la dimensione mentale contraddittoria rispetto a quella vita. Alcune identità semantiche si possono tuttavia anche notare: con il termine «cura» e preoccupazione, Francesco d’Assisi indicava ai suoi frati ciò, da cui diligentemente si dovevano guardare[3]; lo stesso segno è usato da Francesco rivolgendosi a tutti gli uomini[4], mentre ai governanti avvertiva di «non dimenticare il Signore» nonostante le loro necessarie «cure e preoccupazioni» temporali[5]. L’Alighieri poi menziona il «diletto della carne», indubbiamente con una dipendenza letteraria molto antica e diffusa; ma l’uso del termine non può non essere posto in contrapposizione significativa con la classica e altrettanto diffusa espressione francescana del «diletto» rapportato al «bene» così grande dell’amore divino da rendere positivo il negativo della «pena»[6]. Appare dunque in Dante una intenzione, in questa denuncia, che focalizza un ben preciso opposto, così come, ancora, nella menzione dell’«ozio», da cui tanto il Santo d’Assisi aveva raccomandato di tenersi lontano[7].

Ma oltre a ciò, notiamo un altro elemento specifico. L’Autore indica, tra le cure insensate dei mortali, il seguire il «sacerdozio». Ora, se la condanna dei «mali» precedenti potrebbe risultare, di primo acchito, un’elencazione di passioni proposte in maniera generica, il riferimento al sacerdozio non è spiegabile soltanto, e meno degli altri, dalla identificazione quasi generalizzata fra ministero sacerdotale e beneficio economico, e in qualche caso sociale. È vero che Dante non perde un’occasione per criticare l’immoralità, la degenerazione e l’avidità del clero secolare e dei religiosi[8]; ma è anche vero che, in questa introduzione, l’Autore parla di «sacerdozio» tout–court e, di per sé, senza connotare alcun rapporto negativo. Ora, non si spiegherebbe questo inserimento fra le vanità, o quanto meno fra le dissipazioni umane, del sacerdozio – in quanto tale, oggetto di grande venerazione, del resto, nella società medioevale –, se non in riferimento ad .una scelta del protagonista del canto, strana quanto significativa. San Francesco non aveva rinunciato al sacerdozio per disdegno e, in fondo, neppure perché si sentisse così indegno; ma perché si sentiva indegno del sacerdozio, una volta posto questo come esigenza altissima di santità. Ora, la denuncia di Dante nei confronti di chi seguiva il sacerdozio ha il senso, se vale quanto abbiamo rilevato, di denuncia della mancanza di perfezione nel clero; e questo soprattutto nella direzione spirituale di colui che aveva rinunciato ad esso, cioè nella direzione della povertà, intesa come «sorella» dell’umiltà e principio, con la «sapienza », di tutte le «virtù»[9]. Infine, si potrebbe aggiungere che il verbo «involto» (nella carne) rimanda ad un’altra parola, dal significato morale opposto ai «diletti» o piaceri: il «panno» con cui il protagonista del canto era arrivato a coprirsi, in sostituzione delle vesti «delicate», e non solo per povertà, ma per tutto ciò che era diventato, in Francesco, corredo della povertà medesima: dall’umiltà alla castità.

La biografia dantesca di san Francesco si snoda all’inizio in un racconto allegorico, che ricorda normativamente il Sacrum commercium santi Francisci cum domina paupertate, ma soprattutto la caratterizzazione etico-religiosa di questa «madonna» come «regina» e «fondamento e custode di ogni virtù»[10]. L’allegoria ricalca in parte la poetica dell’amor «cortese», ma con differenze d’eccezione. Un giovanetto, innamorato come un cavaliere, corre dietro ad una donna, e per lei egli «in guerra – del padre corse» (vv. 58-59). L’innamorato comunque non ha nessun rivale; nessuno la vuole, ella è fuggita come la «morte», cui «a porta del piacer nessun disserra» (v. 60). E l’unico ostacolo che sembra incontrare il «giovinetto» è proprio quello dell’indesiderabilità della donna medesima. Nel Sacrum commercium[11] questa «madonna» era stata vista, sì, in compagnia di qualcuno che ogni tanto la ambiva, ma il più delle volte era stata ritrovata abbandonata, «sola e ignuda […], senza compagni che le facessero onore».

Al contrario, nel corteggiamento da parte di questo giovane c’è tanto di affettuosità e ammirazione, che ricorda la passione reverenziale di fronte alle «madonne» del dolcestilnovo. Tale forte amorevolezza è evidenziata nella Commedia dall’andamento lirico e quasi sublime dei versi. L’incontro, poi, è appassionato, e dall’Autore è espresso con solenne riserbo e con pregnante concisione («le si fece unito», v. 62); la comunione di vita è tra le più belle e intime, soffuse di mistero graziosissimo, della poesia stilnovista; e, stilisticamente, ha l’aria dei versi gravemente più insondabili, riguardo all’amore, della Divina Commedia: «Poscia di dì in dì l’amò più forte» (v. 63). Non solo, dunque, la «lor concordia», ma la gioia anche dei «lor sembianti» (v. 76), 1’«amore» (v. 77), i dolci occhi, gli effetti infine di tutto ciò, cioè i «pensier santi», fanno di questo incontro nuziale uno degli esempi più delicati della poesia dantesca. I «dubbiosi desiri» del canto passionale dell’Inferno non sono senz’altro più tenaci di questi desideri, e l’accenno al «disiato riso» di colui «che mai da me non fia diviso» non è più potente e delicato di questo amorevole «sguardo» del canto XI.

Da qui, il rapporto di contrapposizione con i versi iniziali del canto: universalmente, gente che si appassiona; qui, un singolo giovane che si appassiona anche lui. Ma in un orizzonte di amore diverso. Lo strano giovane si innamora della «Povertà» (v. 74). Costei, ormai «vedova», dice Dante seguendo Ubertino da Casale[12], non ha più signoria, non è più «donna». È quasi serva o, peggio, è una sconosciuta, «dispetta e scura» (v. 65). Eppure, ella aveva seguito così fedelmente il suo «primo marito» (v. 64), da distendersi con lui sul letto di morte, che d’altronde era stato anche il luogo della redenzione e della vittoria di Dio sul suo nemico; cioè fino al punto in cui Maria, pur così esaltata dal Medioevo e da Dante stesso, era riconosciuta incapace di arrivare. L’ardito enunciato della maggiore costanza e fierezza della Povertà rispetto alla Madre di Dio ha echi derivanti dall’Arbor vitae e dal Sacrum commercium[13], ma con una incisività tutta dantesca.

La riflessione teorica, corredata di esempi storici, dei versi 67-70, rimanda alla mentalità medioevale di coinvolgere nel discorso etico–religioso anche figure pagane. Ma occorre riflettere sulla scelta del personaggio compiuta da Dante: Amiclate. Ma forse, la scelta non cade sul pescatore povero in quanto tale, ma sul povero che non si lascia scomporre e atterrire da chi «a tutto il mondo fe’ paura» (v. 69). Con questa figura, è intesa la forza liberante della povertà, che non solo è scevra da «preoccupazioni e ansietà»[14], non avendo i poveri «nulla da perdere», ma rende gli uomini, da veri seguaci di Gesù, forti di fronte ai potenti.

Poi l’Autore cede all’impeto d’amore quando ricorda i frati che si liberano di tutto (vv. 79-84). E non è solo questione di calzari: la iterazione lessicale comporta qui una estensione concettuale a tutto ciò che si possiede, ed una comprensione della natura stessa della povertà. Di fronte a questo fatto incomprensibile agli occhi dei «mortali», ma estremamente necessario, Dante esclama compiaciuto ma al contempo costernato per la cecità generale: «sì la sposa piace» (v. 84). Dietro tutta la storia delle origini del francescanesimo, narrata dai biografi, c’è la convinzione di Dante della grandezza misconosciuta della povertà; convinzione emergente dalla forza così stringente del lirismo, la cui vivezza non è data tanto dalle figure retoriche usate, quanto dall’afflato d’amor cortese di quel «dietro a lo sposo» cui corrisponde il «piacer» che tale «sposa» infonde.

La biografia del «Poverello», sintetica ed efficace secondo lo stile narrativo di Dante, è tutta interna alla categoria spirituale della povertà. Francesco è un «sole», come già aveva detto Tommaso da Celano, «nella Chiesa di Cristo»[15]: simbolo ripreso da san Bonaventura[16]. Ma, in Dante, il simbolo è collegato direttamente a quello dell’«Oriente», tipico delle Laudes che lo applicavano alla Madonna, e al «Gange», o l’oriente del mondo.

Anche il titolo di «padre» è degli stessi biografi francescani[17]; Dante lo pone in stretto rapporto, insieme a «maestro», con 1’«umile capestro» (v. 87), come segno di opposizione alla cintura dei borghesi, che ad essa appendevano la borsa delle monete, segno e strumento di potere economico e, spesso, di superbia. Francesco, inoltre, è «maestro»; lo è in senso generale, secondo il senso attribuitogli dai biografi. Ma lo è specificamente quanto ad un atteggiamento peculiare: non attribuire alcun valore ai rispetti umani («Per esser fi’ di Pietro Bernardone, – Né per parer dispetto a meraviglia», vv. 89-90), non cercare alcun vantaggio, compreso quello, cui sembravano tenere alcuni asceti e «spirituali», di crearsi un seguito facendo volutamente colpo sulla gente. Egli è, semplicemente, innamorato, quindi semplice ed umile.

In altre parole, Francesco è 1’«archimandrita» di «gente poverella» (v. 94) non solo materialmente, ma anche nel cuore. Egli confida (cfr. v. 92) il suo proposito all’autorità, con decisione ma senza alcuna presunzione di sé. L’attributo «dura» (v. 91), che specifica l’intenzione, si riferisce all’oggetto del programma di vita, ma anche alla forma della volontà di Francesco. Dante vuole però sottolineare la differenza fra la mentalità francescana, che si fonda sulla povertà di sé e quindi sulla disponibilità nei confronti dei superiori gerarchici (e, per Francesco, giustamente, fra i «superiori» rientrava anche 1’«ultimo dei novizi», superando così egli stesso l’idea puramente formale e giuridica dell’obbedienza!), e la mentalità di tanti sedicenti spirituali, i quali avevano costruito e costruivano l’edificio della povertà sulla sicurezza di sé. L’ammirazione di Dante nei confronti di Francesco, anche sotto questo specifico riguardo, è tanto più rimarcabile in quanto l’Autore nutriva forti tendenze per l’ideologia rinnovatrice nella Chiesa, sia sul piano morale sia sul piano politico. Dante non transige quando sono in causa principi, e non esita mai a denunciare il potere temporale della Chiesa (per lui contraddittorio sia a causa della natura della Chiesa sia a causa della potestà imperiale). Ma anche la sottomissione all’autorità papale è un principio assoluto, e Dante sapeva bene che Francesco aveva sostenuto che bisogna obbedire ai chierici indipendentemente dalla loro onestà personale[18]. L’importante è essere contraddizione vivente di quella indegnità.

Francesco, infine, è il custode di madonna Povertà: lasciò ai suoi discepoli «la sua donna più cara, – e comandò che l’amassero a fede» (vv. 113-114). È impensabile che Dante non conoscesse quei canti di innamorato della povertà, che sono la Regola e il Testamento di Francesco, ed è leggibile fra le righe che Dante voleva ricordare ai francescani che quella povertà era possibile; anzi, possibile e necessaria, perché garanzia di autentica carità per i predicatori e gli apostoli è esser poveri, nelle cose e nel cuore. Come diceva lo stesso san Francesco in senso generale, «la santa povertà confonde ogni cupidigia e avarizia e le cure di questo mondo»[19]; ma non bisogna dimenticare, più specificamente, che la scelta della povertà coincise, per Francesco, con l’intuizione della vita «apostolica» secondo Matteo 10, 9-10. Questa caratteristica essenziale dei ministri di Cristo è in effetti ricordata e recuperata dagli scrittori francescani, come nel Sacrum commercium, che cita a buon diritto Atti 3, 6, intorno al modo di vivere degli Apostoli sull’esempio del divino Maestro[20].  Francesco di Ciaccia

[1] Lettera A tutti i fedeli, IX, 53, in Fonti Francescane, Assisi 1978, come i testi seguenti.

[2] Speculum perfectionis, 53.

[3] «si guardino […] dalle cure e dalle preoccupazioni di questo mondo», Regola bollata (1223), X, 8.

[4] Lettera A tutti i fedeli, X, 65.

[5] Lettera Ai reggitori dei popoli, 4.

[6] «Tanto è il bene ch’io m’aspetto, che ogni pena m’è diletto», in Considerazioni sulle stimmate, l.

[7] Regola non bollata (1221), VII, che cita Gerolamo, Ep. 125, 11.

[8] Es., in Paradiso, XXI, 130·135, Dante deplora le alte gerarchie per le comodità in cui esse vivono.

[9] Lodi delle virtù, 1-2.

[10] Cfr. l e 16.

[11] Cap. 9.

[12] Arbor vitae, V, l, che cita Lamenti, I, 1-2.

[13] Cfr. C. Paolazzi, in Fonti Frencescane, 1731.

[14] Legenda maior, IV, 7.

[15] Vita prima, VIII, 111.

[16] La tradizione è fondata sui pensieri espressi da Gregorio IX sulla figura di san Francesco.

[17] In particolare, la Legenda maior lo chiama «pio padre» (I1I, 7). Lo Speculum perfectionis, 87, fa dire ai discepoli di Francesco di essere stati «generati in Cristo» da lui.

[18] Lettera A tutti i fedeli, VI; Lettera Al Capitolo generale e a tutti i frati, II.

[19] Lodi delle virtù, 11.

[20] Tutto quest’insieme di riflessioni, con comprensibili punti di contatto anche letterali, ma con varianti e con intendimenti diversi, lo abbiamo già espresso in Frate Francesco 49 (1982), 21-26 e ne L’Italia Francescana 57 (1982), 51-56.

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