Calloni, Francesco, Turbamento ed estasi

San Francesco nell’arte, Introduzione a Francesco Calloni, Turbamento ed estasi. S. Francesco nell’arte, Bergamo, Velar, 1989, pp. 1-9; poi Servizio Speciale, Cam, 8 (1999).

 

Introduzione a Calloni

In copertina:

Testo della Introduzione

San Francesco nell’arte

Premessa

Nessun altro personaggio storico del Cristianesimo, a parte Gesù e la Madonna, è stato tanto rappresentato nell’arte quanto San Francesco d’Assisi. Sulla sua figura si potrebbe dunque ricostruire tutta la storia, o quasi, dei movimenti artistici e delle correnti culturali: la sua presenza copre tutto l’arco dal sec. XIII ad oggi.

Nella devozione popolare, oggettivata soprattutto nelle statue e statuette, un posto preminente spetta senz’altro a San Giuseppe, lo sposo di Maria, e non meno a un Santo così noto come Antonio da Padova. Ma Francesco d’Assisi gode di una particolarità eccezionale: di aver attratto l’attenzione a tutti i livelli di rappresentazione, da quello devozionistico a quello artistico, nei gradi anche più eccellenti. Basti qualche nome tra i più famosi: Giotto, Donatello, Raffaello, Tiepolo, Tintoretto, Tiziano, Murillo, Rubens, Velasquez. Nella storia dell’arte si contano più di 500 pittori e scultori che si sono interessati all’immagine di San Francesco, con ben oltre il migliaio di dipinti e di statue complessivi, considerate soltanto le opere catalogate ufficialmente nelle chiese artistiche e nei musei pubblici e privati.

Sulla figura di San Francesco si potrebbe dunque ricostruire tutta la storia, o quasi, dei movimenti artistici e delle correnti culturali: la sua presenza copre tutto l’arco dal sec. XIII ad oggi.

Inoltre, il riferimento a San Francesco si rivela tanto più incisivo in quanto, a differenza di altre personalità religiose, è ampiamente riscontrato anche nella letteratura. Ed anche in questo caso il fenomeno è verificabile non solo negli ambienti dell’Ordine, come è accaduto sostanzialmente per un San Benedetto, un San Bernardo, in parte per un San Domenico, ecc., ma anche nel mondo laico, fino alla nostra età contemporanea.

Pascoli, ad esempio, ne ha trattato in modo specifico in un’opera; D’Annunzio ne ha parlato diffusamente e quasi ossessivamente; addirittura il massone Giosuè Carducci lo ha immortalato in un meraviglioso sonetto. Per dirla in breve, nel 1982 un Congresso a livello accademico ha studiato San Francesco nella letteratura del Novecento: solo per questo secolo ne è derivato un così voluminoso libro di “Atti”, che dimostra quanti scrittori, e a quali livelli, si sono occupati tematicamente dell’Assisiate. Qualche attenzione è stata prestata a San Francesco anche da parte del mondo del cinema, quasi a sottolineare che la sua immagine non finisce mai di ammaliare gli spiriti più sensibili. Questa perenne sollecitazione deriva dal fascino suscitato dall’Assisiate, tanto sul piano religioso, quanto su quello umano in generale. La sua – è stato detto – è un’utopia profonda ma gioiosa, senza spigoli. È una visione leale e reale di valori genuini, anche umanamente validi, perciò sempre sentiti. Essi vanno dal misticismo autentico all’amore lieto per le creature, dal coraggio del patire alla missione di pace in Oriente.

Ed è ovvio che nel lungo percorso di secoli l’immagine artistica di questo personaggio ha ricevuto diverse interpretazioni. Ciascuna ha privilegiato, secondo il gusto dei tempi e secondo la tempra degli autori, un aspetto o l’altro della sua multiforme e suggestiva personalità.

L’immagine più vera

Francesco fìsicamente non era “bello”. I biografi parlano di “aspetto miserevole, disprezzabile”. Il santo tuttavia amava prendersi in giro.

 

 Greccio

Francesco piangente, riproduzione seicentesca – con aggiunta di aureola e stigmate – di dipinto del 1230 ca., Convento di San Francesco, Greccio

 

Maestro di San Gregorio, Subiaco, 1228

Maestro di San Gregorio, Frate Francesco, 1228, particolare, Cappella di San Gregorio, Sacro Speco, Subiaco

 

Uno dei più antichi ritratti – forse il secondo – di San Francesco è quello dell’eremo di Greccio, compiuto quando egli aveva già ricevuto le stimmate: ne è visibile un segno alla mano destra. Di autore ignoto, esso sembra riprodurre l’immagine reale dell’Assisiate. Certo, nessun dipinto può essere fotografico, ma esso risulta rispondente alla descrizione di lui redatta da Tommaso da Celano e da altri cronisti antichi.

Il personaggio appare sofferente, leggermente incurvato, nell’atto di muovere stancamente un passo, mentre si asciuga l’occhio sinistro con un pannolino bianco. È probabile che il ritratto risalga all’epoca in cui Francesco passò per Greccio recandosi a Rieti, presso la curia papale, per un’operazione agli occhi. Originariamente mancava in effetti ogni segno iconografico di santità, aggiunto solo in un secondo momento, come ha dimostrato il relativo restauro.

Il personaggio appare, conformemente all’indicazione del Celano, “di statura mediocre, piuttosto piccola; la carnagione tendente allo scuro; la testa rotonda, la faccia protesa; la fronte piana e piccola; le braccia piuttosto brevi, i piedi piccoletti”.

Una differenza è nella barba: invece che “rada”, come dice il Celano, sembra invece folta; comunque è nera e corta. Le sopracciglia sono senz’altro folte, come scrisse pure Matteo Paris. La veste, un saccone davvero ruvido, con un cappuccio grande che copre ampiamente tutto il capo.

Nell’insieme, la configurazione del Santo risalta chiaramente nella sua “mancanza di bellezza”.

Francesco ne era consapevole, e ci insisteva con franchezza, dicendo a se stesso: “Francesco, tu non sei bello”, ecc. Senza mezzi termini Tommaso da Spalato parla di “facies indecora”, non bella, di “aspetto miserevole, disprezzabile”; Matteo Paris di “vultus despicabilis”, dispregevole.

Più ieratico e meno “umano”, ma certamente uno dei più antichi ritratti di San Francesco o addirittura il primo, è quello che si trova nella cappella di San Gregorio Magno al Sacro Speco di Subiaco. Fu compiuto quando l’Assisiate – è denominato semplicemente “FR” (Frate Francesco non aveva ancora ricevuto le stigmate. Probabilmente nella primavera, o nell’autunno, del 1223 egli visitò il Sacro Speco, ospite dei benedettini).

I singoli lineamenti corrispondono alla descrizione celaniana, anche se nel complesso essa appare meno “dispregevole”. Oltre a quelli da noi sopra indicati, qui ne compaiono altri, perché il cappuccio non solo è lungo, ma anche allargato sulla faccia: la “testa non grande e rotonda”; la “faccia alquanto lunga”; occhi di “giusta misura”; le labbra “piccole e sottili”; il collo “stretto”; gli omeri dritti; le dita “lunghe”, le mani scarne.

 

Un saccone…

Il vestito era quello dei “pellegrini” o, come erano anche chiamati, dei penitenti.

 

 Anonimo, Oratorio di San Pelelgrino, Bominaco, ca.1280

Anonimo, San Francesco, 1280 ca., Oratorio di San Pellegrino, Bominaco (Caporciano)

 

Cimabue, San Francesco, Basilica di San Francesco, Assisi

 Cimabue, San Francesco, 2a metà sec. XIII, Basilica di San Francesco, chiesa inferiore, Assisi

 

Non può mancare un cenno sull’abito e sulla barba di San Francesco nell’arte. Questi elementi vi sono infatti connessi in modo sostanziale e vi si complicano, al contempo, come espressione di interpretazioni istituzionali. Fino a qualche decennio fa questo aspetto esteriore sollevava vivaci polemiche; oggi lo consideriamo con serenità. Nei ritratti sanfrancescani delle origini, il vestito è un semplice saccone.

Storicamente, l’abito indossato dal “convertito” Francesco, figlio ribelle del borghese Pietro Bernardone, era né più né meno quello dei “pellegrini” o, come erano anche chiamati, dei penitenti. Nel Medioevo essi costituivano quasi un ceto sociale, con regole proprie e qualche privilegio. Il pellegrinaggio, imposto per penitenza o scelto per devozione, impegnava infatti lunghi periodi di tempo, fino a un anno ed oltre; per di più era spesso praticato continuativamente da coloro che, dopo una vita “borghese” di guadagni, si consacravano ad una sorta di forma religiosa di esistenza. Tra l’altro erano normalmente assoggettati alla giurisdizione episcopale invece che a quella civile. Francesco vi ricorse, appunto, lui stesso, quando si appellò al vescovo di Assisi, per evitare il giudizio “laico” del podestà, nella causa intentatagli dal padre. Non accettò, invece, gli altri privilegi. I pellegrini godevano dell’autorizzazione ad elemosinare “per diritto”. San Francesco impose ai frati di “lavorare con le loro mani” e di ricorrere all’elemosina solo se non fossero stati pagati: un modo per evitare liti e controversie con il prossimo.

I pellegrini portavano, per ovvia necessità, “bastone e bisaccia”: quello che sarebbe il nostro “bagaglio”. San Francesco proibì proprio l’uno e l’altra: una maniera di rifiutare anche la povertà istituzionale. E il cappuccio?

Può darsi che fosse staccato dal saccone: se ne ha un indizio nelle antiche “vite” del Santo. (Egli “tolse il cappuccio” ad un frate indegno).

Del resto, se la sua funzione era quella di riparare dalla pioggia e dal vento, è presumibile che lo si potesse levare quando faceva caldo. Ma per lo stesso suo uso è anche logico pensare che fosse abbastanza grande da coprire comodamente tutto il viso.

Un’altra ragione, però, vale soprattutto ad escludere da San Francesco il cappuccio corto e la cocolla: il fatto che questi “pezzi” richiamavano l’abito agostiniano, mentre egli si rifiutava categoricamente di ispirarsi in qualunque modo ad istituzioni religiose precedenti. I ritratti primitivi di San Francesco rispondono dunque, sotto questo aspetto, perfettamente al vero: cappuccio largo, lungo, privo di cocolla. Esso, anzi, neppure sembra staccato dal resto del saccone. Ad un certo momento, probabilmente egli lo volle unito al resto del saio, allontanandosi dalla prassi dei pellegrini ormai incongrua per i frati.

Nell’arte, l’abito restò immutato per tutto il sec. XIII. Bisogna arrivare al Beato Angelico, domenicano, e alla sua scuola per trovare disegnata la cocolla, simile a quella di San Domenico.

Ma appunto nel sec. XIV-XV San Francesco incominciava a perdere anche nella fisionomia i lineamenti originari.

Il cappuccio corto e addirittura l’ibrido del cappuccio grande, magari floscio, unito tuttavia alla cocolla si imposero tra la fine del sec. XV e il sec. XVI.

Gli artisti infatti – compresi Raffaello, Michelangelo, Tiziano, i Carracci, ecc. – si ispiravano ovviamente al vestito indossato dai frati dell’epoca.

L’abito della primitiva iconografia di San Francesco ricomparve nel corso del sec. XVI con la riforma cappuccina.

 

…e che barba?

Segno di austerità, Francesco portava una barba corta e incolta. Alla fine del sec, XIV tuttavia scomparve nei ritratti, per apparire nuovamente con la riforma cappuccina.

La barba di San Francesco nei ritratti primitivi è senz’altro corta. Più folta, in quello di Greccio; più rada, in quello di Subiaco. I “pellegrini” o “penitenti” portavano la barba per forza di cose: non avevano modo di radersi. Se la tagliavano con le forbici: perciò era corta. È inverosimile che San Francesco se la facesse crescere per puro “gusto” o come segno di distinzione ed è altrettanto inverosimile che se la radesse perbenino come gli uomini del mondo. Per diverso tempo gli artisti, anche accogliendo la descrizione del Celano, attribuirono all’Assisiate una barba corta. Essa incominciò ad assottigliarsi o a scomparire del tutto dalla fine del sec. XIV.

Nella cultura umanistica San Francesco fu spesso interpretato secondo il gusto del tempo: come un buono e santo frate che non urta esteriormente con la signorilità delle corti. Spesso i committenti erano aristocratici. Inoltre il riferimento pratico era anche in questo caso il viso rasato dei reali francescani.

Tuttavia, neppure allora la barba dal volto del Santo fu tolta da tutti gli artisti: ricordo ad esempio Gentile da Fabriano (1370-1427), Raffaello, Michelangelo, Pinturicchio (1454-1513), Tiziano (1477-1576), Signorelli (1441 -1523), Andrea del Sarto (1486-1531), ecc., rispettosi delle indicazioni celaniane.

La barba tornò ad essere una caratteristica iconografica dell’Assisiate, quasi universalmente, con la riforma cappuccina. Per il vero, anche i Cappuccini imposero all’immagine esteriore del Santo la loro specifica interpretazione, facendogli crescere la barba… un po’ troppo. Bisogna arrivare agli anni ‘20 – ‘30 del ‘900 per avere, anche in ambiente laico, dei volti di San Francesco lisci e quasi – mi si permetta – profumati, secondo le “buone creanze” del tempo: anche con una bella capigliatura, da “bravo” giovane.

 

Il realismo spirituale del medioevo

Con Giotto l’iconografia di San Francesco si cala pienamente in una grande corrente culturale: il gotico. E dopo Giotto nella pittura, il culmine della tematica francescana è raggiunto, nella poesia, dal genio dantesco.

 

Maestro di San Francesco, Museo S.M.degli Angeli

Maestro di San Francesco, San Francesco fra due angeli, 2a metà sec. XIII, particolare. Museo di Santa Maria degli Angeli (Assisi)

 

 Giotto, Basilica San Francesco, Assisi

Giotto, San Francesco predica agli uccelli, 1290-1295, Basilica di San Francesco, chiesa superiore, Assisi

 

Subito dopo la morte del Santo, l’iconografia conserva in gran parte le caratteristiche somatiche del personaggio reale, come ad esempio in Giunta Pisano (m. ca. 1236) e nel cosiddetto “Maestro di San Francesco”. Probabilmente gli artisti avevano conosciuto personalmente il Santo, anche se poi ciascuno l’ha ritratto secondo una sua interpretazione religiosa e con un personale gusto artistico. Margheritone d’Arezzo (ca. 1216-1290), ad esempio, sottolineò l’aspetto emaciato del volto, a suo avviso tendente un po’ al lugubre. Comunque, per quasi tutto il successivo sec. XIV l’immagine del Santo si ispirò sostanzialmente alla descrizione celaniana. Così, ad esempio, in Cimabue. Ma è con Giotto che l’iconografia di San Francesco si cala pienamente in una grande corrente culturale: il gotico.

Secondo lo spirito gotico, Giotto avvertì il senso della fusione tra la realtà terrena e la presenza divina, rappresentando la vita di San Francesco inserita sia nella natura creata da Dio, sia nel mondo fabbricato dall’uomo per l’uomo. Grazie alla ricerca di profondità spaziale e di volumetria, negli affreschi della Basilica superiore di Assisi egli, per la prima volta, delinea il Santo non già fuori dal tempo e dallo spazio, metastoricamente, ma in modo narrativo. Le architetture, che sono quelle coeve al pittore, mostrano la realtà della corte e della borghesia, nella quale si era trovato ad agire il Santo (San Francesco si presenta ad Innocenzo e ad Onorio papi; scaccia i diavoli da Arezzo; appare in sogno al papa Innocenzo). Il pittore si serve dello strumento cromatico per sottolineare l’idea della povertà francescana, contrapponendo il grigiastro dei sai ai colori caldi e brillanti delle vesti dei prelati e dei signori. La più spiccata glorificazione del Santo è nell’ultima fase dell’opera giottesca, in Santa Croce in Firenze: la scena del Fondatore che appare ai suoi frati in capitolo dopo la sua morte utilizza la prospettiva geometrica, per esaltarlo simbolicamente. Egli è al centro in ogni senso: in quello della profondità, dello spazio, dell’altezza; ed è al centro di una serie di cerchi concentrici, che lo accostano al piano divino e alla perfezione ultraterrena.

Tutta l’iconografia trecentesca, sia nell’ambito dell’influsso giottesco che della scuola senese, non si stacca dalle due linee di Cimabue e di Giotto. La prima inserisce il Santo nelle “Maestà”, accanto a Maria e agli altri Santi; la seconda ne narra la biografia, secondo gli schemi della tradizione del Celano e dei Fioretti. Questa seconda linea meglio risponde all’ingenuo entusiasmo del popolo devoto verso certi episodi che più lo colpiscono nell’emotività e nella fantasia, come quello del “lupo di Agobbio” (Gubbio) o della predica agli uccelli. Dopo Giotto nella pittura, il culmine della tematica francescana è raggiunto, nella poesia, dal genio dantesco: ambedue con il medesimo spirito che unisce in armonia l’umano e il divino nell’autentica santità.

Il canto XI del “Paradiso” resta tuttora la più efficace sintesi biografica e la migliore interpretazione ideologica di San Francesco da parte di un poeta.

Il quadro francescano è delineato in perfetta coincidenza tra i fattori altamente spirituali (sposalizio con madonna povertà, desiderio del martirio, identificazione anche fisica con Cristo, sublime “pusillità”) e lo scenario terreno. Il Santo sembra quasi un messia che con l’esempio mostra in modo stupefacente come la vita terrena, individuale e collettiva, possa essere santificata con estrema “semplicità” e con genuina dedizione a Dio.

 

San Francesco ingentilito

Nel Rinascimento San Francesco non si distingue dagli altri personaggi, se non per alcuni “segni”, che diventano una stereotipata tipologia senza comprensione spirituale: saio grigio o marrone, magari aperto a mostrare la piaga del costato; stigmate; eventuale crocifisso in mano; tonsura. Prevale il linguaggio cortigianesco.

 

Borgognone, Santi, inizi sec.XVI

Ambrogio Borgognone, Santi, inizi sec. XVI, Pinacoteca Ambrosiana, Milano, particolare

 

L’iconografia francescana, come in genere tutta quella sacra, nel Rinascimento perde in buona parte l’interesse storico e devozionale. I pittori – o meglio i signori delle corti per cui lavorano – prendono a prestito la storia e la devozione per tratteggiare la vita signorile. Ad esempio, lo “Sposalizio di San Francesco con Madonna Povertà” di Ottaviano Nelli (1400-1448) mostra un Francesco riccamente vestito, con un’ampia tonaca doppia, una bianca ed una, al di sopra, nera, svolazzante e raffinata: l’elemento storico arriva addirittura ad essere tradito dal gusto estetico. La “signora”, a cui il Santo dà l’anello sponsale, ha addosso un semplice saccone, e tuttavia nel complesso non stride con le altre due “signore”, che l’accompagnano (Obbedienza e Castità), finemente addobbate. Il Rinascimento preferisce tuttavia le “Sacre Conversazioni” (Madonna con Santi). Esse costituiscono perfettamente una traduzione dell’agiografia nel linguaggio cortigianesco: i vassalli (i Santi) fanno corona alla principessa (la Madonna) che si degna dar loro udienza, mentre la cappella musicale (gli angeli musicanti) intrattengono piacevolmente la “signora” e gli ospiti.

In questo contesto San Francesco non si distingue dagli altri personaggi, se non per alcuni “segni”, che diventano una stereotipata tipologia senza comprensione spirituale: saio grigio o marrone, magari aperto a mostrare la piaga del costato; stigmate; libro della Regola; eventuale crocifisso in mano; tonsura. Se si eccettua qualche artista eccezionale, come il Tiziano e Raffaello, il Rinascimento non era certamente il più idoneo a rappresentare l’Assisiate.

È tuttavia interessante la bottega dei Della Robbia, con le sculture in terracotta invetriata: il Santo rivela potentemente spirito di povertà ed ascetismo, con il collo e il volto, molte volte, emaciati. La famosa lunetta con l’abbraccio di San Francesco e di San Domenico, poi, richiama, in un’epoca in cui la rivalità tra i due Ordini prevaleva sulla collaborazione, il compito complementare dei due “principi” – come li definisce Dante – nel servire la Chiesa.

 

Il santo dal «collo torto»

Il sorgere di nuove famiglie francescane condiziona la rappresentazione del Fondatore. Lo spirito della Riforma cattolica spinge gli artisti a rappresentare un Santo distaccato dalla propria fisicità e con i segni della patologia mistica.

 

 Daniele Crespi, 1623, S.Giov.Ev., Galbiate

Daniele Crespi, Stimmatizzazione di San Francesco d’Assisi, 1623, Chiesa di San Giovanni Evangelista, Galbiate (Lecco)

 

Una netta evoluzione si ha a partire dall’epoca degli scismi e della Riforma cattolica, nel contesto del Manierismo artistico, che poi trova pieno sviluppo espressivo nell’età barocca secentesca. Sul mutamento iconografico influiscono due fattori: uno interno ed uno esterno alla storia dell’Ordine francescano. Il sorgere di nuove famiglie francescane, fra cui il massimo rilievo assume quella cappuccina, comporta variazioni di sensibilità nel cogliere e nel rappresentare la figura del Fondatore. Inoltre, le caratteristiche dell’iconografia e dell’agiografia cosiddette “controriformistiche” coinvolgono necessariamente anche San Francesco. Il rinnovamento interno all’Ordine, con la sua vivificata attenzione alla povertà, accentua sotto questo aspetto i particolari descrittivi del Poverello: saio marrone di grossa lana, con toppe e strappi, cordiglio rozzo in rilievo, piedi sporchi nei sandali laceri. (Cfr. Daniele Crespi alla Pinacoteca Ambrosiana, a Milano). Anche la componente ascetica viene sottolineata nei lineamenti emaciati e negli atteggiamenti. Prevalgono le immagini dell’estasi, intesa come il momento in cui San Francesco riceve le stigmate, con mancamento ed abbandono fisico. Ricordo in particolare il quadro del Domenichino alla chiesa della SS. Concezione, a Roma, dei Cappuccini. È da segnalare questa differenza rispetto al periodo gotico: mentre allora il Santo, inginocchiato, partecipava consciamente e vitalmente al colloquio con il Crocifisso, ora è sottolineato invece il distacco dalla propria fisicità, secondo l’insegnamento della mistica coeva.

Altro elemento iconografico è il deserto, simbolo convenzionale della meditazione solitaria. Esso è rafforzato dai paesaggi rocciosi – che nel caso di San Francesco trovano concreto riferimento agli “spechi” in cui egli amava ritirarsi –, dalla presenza del teschio e dalla contemplazione del Crocifisso, anch’esso, nel caso specifico, motivato dalla biografia francescana. La funzione mediatrice dei Santi, sottolineata dalla teologia controriformistica, è applicata a San Francesco in molti dipinti: un bellissimo esempio è la “Pala di Ca’ Pesaro” del Tiziano, presso i Frari a Venezia, in cui il Santo fa da tramite sul piano psicologico e geometrico tra il Bambino e la famiglia committente.

Altrettanto tipica del periodo è l’apparizione della Madonna col Bambino da luminosi cieli squarciati: ciò avviene spessi anche per San Francesco, pur senza avere uno specifico significato francescano. Anche la semplice rappresentazione del Santo da solo rientra nei canoni figurativi dell’arte barocca, che stancamente si ripete con l’intento di esaltare la contemplazione del divino e l’offerta di sé: su sfondo scuro, le mani sono leggermente sollevate, col palmo in avanti e magari con una mano che tocca, a volte mollemente, il teschio; la testa è arrovesciata, la bocca semiaperta, con mimica facciale intensa; lo sguardo è rivolto verso l’alto o verso il Crocifisso, magari con occhi sbarrati, con pupille grosse e spostate ai lati del globo oculare. Per vedere atteggiamenti più composti e naturali, per quanto carichi di sentimento, occorre rivolgersi a grandi artisti. Nell’iconografia francescana le caratteristiche del Seicento si ripetono, nell’arte meno significativa, anche nel sec. XVIII: occorre un Tiepolo (1696-1770) per trovare qualcosa di originale, che sia al contempo intenso e spontaneo. Nel Museo dei Cappuccini a Roma c’è un disegno riproducete la “Stigmatizzazione”, che il Tiepolo dipinse a Madrid.

 

San Francesco e il quotidiano

XX secolo: ricupero della immagine del Santo nella storiografia e nell’arte. Rapporto con la natura e con il quotidiano. L’«italianità» e l’ecumenismo di San Francesco.

 

Damaso Bianchi, immagine ridotta

Fra Damaso Bianchi, Allegoria di San Francesco con simbologia della Beata Francesca Rubatto, Pensionato Suore Cappuccine Madre Rubatto, Bergamo

 

Nella seconda metà del sec. XIX, in occasione del settimo centenario della nascita di San Francesco, si sviluppò una vasta letteratura sull’Assisiate.

L’impulso celebrativo non fu fatuo: stimolò per alcuni decenni studi critici di alto livello, cui furono interessati non solo i cattolici, ma anche i protestanti e i razionalisti. Il fervore si protrasse fino al settimo centenario della sua morte, nel sec. XX. A proposito ricordo una delle migliori biografie di San Francesco, quella dello Jørgensen. Il Santo fu studiato all’interno dell’età romanza, rivalutata sotto la spinta del Romanticismo, e fece sentire i suoi influssi anche sul classicismo carducciano (ad esempio ne II comune rustico e in Santa Maria degli Angeli).

L’Assisiate fu seriamente approfondito come uno dei padri del volgare italiano e fu ammirato per il suo vitalismo religioso con tutti i corollari di finissima spontaneità e di “follia” d’amore. Agli inizi del sec. XX, poi, questi caratteri si inquadravano bene in alcune delle nuove tendenze del Decadentismo. Le sintetizzo: 1) uno spiritualismo diffuso, a volte vago ma comunque sentito. San Francesco, fedelmente cattolico, apparve comunque un uomo “libero” per eccellenza, un santo atipico, non inquadrabile in alcuna istituzione medioevale di potere; 2) la riscoperta della natura “amica”, spesso contrapposta alla cinica società industrializzata; 3) il “riflusso verso le piccole cose quotidiane”.

Nonostante la sua sublime grandezza spirituale, San Francesco sembrò davvero l’uomo dai sentimenti semplici, schietti, con il suo amore per le cose semplici e genuine e con lo spiccato senso della fraternità, molto più vicino all’amicizia di quanto avesse mostrato qualunque altro Santo. Un Santo, dunque, veramente “prossimo” ad ogni uomo, tanto all’uomo geniale quanto all’uomo comune. Per questi motivi egli fu cantato da numerosissimi poeti e scrittori, di maggiore e di minore levatura; tra i primi ricordo Giovanni Pascoli, nel suo poema “Paolo Uccello.

Sono di particolare interesse, nel primo ventennio del secolo attuale, le illlustrazioni di varie edizioni dei Fioretti e di biografie francescane. Ricordo quelle di Attilio Razzolini (1908), dell’americano Boutet de Monvel (1913), del cattolico Maurice Denis (1919) e del protestante Eugène Burnand (1914), diFritz Kunz (1917) e dello spagnolo Segrelles(1924).

Nel clima artistico del Gothic Revival, tra il 1800 e il 1900, si sottolineò l’aspetto ascetico e contemplativo di San Francesco, come appare in splendidi quadri di un San Francesco in orazione (Cebrian Mezquita, 1882) e di un San Francesco che discende dalla Verna (José Benlieure). Ma, nonostante l’aspetto emaciato, quasi ridotto all’osso, e la forte carica mistica, anche nei suddetti casi l’ambientazione e la postura sembrano far parte del mondo normale di un qualunque frate penitente.

Più in generale e al di fuori della suddetta corrente artistica, San Francesco è pienamente calato nella realtà quotidiana, o conventuale o extraconventuale.

Un esempio molto significativo è quello di un San Francesco con addosso un saio tutto logoro e sfilacciato, come un vestito contadinesco, che ara i campi (T. Chartrand).

Certo, nell’iconografia novecentesca non bisogna aspettarsi la fedeltà fisiognomica. E più si procede nel secolo, meno ha importanza, nell’arte pittorica, la riproduzione realistica. Quel che conta è la coerenza con il significato del personaggio.

Ancora per il periodo iniziale del sec. XX, ricordo il quadro, molto originale, che D’Annunzio ordinò per la sua camera detta del Lebbroso: è rappresentato San Francesco che sorregge il “lebbroso” Gabriele D’Annunzio. L’immagine è un chiaro segno di quanto l’uomo, proprio nella miseria, nel dolore e nella morte, si senta di entrare in comunione con il santo pietoso e misericordioso: il santo che con semplicità si fa simile al lebbroso. Come accoglie i ladroni.

Per questo, San Francesco fu sempre ben accetto o amato anche dagli “infedeli”: e a volte compreso, forse, più che dai fedeli. Nel nostro Paese, 1’“italianità” di San Francesco – definito Il più santo degli italiani e il più italiano dei santi – fu sfruttata anche in senso nazionale: invocato come principe di pace (per la sua originale missione in Egitto) e come ispiratore di una particolare ideologia che attecchì nel primo dopoguerra. La sintetizzo così: la cultura “spiritualistica” italiana avrebbe dovuto rifiutare la mentalità “materialistica” ed economicistica dell’Occidente angloamericano e diffondersi nel mondo orientale e medio-orientale, più idoneo, per la sua “anima” religiosa e più semplice, ad accogliere il messaggio spirituale della nostra migliore tradizione.

Uno dei più intuitivi interpreti di questa concezione – per il vero più “poetica” che realistica –fu D’Annunzio. Nel panorama dell’iconografia di San Francesco esiste un quadro, dipinto da Ercole Sibellato e regalato ai Cappuccini di Barbarano di Salò personalmente da D’Annunzio – che l’aveva commissionato “per voto” dopo un’impresa di guerra –, raffigurante il Santo ed una nave “crociata”. L’idea, espressa tante volte dallo scrittore, è che l’Italia si portasse verso Oriente sotto l’egida pacifica e spirituale di San Francesco.

D’Annunzio ebbe una lunga frequentazione con l’Assisiate, benché a volte equivoca e malsana. Essa comunque va dall’immagine popolare del Santo, cioè quella fiorettistica e laudese (“Laudato sia”, “laudata sia”, ecc.), a quella patriottica durante la guerra mondiale, per finire con la fase “crociata”, appunto. Nella fase fiorettistica possiamo collocare il tema di un altro quadro, quello del Baccarini, anch’esso regalato da D’Annunzio ai Cappuccini di Barbarano di Salò. Si tratta di un San Francesco posto al centro della natura, rappresentata in modo asciutto, quasi arido, senza alcun sentimentalismo paesaggistico; con le sue braccia allargate e con il suo sguardo rivolto verso l’alto, sembra offrire il creato al suo Creatore, ricongiungendo di nuovo l’umano al divino. È emblematico il volto che è, sì, estasiato, ma con naturalezza. In pratica, gli artisti del nostro secolo sembrano sottolineare l’idea che tutti possono imitare un uomo che, al di qua dei doni eccezionali, si presenta disarmato, senza orgoglio spirituale, umanissimo perché umile. Rammento che, come nel citato quadro del convento di Salò, molte figure di San Francesco non presentano le stigmate, nel panorama artistico del Novecento.

E non credo per scetticismo: ma per evidenziare gli aspetti che possono accomunare il Santo ad ogni persona. Nell’interpretazione cinematografica, a volte questo “umanesimo” francescano ha rischiato un’angolatura riduttiva. Ciò è avvenuto soprattutto quando, come in Zeffirelli, si è voluta offrire un’immagine francescana troppo “ecologica”. Ma in altri casi, come nella Cavani, la componente umana è stata meglio integrata nelle ragioni religiose del Santo.

Negli ultimi anni San Francesco è stato sempre più considerato un punto d’incontro tra le varie fedi, proprio per la sua multiformità di spunti spirituali e per la sua umile carità, che abbraccia non solo “tutte le creature umane, ma anche – come egli insegnava – tutte le creature viventi e tutte le creature inanimate”.

L’“ecumenismo” francescano ha avuto un’indiretta consacrazione con il convegno interreligioso di Assisi, promosso ed onorato da Giovanni Paolo II.

Molti francescani, oggi, secondo lo spirito del Fondatore promuovono una reciproca conoscenza e collaborazione con gente di diversa religione, soprattutto musulmana.

E a questo proposito mi piace terminare con un’originale statua dannunziana, a suo tempo giudicata irriverente e scandalosa: San Francesco che cavalca l’elefante, uno dei simboli dell’induismo. Una sua sequenza di versi, autografa, vergata ai margini di un libro francescano, non permette equivoci sul suo pensiero: San Francesco, segno eccellente del cristianesimo evangelico, si unisce alla religione indù. “Tutti gli dei annunciano un medesimo Dio”.

Certo, il misticismo ibrido del D’Annunzio non è scevro di sincretismo. Ma non posso fare a meno di accostare questa visione – pur non limpida teologicamente – con un recente libro che descrive come dei monaci dell’induismo, del buddhismo e del giainismo abbiano assunto lo stile di vita di San Francesco d’Assisi (pagine 3-23) [Francesco di Ciaccia].