1983, “Idea”, Francesco e Domenico

Francesco e Domenico: le due “colonne” secondo Caterina da Siena, «Idea», 3 (1983) 63-72; ; poi Literay.it [2016].

Titolo e Testo dell’articolo

Francesco e Domenico: le due “colonne” secondo Caterina da Siena

Ne Il Dialogo[1], Caterina parla dei «fondatori degli Ordini» nel capitolo (CLIV) dedicato all’«Obbedienza», la quale è insegnata nella sua forma esemplare dal «dolce e amoroso Verbo»[2], ed è contraddetta dalla «superbia […] prodotta da l’amore proprio». Visto che l’obbedienza è generata dallo zelo per «l’onor mio» (del Padre) e per la «salute vostra»[3], cioè dalla «fedeltà» al volere divino, e che essa è essenzialmente un «amore di carità» da cui è «conceputa e partorita», appare logica la successiva assimilazione fondamentale, storicamente e spiritualmente, dei carismi di Francesco e di Domenico (è degno di nota che Caterina parli, prima, di Francesco) nell’ordinamento della Provvidenza, del quale autore è lo stesso Spirito Santo, «padrone»[4] della Chiesa. Sempre al livello di identificazione dei carismi, Caterina introduce il rilievo che «segno (dell’obbedienza) […] è la pazienza»[5], la sua fonte «unde procede è l’umiltà», e che per l’obbedienza l’uomo non concepisce «odio […], però che vuole obedire, ché sa che gli è comandato che perdoni; non à pena che l’appetito suo non sia pieno, perché l’obbedienza l’à fatto ordinare a desiderare solamente: me (Dio) […]: àllo spogliato delle mondane allegrezze»[6]. Di Francesco, Bonaventura dice che, «affrancato (dai) desideri mondani» fino a diventarne «totalmente insensibile», egli «ardeva di amore […] verso Dio»[7].

Se la dottrina cateriniana appartiene alla più diffusa tradizione teologica e mistica, le sue puntualizzazioni non sfuggono ad un riferimento di esemplarità biografica a lei prossima. L’amore libero «e non ficto» per le creature, afferma la Senese, assicura sia la «libertà (da ogni) signoria», sia il desiderio perfetto di legarsi «nella santa religione» in maniera più «corta» per non legarsi «fuori della religione ad alcuna creatura»[8]: la stessa concezione Domenico sapeva felicemente proporre ai suoi frati, e Francesco indicò ad esempio nel noto episodio dei «pupazzi di neve». Sembra in effetti giustificata la particolare ampiezza con cui Caterina presenta la «navicella dell’ordine» francescano se crediamo presente la vita dell’Assisiate nella mente della scrittrice[9].

Con una chiamata di stampo più «cavalleresco»[10], il primo comando di Gesù Crocifisso fu, per Francesco: «Va’, e ripara la mia casa, che, come vedi, va tutta in rovina». Il chiamato rispose con tale immediatezza da equivocare sul comando medesimo; ma non fu solo questione di euforia[11] e di proiezione del proprio desiderio, se Francesco andò a restaurare gli edifici e se rispose entusiasticamente alla proposta del «cavalierato». In realtà, l’ipotesi del risanamento della Chiesa non gli passò per la testa neppure come scherzo. Anche Domenico fu, benché diversamente in quanto appartenente già al clero, per così dire costretto ad impegnarsi tutto per la ricostruzione della Chiesa, «in quel memorando incontro» a Montpellier[12]. Ma la stupefacente umiltà, che Caterina collega intimamente al portare «ogni fatiga e detrazione del prossimo»[13], rispecchia incredibilmente la situazione tipica, e ormai paradigmatica al tempo della Senese, dell’Assisiate appena dopo la conversione.

Il miracolo della fedeltà

Francesco, con sforzi anche fisici, ripara le chiese sotto gli occhi divertiti o sprezzanti della gente, e, come non si è vergognato di stupire denudandosi di fronte alla Curia giudicatrice, così ora non desiste. Ma qui ricordiamo solo un episodio: «Un giorno andava per le vie d’Assisi mendicando olio per le lampade di San Damiano», vide davanti a una porta un gruppo di ex amici «che giocava», si vergognò, «si ritirò», tornò indietro: era il miracolo della «fedeltà»: «quasi inebriato di spirito, chiede in lingua francese l’olio», che era per lui la lingua della letizia[14]. Dice Caterina: ella perdeva «ogni timore nelle persecuzioni del mondo […]. E cresceva forte il fuoco del santo desiderio, in tanto che non stava (quell’anima) contenta, ma con sincerità santa dimandava per tutto quanto il mondo». Se non fosse ricalcato su lei stessa, questo scorcio spirituale di Caterina sembra dipingere le prime mosse di Francesco, dall’umiliazione per amore all’amore per gli umiliati, gli uomini, fino al culmine del famoso «perdono», con analogie testuali sorprendenti[15].

La subordinazione essenziale della fatica fisica, e dell’umiliazione, all’«amore», operata da Francesco già in questo primo incontro con il divino (benché in modo meno chiaro rispetto allo sviluppo successivo), è la medesima della dottrina cateriniana e della prassi di san Domenico. Con una decisività anch’essa rivoluzionaria, Caterina ripropone dalle fondamenta la dottrina evangelica: «Voglio che l’operazioni […], i quali sono corporali, sieno posti per istrumento e non per principale affetto»[16]: mortificare il corpo e uccidere la propria volontà – che è il messaggio cateriniano – non è riferibile a masochistiche contorsioni psichiche, ma alla radicale «fedeltà» al «suo Signore». Significativo al riguardo è l’episodio di Domenico[17]: Domenico ed il vescovo di Fanjeaux, percorrendo una strada ignota, hanno bisogno di una guida; si presenta loro un uomo, che li conduce appositamente in sentieri spinosi; Domenico, scalzo, sanguinante, alla fine esclama, felice: «Abbiamo motivo di riprometterci la vittoria […]». Preso in giro e maltrattato, egli guarda alla missione ricevuta, e perciò «riceve le ingiurie come un dono e una grande ricompensa»[18].

Se Domenico non manifesta, nel complesso, la «giullarità» di Francesco, di cui al riguardo un esempio è la simpatica imposizione perché frate Leone lo ingiuri[19] – una trovata meravigliosa nella sua semplicità e stranezza, perché esprime un sentimento di gioia e non di angoscioso autolesionismo -, è anche vero che lo stesso Domenico, tra Carcassonne e Tolosa, preferisce predicare a Carcassonne, perché lì gli sono «tutti ostili», mentre a Tolosa la gente lo «riverisce»[20]. Domenico fu razionale e metodico, ma mostrò di saper cantare anche lui nelle ingiurie ed affronti che, come nota il Vicaire, gli si presentavano spontaneamente in un’epoca e in un territorio tormentati dall’eresia, a volte fanatica. Alla domanda «cinica» dei feudatari mandanti di un agguato: «Perché non hai avuto paura di morire», Domenico risponde, quasi inebriato, che ne sarebbe stato, al contrario, ben lieto: per la «corona del martirio», egli spiega. Noi non crediamo però a questo puro calcolo, encomiabile ma, se non inserito nella dinamica interiore che vedremo, un po’ presuntuoso.

E in effetti altra volta egli aveva dichiarato di «non esser degno della gloria del martirio»[21]. Ciò dimostra allora che l’allegrezza confidente di Domenico non è per presunzione di sé – presunzione che del resto è tradita da atteggiamenti sprezzanti -, ma per consapevolezza del proprio limite, cioè per la coscienza che la fedeltà è possibile solo perché, per primo, è Dio fedele all’uomo. Caterina sottende ciò quando scrive che le «prove », la «pena forza e violenza che fanno (gli uomini) a loro medesimi» sono ordinate perché «(io, Dio) abbi di che remunerarli»; la stessa coscienza è a fondamento della famosa «attesa» di Francesco indicata nella frase: «Tanto è il bene ch’io aspetto, che ogni pena m’è diletto», e nell’altra: «io devo godere molto per le mie infermità e tribolazioni […] per la grazia così grande a me concessa […]». L’«afflizione», dicono i Fioretti, riportando la «voce di Dio», è «arra» del «tesoro beato»[22], perché garante è appunto Dio della propria volontà di bene, e non l’uomo, il quale non può né assicurare la propria indefettibilità, e quindi vantarla, né fondare la fedeltà di Dio, e quindi esigerla. In fin dei conti, dunque, l’ilare fiducia delle due »colonne» poggia sulla coscienza come «conoscimento di sé», per esprimerci con Caterina[23]. Lo insinua, ancora, Francesco, quando si domanda: «chi se’ tu […]? Che sono io, vilissimo vermine e disutile tuo servo?», e lo dichiara Caterina: «Dissiti e dico che ella (l’anima) vi giogne […], serrandosi nella casa del cognoscimento di sé, il quale vuole essere condito col cognoscimento di me (di Dio), acciò che non venga in confusione»[24], quindi in un contesto teologale di «speranza».

Fame delle anime

Esemplare è il testo seguente: «Servire non è senza speranza, però che ‘l servo che serve, serve con esperanza che egli à di piacere al Signore, o serve per la speranza che à nel prezzo e utilità che se ne vede trarre»[25]. All’«amor proprio […] unde procede ogni male»[26] si contrappone il «vedere il mio (divino) onore», il che appunto comporta 1’«amore a volere sostenere con vera pazienza»[27]. Da questa base comune si sviluppa in Francesco e in Domenico l’identica «fame della salute dell’anime con ogni sollecitudine», per «fare misericordia a l’uomo», come dice Caterina. E, su questo piano, con tutte le conseguenze storico-religiose, si concentra 1’«unità» delle due «colonne», sulla quale si focalizza la tradizione storico-agiografica. Così Sisto V, per esempio – tralasciamo l’Alighieri per il motivo dichiarato in nota -, ripresentando la specificità nella «caritatis pinguedine» dell’uno e nella «scientiae suae luce» dell’altro, parla insieme dei due Fondatori come «[…] duas olivas et duo candelabra in domo Dei lucentia»[28]: tradizione che, in sintesi, recentemente ha riproposto Henri de Lubac. Tuttavia, su questo vastissimo tema degno di una trattazione specifica, ricordiamo qui soltanto due frasi coincidenti: «la sete di salvare le anime, e la misericordia», le due «passioni» individuate in Domenico nel processo di canonizzazione[29], e 1’«amore per la salvezza delle anime»[30], o, più precisamente, la «ricerca della salvezza delle anime con pietà appassionata»[31], indicata nell’Assisiate come spada che lo trafiggeva[32].

Come figure di idealità realizzata, che ispirano le granitiche caratterizzazioni cateriniane sull’amore[33] e in particolare sull’«apostolato» – in cui è ereditata esattamente l’immagine francescana, da Caterina espressamente ribadita nella sua rievocazione della figura dell’Assisiate -, del «tramezzatore» (che riconcilia «in pace con meco l’uomo») come «altro Cristo crocifisso»[34], Domenico e Francesco sono accostati in una incisiva frase: «Veramente (essi) sono stati due colonne nella santa Chiesa»[35]. Caterina non poteva ignorare il desiderio espresso da Domenico: «Frate Francesco, vorrei che il mio e il tuo diventassero un solo Ordine e che noi vivessimo nella Chiesa con la stessa Regola»[36]. A parte il problema della «regola», il lungo elogio cateriniano, confortato da episodi di francescano sapore, della povertà volontaria, in cui i seguaci «poverelli» «stanno (con tanta) allegrezza e giocondità»[37], si giustifica anche – è ovvio, non solamente – se si ricorda l’influenza dell’Assisiate sulla concezione di Domenico al riguardo, secondo le notizie dei Fioretti e di Pietro di Giovanni Olivi[38]. Inoltre, Caterina sa che Domenico non solo vestiva un unico «habitum vilissimum» sia d’estate che d’inverno, ed esigeva la povertà delle «case» e dei «paramenti sacri»[39], ma che era arrivato anche ad accusare un frate di «uccidere» i confratelli perché dava loro delle «pietanze»[40], e a rammaricarsi che a Bologna i frati costruivano «grandiosi palazzi»[41], e infine che la Regola, detta di Santo Stefano, cap. XIII, imponeva: «Mendichino elemosine in natura […] come gli altri poveri». Oltre le evidenti somiglianze con il costume francescano, è da segnalare un identico episodio circa le «case» accaduto a Francesco solo qualche mese prima di quello domenicano[42], nonostante alcune differenze pratiche.

Concordia e universalità

Se pertanto Caterina puntualizza le peculiarità dei due «ordini», o delle due «navicelle», per cui a «Francesco poverello fu propria la vera povertà, facendo il suo principio […] in essa povertà», e a Domenico «l’onore di me (Dio) e salute dell’anime col lume della scienza […] per estirpare gli errori […]»[43], è cosa di rilievo che la figura di Francesco sia tratteggiata con le esatte caratteristiche esposte in tutto il Dialogo, le quali, in palese identità con quelle domenicane, rivelano come il «contatto diretto col Vangelo di cui si facevano araldi i figli di Domenico e di Francesco spezzava finalmente gli angusti orizzonti degli interessi immediati, […] lo spirito di sètta e di campanilismo, immergendo le anime in un’atmosfera di concordia e di universalità»[44]. Del resto, occorre notare che la povertà francescana è indicata da Caterina, sì, nel suo aspetto anche per così dire economico, ma non senza una precisazione che rivela la più grande complessità e profondità, quale è realmente, degnamente inscrivibile nella globale sua dottrina sulla «Provvidenza»: «(il quale) aveva preso per sé medesimo (la povertà), abbracciando la viltà», in senso materiale ma anche spirituale, cioè di soggezione e di misericordia, esaltata dal Dialogo, recentemente messa in luce da Raoul Manselli[45].

Per quanto riguarda Domenico, la rappresentazione cateriniana non è tale da insistere sulle prerogative, intellettualisticamente, della «scienza», ma dell’apostolicità dell’«officio del Verbo unigenito». In effetti, «Domenico […] rappresentò indubbiamente il momento in cui la religione colta si accostava alla religione popolare»[46]. Domenico non solo insegnò a predicare innanzitutto con i sacrifici, «nell’abiezione di una volontaria povertà» (bolla di Onorio, 12 dicembre 1218), ma anche in vista del «popolo» (Costitutiones antique ordinis fratrum praedicatorum, XXXII, 1). Se «Francesco non aveva niente di uno spirito negativo, come neppure di uno spirito critico»[47], anche Domenico era orientato a proporre e convincere, invece che a contrastare con animo polemico, come in effetti dimostra la sua predicazione (di cui egli era un semplice «humilis minister»), e la sua conversazione in genere[48].

Infine, precisata l’intrinseca funzione, benché non primigenia, della povertà nella «navicella» domenicana, Caterina conclude il quadro con il noto brano della mediazione («col mezzo») di Maria[49]. L’immagine cateriniana di Francesco è sostanzialmente culminata nelle «piaghe» che lo hanno «confitto» alla croce. Ma l’insistenza, concettuale e lessicale, oltre che stilistica, sulla mediazione mariana fa inevitabilmente pensare proprio al ruolo attribuito da Francesco alla Madonna, su cui qui non posso indugiare[50].

Caterina, per concludere, non manifesta – e non solo come testimone contemporanea della situazione storica – il dubbio, da più parti poi invece dichiarato, sulla istituzionabilità del francescanesimo[51]: l’ordine minoritico. per quanto mortificato, in parte, rispetto alla prodigalità «giullare» del Fondatore, era reso capace di sovravvivere, con indiscutibile vitalità, ai secoli. Unendoli nelle vicissitudini, per cui i due Ordini dovettero ad esempio far fronte alle critiche delle antiche istituzioni[52], oltre che nella «provvidenza» e nell’affetto, Caterina anticipa, anche nelle sue critiche alla rilassatezza dei membri delle «navicelle», la preoccupazione dantesca del «recupero» storico dei due Ordini e del loro affiatamento originario, «la rivalità (dei quali), scrive uno storico, sulla terra era proverbiale»[53].

Francesco di Ciaccia

[1] Testo a cura di G. Cavallini, Il Dialogo della divina Provvidenza, ovvero Libro della Divina Dottrina, Roma 1968 (sigla Dialogo).

[2] Dialogo, p. 445.

[3] Ibidem, p. 444. Cit. successive, pp. 446 e 451.

[4] Ibidem, p. 456.

[5] Ibidem, pp. 445. Cit. successiva, p. 447.

[6] Ibidem, p. 451.

[7] Leggenda maggiore, II, 5 (in Fonti Francescane, Assisi 1978, tr. Sempliciano Olgiati, p. 848; sigla FF). Cit. successive, ibidem, IV, lez. I, in FF, p. 1037.

[8] Dialogo, p. 455. Per l’osservazione seguente, cfr. H. Vicaire, Storia di San Domenico, Alba 1959, tr. Angelo Ferrua, p. 502, e Bonaventura, Leggenda maggiore, V, 4.

[9] Escludiamo nel presente scritto ogni riferimento ai canti XI e XII del Paradiso, e tutto ciò che essi possono suggerire.

[10] “Francesco, chi ti può giovare di più; il signore o il servo […]” (Bonaventura, Leggenda maggiore, I, 3, in FF, p. 841), Jacopone (Lauda LXI) raccoglie la tradizione della visione delle «armi», narrata da Bonaventura (ibidem) e da Tommaso da Celano (Vita prima, 5). Al riguardo, osserva J. Joergensen che la risposta, “Sono l’araldo del Gran Re”, è subito diventata il «grido di guerra» e l’insegna del giovane Francesco, «per tutta la sua vita»: Saint François d’Assise. Sa vie et san oeuvre, ed. fran. Teodor de Wyzewa, Paris 1913, p. 87.

Per la cit. successiva, T. da Celano, Trattato dei miracoli, II, 2, in FF, tr. T. Lombardi e M. Maluguti, p. 739.

[11] Sul senso generale dell’euforia francescana e in particolare circa la «chiamata», cfr. il nostro art. sulla «festa in Francesco d’Assisi», in «Communio», XI, 64, Milano 1982, pp. 91-104.

[12] Così ebbe ad affermare Domenico stesso. Cfr. H. Vicaire, op. cit., p. 153.

[13] Dialogo, p. 448.

[14] T. da Celano. Vita seconda, 13, in FF. tr. V. Gamboso, p. 564. Circa il «francese», cfr. idem, ibidem, 127; Vita prima, 16; Bonaventura, op. cit., II, l, ecc.

[15] Per brevità, non segnaliamo le referenze degli episodi troppo noti. Per la cit. cateriniana, Dialogo, pp. 44s.

[16] Dialogo, p. 26. Per la frase, successiva, cfr. ibidem, p. 27.

[17] Cfr. Gerardo di Fachet, Vitae Fratrum Ordinis Praedicatorum necnon cronica Ordinis ab anno 1203 usque 1254, Lovanio 1896, II, 2.

[18] Processus Tholosiensis, n. 18, ed. A. Walz, in Mon. Ord. Fr. Praed. historica, XVI. Roma 1925, cit. da H. Vicaire, op. cit., p. 244. (Sigla MOPH).

[19] I Fioretti di San Francesco, cap. IX.

[20] Costantino d’Orvieto, Legenda S. Dominici, ed. Scheeben, in MOPH, XVI, Roma 1935, n. 62.

[21] Giordano di Sassonia, Libellus de principiis ordinis praedicutarum, ed. Scheeben, in MOPH, XVI, Roma 1935, n. 34.

[22] Rispettivamente, Dialogo, p. 390; I Fioretti di San Francesco, «Della prima considerazione delle sacre sante Istimate», in FF, p. 1578; Specchio di perfezione, 100, in FF, p. 1412; I Fioretti…, cap. XIX, in FF, 1497.

[23] Diffusamente in Dialogo, es. p. 27. Come la precedente, anche questa e le successive riflessioni seguono un criterio di estrema esemplificazione e non coinvolgono un diacono, ben più esigente, di teologia mistica.

[24] Rispettivamente, I Fioretti, «Della terza considerazione delle sacre sante Istimate», in FF, p. 1594, Dialogo, p. 161.

[25] Dialogo, p. 375. Sulla mia interpretazione del noto invito rivolto a Francesco sulla utilità di servire il «Padrone» piuttosto che il servo, cfr. il cit. art. sulla «festa in Francesco d’Assisi».

Acutamente Caterina dice che «i miei (di Dio) servi […] non m’amano d’amore mercenario per proprio diletto, ma cercano l’onore la gloria e loda del mio nome» (Dialogo, p. 414): l’atteggiamento psicologico di Francesco, anche prima della conversione stessa, escludeva, a nostro avvito, il proprio egoistico interesse.

[26] Dialogo, p. 45. L’«amor proprio» è caratterizzato come «fidarsi di sé e non sperare in me (Dio)»: da ciò «èscene ogni male» (Dialogo, p. 391).

[27] Dialogo, p. 48. Per la cit. successiva, ibidem, p. 49.

[28] Al Ministro Generale dell’O.F.M. (1588), poi ripreso da Leone XIII nel 1879. Cfr. H. de Lubac, La posterità spirituale di Gioacchino da Fiore. Dagli Spirituali a Schelling, I, tr. F. di Ciaccia, Milano 1981, p. 190, nota 141.

[29] Cfr. H. Vicaire, op. cit., p. 247.

[30] T. da Celano, Vita prima, p. 96, in FF, tr. A. Calufetti e F. Olgiati, p. 490.

[31] Bonaventura, Leggenda maggiore, VIII, 2, in FF, p. 900.

[32] Bonaventura, Leggenda minore, III, lez. VIII; VII, lez. I.

[33] Indicando la negazione di quello che è l’amore per Dio, ella dice che l’anima guidata dall’«amor proprio» «non à fortezza», perché «spera in sé e crede […] a sé medesima, fidasi delle creature e non di me […]; unde non può essere pietoso al prossimo suo» (Dialogo, pp. 388s).

[34] Per questa tipicità entrata nell’agiografia francescana, cfr. Jacopone da Todi, Lauda LXI, 58: «Cristo novo piagato», che richiama T. da Celano. Vita prima, 119: «Nelle sue stimmate è raffigurato Cristo […]», e F. Petrarca, De vita solitaria, I. II: «[…] straordinario segno delle sacre stimmate di Cristo […]», il cui valore è teorizzato da Bonaventura, De Triplici via, 3, 3, in Opera, t. 8, p. 14: «non c’è altra via verso Dio che l’amore ardentissimo del Crocifisso» (tr. mia). Per la rievocazione cateriniana della «crocifissione» dell’Assisiate, cfr. Dialogo, p. 459: «[…] col quale (Agnello) egli s’era confitto e chiavellato per affetto d’amore in su la croce; in tanto che; per singulare grazia, nel corpo suo apparvono le piaghe […], mostrando nel vasello del corpo […]».

[35] Dialogo, p. 463.

[36] T. da Celano, Vita seconda, 150, in FF, tr. S. Colombarini, p. 673. Cfr. Specchio di perfezione, 43.

[37] Dialogo, p. 433. Cfr. ibidem, pp. 425-440.

[38] Fioretti…, cap. XVIII. Per la dichiarazione di P. Olivi, cfr. FF, p. 2171. Per il testo cateriniano, cfr. Dialogo, p. 459, che, riprendendo quasi testualmente le parole di san Domenico riportate dai Fioretti, dice: «Anco (Domenico) l’ebbe (la povertà), e in segno che egli l’aveva e dispiacevagli il contrario, lassa per testamento a’ figlioli suoi per eredità la maledizione sua, se essi posseggono o tengono possessione veruna, in particolare e in generale, in segno che egli aveva eletta per sua sposa la reina della povertà». Si noti la ripresa di semantemi tipicamente francescani, resi celebri da Dante (cfr. il nostro art. “Madonna” povertà e Francesco nel canto IX del Paradiso, in «Studi Francescani», 79, Firenze 1982, n. 1-2, specialmente p. 139; sullo stesso argomento. cfr. nota 20, p. 142).

[39] Processus Bononiensis, in loc. cit., nn. 17, 27, 32, 38, 42, 47.

[40] Ibidem, n. 31.

[41] Ibidem, n. 38. Anche il Boccaccio, nel Decameron, giornata VII, novella III, ricorda unitamente la povertà di Francesco e di Domenico, i quali non portavano «quattro cappe per uno», non possedevano vestiti «di tintillani, né d’altri panni gentili, ma di lana grossa […]», e al fine soltanto di «cacciare il freddo e non ad apparire […]».

[42] Circa il tenore di vita francescano, identico, nei punti notati, a quello domenicano, non occorrono referenze. A parte il rimbrotto di Domenico a proposito delle «pietanze», che in Francesco è documentato a proposito del «toccare il denaro» (T. d. Celano, Vita seconda, 65), l’episodio di Francesco, con motivazione diversa per il differente contesto, del convento bolognese (T. da Celano, ibidem, 58), è in H. Vicaire, op. cit., p. 479, che cita anche il Gratien. Per la «casa» di Assisi presso la Porziuncola, episodio molto più simile a quello domenicano, cfr. T. da Celano, Vita seconda, 65: solo che Francesco, che si opponeva che fosse costruito qualunque edificio, desistette per l’intervento di terzi, mentre Domenico, per il convento «grandioso», si oppose per tutta la vita.

[43] Dialogo, p. 459.

[44] Per l’ipotesi di convergenze cateriniane con i concetti, o immagini di concetti francescani, si richiederebbe uno studio specifico. Per la cit., cfr. H. Vicaire, op. cit., p. 534.

[45] Per il Dialogo, p. 458. Per R. Manselli, cfr. San Francesco d’Assisi, Roma 1982, segnatamente pp. 45, 264s.

[46] R. Manselli, op. cit., p. 122.

[47] Cfr. J. Joergensen, op. cit., p. 130. Tr. mia dall’ed. fran. cit.

[48] Solo per fare una cit., cfr. H. Vicaire, op. cit., pp. 178, 246ss., 502ss., 534ss.

[49] Dialogo, p. 460.

[50] Cfr. il nostro art. Il “Saluto alla Vergine” e la pietà mariana di Francesco d’Assisi, in «Studi Francescani », 79, Firenze 1982, n. 1-2, pp. 55-64.

[51] Fra i critici recenti dell’istituzionabilità del francescanesirno, cfr. G. Faggin, Spiritualità medievale e moderna. Francesco d’Assisi. Maestro Eckhart. Il misticismo oggi, Vicenza 1978, p. 28. Per il pensiero successivo nel testo, cfr. Agostino Saba, Storia della Chiesa, vol. II, Torino 1940, pp. 434s. Anche questo problema, comunque, richiederebbe uno studio a parte.

[52] Cfr. L. Lemmens, Testimonia minore saeculi XlII de S. Francisco Assisiensi, Quaracchi, 1929, p. 18.

[53] R. Renucci, La cultura, in Storia d’Italia, II, 2, Torino 1974, p. 1146.

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