1982, Communio, La “festa” in San Francesco

La “festa” in San Francesco d’Assisi, «Communio», 64 (1982) pp. 91-104; poi Literay.it [2016].

Titolo e Testo dell’articolo

Il senso della «festa» nel primo Francesco

Il Celano ricostruisce la dissipata «spensieratezza» del giovane Assisiate in parallelismo apologetico con la «festa» di Gesù nella sua moltiplicazione dei «pani e dei pesci», e con il suo allontanamento sul «monte» per sfuggire alla folla che lo voleva «re». L’autore esagera di certo le informazioni[1]; ma alcune indicazioni sottili ci aiutano a cogliere l’effettiva concezione del giovane festaiolo circa l’accaduto medesimo.

Il testo inquadra l’allegria, già spesso ridanciana, di Francesco dopo la «visione» che preannuncia la conversione e dopo il ritorno dal carcere «alla sua terra natale»[2]: «La compagnia dei giovani di Assisi, che un tempo lo avevano avuto guida nella loro spensieratezza, cominciò di nuovo a invitarlo ai banchetti, nei quali si indulge sempre alla licenza e alla scurrilità»[3]. Per il periodo precedente, l’impianto celebrativo dell’autore non giustifica del tutto l’annotazione secondo cui il giovane, mentre i compagni di prigionia si abbandonavano alla «tristezza», «esultava nel Signore, disprezzava e irrideva le catene». Se la «divina esultanza» giova all’immagine di un predestinato a grandi virtù, appare piuttosto ambiguo un personaggio, così gioioso «nel Signore», abitualmente tanto a suo agio in comitive «licenziose e scurrili». La tendenza «festaiola», d’altra parte, è confermata da un altro biografo in termini molto recisi, benché ancora stereotipicamente sospetti: «vanissimo dispensatore di mondana opulenza»[4].

Per ora, dunque, il più corretto «panegirico» ci sembra semplicemente quello della Leggenda dei Tre Compagni: il giovane, in catene, era un «allegrone»[5]. Ciò corrisponde a quell’atteggiamento ottimistico che la citata Leggenda dichiara esplicitamente: «ottimista e gioviale per natura». Il «disprezzare e l’irridere le catene» del testo celaniano si spiega agevolmente in questo quadro psicologico, che il medesimo autore ha contribuito a delineare, del resto, avendo in precedenza definito «affabilis» il suo personaggio.

A parte per il richiamo biblico del Celano a scopo agiografico, è certo che i compagni di carcere rimproveravano a quello strano «cavaliere» di «esser pieno di gioia […], e lo giudicavano svanito e pazzo»; costui avrebbe loro obiettato che «non si rallegrava se non perché un giorno sarebbe stato venerato come un santo in tutto il mondo[6]». Per un giovane pieno di fantasie di gloria, sì ma rivolto, in quel carcere, più ai compagni che a se stesso, potrebbe sembrar strana, al di fuori della «fisionomia» ottimistica, una dichiarazione autogratificante.

Ad esempio, fra i prigionieri si trovava un cavaliere «ingiurioso e antipatico», e Francesco non fece altro che continuare ad essergli amico, «esortando tutti a fare altrettanto» (Leggenda dei Tre Compagni). Ora, un’assunzione di autorità morale sarebbe stata ben giustificabile, fondata sull’intuizione della propria grandezza, per un fine di pace. Ma se la predica del profeta noioso (antipatico!) non è mai stata una tentazione francescana, è dunque proprio la naturalezza della goiosità di Francesco, a spiegare, storicamente in modo corretto, la confidenza riferita anche dalla citata Leggenda: «Secondo voi, che cosa diventerò io nella vita? Sappiate che sarò adorato in tutto il mondo»[7].

A parte l’ipotesi di una preveggenza soprannaturale, che non consideriamo in quanto esorbita dalla nostra semplice riflessione, l’anticipazione giovanile è perciò fondata sulla festosità come condizione per cui la voce tenue, ma incisiva, di Dio può parlare, ed essere sentita. Francesco non dispera, per questo.

Certo, la sua letizia è ancora incoscientemente ottimistica. Tuttavia, già allora, la vera anomalia dello «svanito e pazzo» Francesco non consisteva nel fatto di gioire in carcere, ma di saper gioirvi: cioè perché viveva la vita come dono.

La vita ha sorprese, l’esistenza non termina con i problemi attuali. E ciò che permette di vedere l’offerta delle prospettive, al di là del presente, Francesco, «svanito e pazzo», lo dimostra essere, esattamente, il dono di gioia che si diffonde attorno a sé. La capacità di sperare, che nasce dalla letizia e che la letizia alimenta, è indissociabile dalla forza di amare. «A furia di sopportare quell’intrattabile cavaliere dal carattere insopportabile, Francesco ristabilì la pace fra tutti»[8].

Liberato dalla prigionia, dice il Celano, il giovane «propose di non respingere nessun povero» e «divenne più compassionevole». La sua gioia, probabilmente non senza l’influsso dell’esperienza carceraria in cui l’«allegro» dovette capire, provvidenzialmente, un altro aspetto della vita che non è sempre «festa» nel senso dei «festini», si precisa meglio, dunque, come dono di sé e non solo delle proprie cose. Tale livello di offerta contiene, anch’essa migliorata, la disponibilità verso la vita. L’incalzare delle alternative che si manifestano, ora, alla speranza più generosa, ma insieme più matura, di Francesco evidenziano «il progressivo svolgimento delle sue attività naturali»[9]: interpretata la «visione» del cavalierato in senso sociologico, l’aspirante d’Assisi si entusiasma con tutta l’anima; capito poi il suo significato spirituale, dopo una «notte di raccoglimento» egli «in gran fretta dirottò il cavallo verso Assisi, lieto ed esultante»[10].

Alla luce di siffatta disposizione, in cui va inquadrato l’aspetto festoso, e festaiolo, di Francesco, riteniamo superata la disputa fra la «versione pessimistica», che sulla scia di Enrico di Avranches (ca. 1230) ha voluto vedere un primo Francesco dissoluto e «insolente» («se insolenter gessit», Giuliano da Spira, ca. 1230), e la «versione ottimistica» per cui il giovane, «nutritus in vanitatibus», sarebbe stato preservato dalla bontà divina («praeventus clementer», P.L. Oliger, seguito dai Bollandisti)[11]. L’intuizione popolare ha colto bene la semplicità della situazione[12]: «ciaveva er côre bôno e amava er bello, / l’arte, lo svago, pranzi, cene e canti». «Francesco era co’ tutti un compagnone, / pagava li banchetti e, all’occasione, / improvvisava poesie e stornelli».

Vediamo ora una valenza ulteriore della «festa» del giovane Francesco. Il Celano dice: «Lo elessero re della festa, perché sapevano per esperienza che, nella sua generosità, avrebbe saldato le spese per tutti»[13].

Di nuovo, la contrapposizione fra l’Assisiate, che ormai «cantava in cuor suo solo per il Signore» e si distaccava «a poco a poco anche col corpo» dai compagni, e questi ultimi che, «quando furono pieni fino al vomito – è detto con citazione biblica (Is 28, 8) – si riversarono nelle piazze della città – da Gn 10, 11 –, insudiciandole con le loro canzoni da ubriachi»[14]. Benché altre fonti, pure, notino come Francesco avesse sempre tenuto a dissociarsi dai «discorsi lascivi» degli amici[15], l’attendibilità del Celano resta sospetta nella sua esagerazione, ma importante nella sua affermazione circa la «generosità» francescana. Altro elemento importante è la scusa, addotta dal Celano, del giovane Francesco ad accettare «l’onore di esser fatto re»: «per non esser bollato come avaro».

È una ragione perlomeno gretta, ammessa pure l’incertezza psicologica e morale del giovane Francesco: è difficile ritenere che egli, ormai «lontano» dalle sconcezze, le sovvenzioni per vile rispetto umano. La verità della giustificazione va invece individuata nella ragione intima per cui egli non voleva «esser bollato come avaro», e cioè nel contesto della generosità su cui ci ragguagliano ampiamente le fonti.

Francesco era «tanto più allegro e generoso (del padre), gli piaceva godersela e cantare, andando a zonzo per Assisi giorno e notte con una brigata di amici, spendendo in festini e divertimenti tutto il denaro […]»[16]. Ora, l’«esagerato scialare» o quelle «ragazzate» spinte anche nell’abbigliamento[17] contrastano solo apparentemente con altre qualità messe in luce dai biografi: «vivida intelligenza», «cortesia»[18], «inclinazioni buone, già grandicello»[19]. Il senso dunque di quel suo non voler essere bollato come avaro è costituito dal valore che Francesco dava alla liberalità. Egli non aveva avuto tanto il sentimento del rispetto egoistico di sé, quanto dell’immagine di sé come generoso. Il significato psicologico, se non morale, di questa generosità, a sua volta, è quello intuito dalla madre del giovane. Ella, «quando sentiva parlare della prodigalità (del figlio), rispondeva: ‘Che ne pensate del mio ragazzo? Sarà un figlio di Dio, per sua grazia’»[20]. Tale rapporto, avallato dai biografi, di primo acchito sembra gratuito; ma è chiarito dallo stesso Francesco, il quale diceva a se stesso: «Tu sei generoso e cortese verso persone da cui non ricevi niente, se non una effimera e vuota simpatia; ebbene, è giusto che sia altrettanto generoso e gentile con i poveri, per amore di Dio, che contraccambia tanto largamente[21]».

Che il ragionamento non abbia il suo punto forte nel meccanismo del contraccambio è dimostrato dal seguente episodio. Un giorno Francesco, «preso dalla cupidigia del guadagno e dalla preoccupazione di concludere un affare» in negozio, mandò via un mendicante entrato per l’elemosina; pentitosene subito, disse a se stesso: «Se quel povero ti avesse domandato un aiuto a nome di un grande conte o barone, lo avresti di sicuro accontentato. A maggior ragione avresti dovuto farlo riguardo al re dei re e al Signore di tutti[22]». L’economia del dare-avere è solo apparente: regalando ai poveri, Francesco sa di ricevere un premio, ma non da loro. Quale tipo di premio? Quello, che avrebbe ricevuto da un conte o barone: l’onore di fare qualcosa per il valore della persona «grande»; a maggior ragione, se questa persona è Dio. Soprattutto nella mentalità «cortese» di Francesco – su cui insistono molto i biografi –, il valore sommo, essendo tale, non ha paragone, ed il suo servizio è di per sé premio, per il puro e semplice servizio a lui reso. Servire Dio è di per se stesso un «guadagno»: senza calcoli.

La «generosità» spendacciona del giovane Francesco ha dunque il senso del donare «fuori misura», senza calcoli, anzi contro i calcoli, come indicano i biografi. Molto acutamente perciò l’intuizione popolare ha rapportato questa esperienza giovanile ad un’altra «generosità», fuori norma, in ordine a «madonna povertà». È intitolato infatti La mejo sposa il sonetto di Valentino Banal su san Francesco che, pe’ nun esse’ avaro o strano / ricominciò a scialà; benché ciannasse / però nun riusciva a rallegrasse, / perché er pensiero suo stava lontano»; infatti, egli già pensava a farsi «poverello volontario», è detto nella poesia A Roma, «pe’ provà proprio quello che se sente / a tribolà e mancà der necessario»[23].

In effetti, Francesco intraprende una nuova vita e continua nella stessa «festa»: ascolta alla Porziuncola il brano di Matteo 10, 7-10 e «si riempie di gioia», si scalza subito e poi, dinanzi al vescovo, si spoglia, andato incontro al padre con «grandissima gioia»; quindi «se ne va per una selva, e canta con giubilo le lodi di Dio in francese»[24], si imbatte coi briganti, che «ce risero un pochetto, / lassandolo pe’ burla dentro a un fosso»[25]; butta via il danaro offerto inutilmente a un sacerdote[26] e poi va a riparare le chiese senza un soldo; «sfida er ridicolo»[27] facendo il muratore, lo deridono e lui «sale sopra il muro di San Damiano, canta e chiama con letizia»[28] i passanti ad aiutarlo. Questua del cibo, gli danno un «guazzabuglio», ed egli sente un «gaudio dello spirito», tocca i lebbrosi e riesce ad esser contento[29].

Questo excursus – breve per lasciar sottinteso il conflitto con alcune inclinazioni – manifesta uno sviluppo verso la prodigalità di speranza, fondata sempre di più sull’autore delle possibilità inesauribili. Abbandonarsi, con la coscienza dei problemi e dell’imprevedibile ma senza frapporre i dubbiosi calcoli, è credere alla vita che Dio offre, da gran signore, prevedendo anche l’imprevisto: nessun brano dell’esistere è senza dono. Così, come con gli allegretti amici, ora Francesco «sen va», «a zonzo», ancora, fra preghiere e lacrime, dicono le fonti, ma cantando.

Non sentiamo perciò di condividere l’interpretazione di coloro che hanno visto nella conversione di Francesco una «sublimazione per affievolimento» dell’istinto del «crapulone»[30]. Esso, invece, dovette fondarsi sul senso di frustrazione dell’insufficienza della generosità praticata fino allora, e stimolante, sotto l’impulso della sensibilità «cortese» e della grazia dello Spirito, ad un livello più «assoluto». Per questo, il figlio tanto strano di Bernardone divenne un mistico di festa e di lode.

La «festa» di Francesco maturo

Una delle prime scene del «giullare», ormai con un seguito, lo vede con Egidio in cammino verso la Marca di Ancona, esultando giocondamente e cantando, a voce alta e chiara, in francese[31]. Certamente, sono «pazzoidi»; ma alcuni facevano osservare soprattutto che, nel loro vivere austero e nel prendersi le sassate, restavano «lieti»[32]. Si ricorda poi una terribile scena di quel potente fascino «cavalleresco», di cui fu preda la stessa Chiara d’Assisi e che solo in parte è spiegabile nel contesto «penitenziale» della società medioevale: «Le ragazze, al solo vederli da lontano, scappavano spaventate, nella paura di restare affascinate dalla loro follia»[33].

Questo «pazzo» impegnato non sta annoiando con discorsi né terrorizzando con sermoni, ma rallegrando con canzoni provenzali: con amore. La vita non si dona con le chiacchiere: il gaudio è più impegnativo della parola. Senza «festa», le parole, benché utili, stancano o dividono, oppure sono un deserto. L’inizio e il culmine della conversione di quest’uomo è con la musica.

Sulla «festa» dell’Assisiate con le creature e «per» le creature, non occorre soffermarci. Ricordiamo solo un’osservazione di Maria Sticco: «San Francesco nasce poeta e perciò vede la bellezza intrinseca delle cose, anche delle più umili […]»[34]. La passione festosa di Francesco giovane per i festini e le musichette si trasferisce dunque sulle creature tutte: l’orizzonte delle occasioni si allarga. È vero che adesso, egli non chiede un diletto per sé, sia pur nella grandiosità della propria «cortesia»: «nelle creature egli cerca il Creatore»[35]. L’intenzionalità dell’allegrezza resta però intrinseca al dono, inteso ora esplicitamente come profusione di Dio all’uomo attraverso l’uomo; la gioia nel privarsi delle cose, per far felice il prossimo, ne è dimostrazione chiarissima.

A una «donna anziana e poverella» egli regala l’unica cosa che aveva alla Porziuncola[36] e frate Egidio fa donare il proprio mantello a un povero: l’offerta, «con gioia», procura ulteriore gioia ad Egidio[37]. Numerosi sono tali esempi nell’agiografia francescana: non ci servono qui che per valutare il rapporto intrinseco fra dono festoso e le sue implicazioni. Esemplare è l’episodio del prete di Rieti, la cui vigna, povera vigna, era invasa dai visitatori di san Francesco. «Perché te la prendi? Non contristarti più […]; abbi fede nel Signore e nelle mie parole»[38]: nessuna gioia è e può sussistere se non è universale.

Donare senza letizia è offendere. Comunque, senza letizia tutto si può donare: salvo la letizia. Ma solo la letizia manifesta il dono di Dio ed esprime la sua lode. Per questo, «il pi alto e appassionato impegno (di Francesco) fu quello di possedere e conservare la gioia spirituale»[39], «una continua letizia spirituale intima ed anche esterna»[40]. Che cosa vuol dire questo «spirituale»? Ai frati egli impone: «Si guardino di non mostrarsi tristi di fuori e rannuvolati […], ma si mostrino lieti nel Signore e convenientemente graziosi»[41]. Parlando di sé, dice: «Quando mi trovo in un momento di tentazione o di avvilimento, mi basta guardare la gioia del mio compagno […] per ritornare allegro»[42]. Per esclusione, la letizia francescana non è un fatto puramente mistico e non ha dimensione intimistica. Che l’effetto del «guardare la gioia del compagno» sia una letizia spirituale, non risolve il problema della natura della gioia guardata. In positivo, la valenza di tale letizia è, come minimo, anche «esterna»: si mostra nel volto.

Del resto, sui contrasti dell’animo nel rapporto con il divino l’autore ribadisce duramente: «È questione privata tra te e Dio. Ma alla presenza mia e degli altri procura di mantenerti lieto. Non conviene […] che (il servo di Dio) si mostri depresso e con la faccia dolente al suo fratello o ad altra persona»[43]. Sottolineare l’aspetto «facciale» della gioia e relegare nel «privato» il mondo delle situazioni soprannaturali è segno di leggerezza spirituale e/o di facile buon senso. Invece no.

Nella ricchezza della «discrezione», una delle caratteristiche migliori del rivoluzionario medioevale Francesco d’Assisi – senza nulla togliere a un Benedetto da Norcia – l’indicazione suddetta modifica l’ascetismo tradizionale – almeno quello più noto: il rapporto con Dio non si pone contro quello con il prossimo, il valore interiore contro quello sociale. Ma, a sua volta, tale mutamento prospettico, che ha un’influenza giovannea, è vero per una dinamica che nulla toglie all’importanza dello spirito, e che inoltre supera di molto il semplice suggerimento del buon senso comune. Esso richiede che non sia vanificata per una circostanza individuale e «privata» la «lode» della gioia con i fratelli e per i fratelli a Dio.

La «festa», poi, è «intima», non intimistica. In effetti, non soltanto essa si vede, ma anche ha un fondamento, cioè la consapevolezza raggiante che è Dio, «per primo», ad amare l’uomo, che si appunta sulla speranza non circa le proprie attese, ma circa quelle altrui. Su tale disposizione ulteriore, lontanissima dalla superficialità gioconda, va inserita la francescana pazienza che addirittura alimenta la «festa» dell’Assisiate, e che altrimenti sarebbe un diffidabile volontarismo.

Una delle pagine più gustose della prosa francescana, che qui brutalmente riassumiamo, dice[44]: un superiore dell’Ordine tiene un sermone ufficiale ai frati; i frati gli dicono che è un imbecille e che si tolga dai piedi, anzi lo malmenano di santa ragione. «Se non accetterò tutto questo con la stessa faccia (allegra), non sono per niente un frate minore». Del resto, il fondatore impone: «E dobbiamo godere quando siamo esposti a diverse prove, e quando possiamo sostenere qualche angustia o afflizione di anima o di corpo in questo mondo in vista della vita eterna»[45].

Si badi: è l’afflizione che è posta in relazione alla «vita eterna», non la gioia. La gioia è senza premio: è posta per se stessa, anche se non può darsi se l’afflizione non è vista nella divina ricompensa. La gioia non può essere calcolata: la fede nel premio è condizione della pazienza, non contropartita della gioia. L’aver gioiosamente pazienza di chi perseguita i propri progetti esprime dunque la certezza che ogni momento della vita contiene un’offerta che va al di là delle proprie richieste.

Quando, in punto di morte, Francesco, «invece d’esse’ triste, canticchiava»[46], e si curava pure di far contenta l’affezionata «fratello Jacopa», dimostrava il massimo della gratuità della gioia: e non perché fosse lieto di morire – convinto come era di andare in un mondo migliore –, ma perché, potendo tenere per sé la sua gioia, la orientava verso quella altrui. Per i vicini, egli chiede che gli si suoni una bella musica, «edificando il prossimo»[47]. Un episodio simile si ha quando l’Assisiate, malato, chiede a un frate, forse Pacifico, di prender «di nascosto» una cetra per suonargli una canzone. «Il mio corpo soffre – dice l’austero in uno dei più toccanti colloqui delle biografie –, e io voglio alleviarlo per essere allegro»[48]. In questa richiesta, come in quella dei «dolcetti» di donna Jacopa, il sorprendente pazzarello manifesta qualcosa della stravaganza giovanile, ed è appena credibile che l’irriducibile e spietato interprete della povertà volesse far «acquistare» uno strumento musicale[49]. È indicativo il seguito del racconto per cui, avendovi egli rinunciato perché il frate si vergognava, «Dio stesso era intervenuto a portare gioia a Francesco», facendo cantare gli angeli[50]. A parte il «miracolo», che però nella sua sostanza è del tutto comune, il senso del racconto è che la gioia è un principio che si impone su ogni altro. A non capirlo fu proprio il ministro frate Elia, il quale probabilmente temeva che il moribondo confidasse troppo nella «misericordia» che riteneva aver ricevuta da Dio[51]. Ma il senso di quella originale allegrezza non era nel sapersi, diciamo, sicuro, bensì nel fondamento di questa stessa sicurezza: la coscienza della vita e della morte, come del fuoco che riscalda e del fuoco che «cauterizza», quali occasioni della «lode» di Dio[52]; e, in ciò, giustamente non si dà misura, poiché essa è al di sopra delle traversie stesse dell’uomo.

Tale coscienza, diciamo, ingenua è deducibile da una frase dell’Assisiate, il quale contrappone l’uso moderno degli strumenti musicali all’uso «nei tempi antichi, in cui gli uomini li utilizzavano per la lode di Dio e il sollievo dello spirito»[53]. L’Assisiate sembra intenzionare in questa espressione quell’armonia dell’uomo con le cose create in ordine alla «lode» divina, che felicemente Maria Sticco ha rilevato parlando di «comunione con le cose per simpatia umana, propria dei poeti, e per simpatia divina propria dei santi»[54].

Una delle definizioni francescane di Dio: «Tu sei gaudio e letizia»[55], spiega meglio la famosa concezione passata nella storia della spiritualità successiva e in particolare nella pedagogia delle famiglie che sono state «generate» dall’Assisiate – secondo cui «i demoni non possono far danno» ad un cuore allegro[56]. La ragione per cui un «animo desolato e piangente, con tutta facilità […] è trasportato alle gioie frivole»[57], rappresenta solo l’aspetto conseguente, non quello fondativo.

Il motivo di fondo è che in armonia con Colui che è «gaudio e letizia» non può essere chi non vive la gioia; e, a sua volta, ciò perché egli non entrato nella dimensione della pacificazione radicale nella quale consiste il «gaudio e letizia».

La gioia, poi, si riversa sugli altri e sa inventare per loro tutto ciò che è salutare, come fa Dio stesso con la creazione («erano tutte cose belle e uguali / tutt’opere der nostro Creatore»)[58], e con ogni altra opera di generosità. Il «presepio» di Greccio, ad esempio, deriva dall’intuizione festosa del fatto munifico dell’Incarnazione, e nasce come un gioco. Il «giorno della letizia, il tempo dell’esultanza»[59] vede Francesco «raggiante di letizia», e anche un popolo che «si allieta di un gaudio mai assaporato prima […] le rupi echeggiano i cori festosi […] e la notte sembra tutta un sussulto di gioia»[60]. Questo «festino» natalizio echeggia quelli prodighi di gioventù: un nobile «cavaliere», presente alla scena viva del Natale, vede, dicono le fonti, lo stesso Bambino Gesù nel presepe. È quasi come il «banchetto» che, una volta, Francesco offrì a Chiara, alla Porziuncola: sembrò che la selva andasse in fuoco[61]. Gli stessi «festini», in convento, il giorno di Natale: non si pensi alla penitenza, «anche i muri mangino carne, e se questo non è possibile, almeno ne siano spalmati all’esterno»[62], «i buoi e gli asini ricevano una razione di cibo e di fieno più abbondante del solito», si spargano «granaglie per tutte le vie, perché ne mangino in abbondanza gli uccellini e le sorelle allodole».

Siamo allo stesso stadio della prodigalità di giovinezza, di offerta gioiosa «fuori misura», e, all’evidenza, ma solo nell’aspetto apparente, fuori ragione. Ma, dice la poesia popolare parafrasando la biografia dell’Assisiate, «Er lupo da quer giorno ebbe giudizzio / e l’omo mardicente se convinse / che, senza perde’ er pelo, perse er vizzio»[63]; «È l’omo che nun cià riconoscenza, / ma loro, da li rami o da li tetti, / scennèvano cor canto e li cinguetti / a un cenno suo, co’ tanto d’ubbidienza»[64].Citiamo solo questi accenni popolari, non ritenendo neppure il caso di soffermarci sulla risposta di gioia che tutte le cose diedero al prodigo di letizia[65].

È tutta «illusione», questa? Scrive il poeta romanesco: «la gente era felice, perché, in fonno, / la vita non è fatta d’illusione?[66]. Certo: è l’illusione che risponde al bisogno antropologico. Ma essa non insegna soltanto il bisogno di prestar fede a qualche cosa; essa significa che ciò, che in definitiva gratifica l’uomo, è il prestar fede al «gaudio e letizia» senza limitazioni. «Tu sei gaudio e letizia».

È su questo presupposto organico che noi riteniamo compiutamente giustificata la precisazione dello Specchio di perfezione: «Non si deve però supporre o immaginare che (egli) intendesse che la letizia si palesi con risa o parole oziose, poiché in tal modo si esterna la vanità […] e la fatuità […]; non solo non voleva che (il frate) ridesse, ma neppure che offrisse agli altri la minima occasione a frivolezze»[67].

Certo, noi abbiamo presente il Francesco d’Assisi che dorme sulla roccia, lacrima sul Crocifisso, e tratta duramente il suo corpo «fratello»; ma né l’ascetismo né tanto meno lo spirito francescano spiegano del tutto il bando alle «risa» e «parole oziose» se non perché queste non sono una festa. Egli parla infatti di tali espressioni in quanto segno di «vanità e fatuità», proibendo esplicitamente «conversazioni oziose e vuote (con le quali il frate) muove la gente a sciocche risa»[68]. Non ci sorprenderemmo vedere un san Francesco conversare serenamente con «fratello Jacopa» su tante piccole cose della vita, comunque di certo sui dolci che ella gli preparava quando riceveva la sua visita, in casa, a Roma. E con ciò, non intendiamo scusare l’Assisiate di non essersi fatto vedere, come un san Felice da Cantalice, fratello cappuccino (+ Roma, 1587), per strada a tracannarsi allegramente fiaschi di vino: ciascuno ha il suo modo di cantare la gioia. Francesco insegna comunque che la gioia non è mai egoistica: le espressioni futili e oziose, che in fondo nascondono a se stessi la mestizia, non dicono esultanza, ma momentanea esuberanza e, invece che donare un beneficio, si impossessano del consenso altrui. Esse dunque sono uno sciupio di bene, e del resto nascono nello sciupio del tempo e dell’opulenza. Il presupposto del donare è l’esser povero.

Sia che si rida, sia che si mangi dell’«uva» con il fratello malato («Così il frate riprese forza, e insieme lodarono il Signore»)[69], il criterio che conta è la gioia del prossimo: anche se occorra fare qualche strappo a qualche regola. La gioia sa in che cosa stia la gioia degli altri.                                                                 Francesco di Ciaccia

 

[1] Ne sono convinti studiosi specialisti: cfr. Fredegando d’Anversa, L’allegra giovinezza di San Francesco, ne L’Italia francescana, 1 (1926), pp. 273ss. Per il problema più in generale, cfr. Stanislao da Campagnola, Le origini francescane come problema storiografico, Perugia 1974, soprattutto pp. 23-27.

[2] Vita seconda, II, 6, in Fonti Francescane, Assisi 1978, tr. S. Colombarini, p. 557. Indicheremo queste Fonti con la sigla FF.

[3] Vita seconda, III, 7, in FF, p. 558.

[4] Anonimo perugino, 3, in FF, tr. V. Gamboso, p. 1126.

[5] II, 4, in FF, tr. V. Gamboso, p. 1069.

[6] Tommaso da Celano, Vita seconda, I, 4, in FF, p. 556. Per le ragioni che mostreremo, non riteniamo un «luogo comune agiografico» questa anticipazione dell’Assisiate.

[7] II, 4, in FF, p. 1069.

[8] Tommaso da Celano, Vita seconda, I, 4, in FF, p. 557.

[9] Francesco card. Ragonesi, «La carità del Serafico fonte dei suoi amori», ne L’Italia francescana, 2 (1927), p. 161.

[10] Leggenda dei Tre Compagni, II, 6, in FF, p. 1071.

[11] Cfr. Acta Sanctorum, II, 4 ottobre, pp. 70ss. Per l’Oliger, cfr. «Archivum Franciscanum Historicum», 1 (1908), pp. 45ss.

[12] V. Banal, Er fio der mercante, vv. 7-8 e Côre de poeta, vv. 6-8, rispettivamente in sonetti francescani. In dialetto romanesco, Roma 1926, p. 6 e p. 7.

[13] Vita seconda, III, 7, in FF, pp. 558-559.

[14] Vita seconda, in, 7, in FF, p. 559.

[15] Già prima della visione, egli, «seguendo un proposito nato da convinzione, a nessuno rivolgeva parole ingiuriose o sporche; anzi […] era deciso a non rispondere a chi attaccava discorsi lascivi» (Leggenda dei Tre Compagni, I, 3, in FF, p. 1068).

[16] Leggenda dei Tre Compagni, I, 2, in FF, p. 1067.

[17] Leggenda dei Tre Compagni, I, 2, in FF, p. 1068: «arrivava a cucire insieme nello stesso indumento stoffe preziose e panni grossolani».

[18] Leggenda dei Tre Compagni, I, 2, in FF, p. 1067, 1068.

[19] Tommaso da Celano, Vita seconda, I, 3, in FF, p. 556.

[20] Leggenda dei Tre Compagni, I, 2, in FF, p. 1068.

[21] Leggenda dei Tre Compagni, I, 3, in FF, p. 1068.

[22] Leggenda dei Tre Compagni, I, 3, in FF, p. 1068.

[23] Rispettivamente, vv. 5-8, in op. cit., p. 13 e vv. 12-14, in op. cit., p. 14.

[24] Bonaventura, Leggenda maggiore, II, 2, 5, in FF, tr. F. Olgiati, p. 846, 848.

[25] V. Banal, Li briganti, vv. 10-11, in op. cit., p. 20. Cfr. Tommaso da Celano, Vita prima, VII, 16, in FF, p. 426.

[26] Bonaventura, Leggenda maggiore, II, 1, in FF, p, 845.

[27] V. Banal, A San Damiano, v. 10, in op. cit., p. 16.

[28] Chiara d’Assisi, Testamento, 12, in FF, tr. C.A. Lainati, p. 2270.

[29] Rispettivamente, Tommaso da Celano, Vita seconda, IX, 14, in FF, p. 565 e ibidem, v, 9, in FF, p. 561.

[30] Cfr. R. Ritz, Le subconscient religieux dans la conversion de Saint François d’Assise, Caen 1906 e G. Portigliotti, San Francesco d’Assisi e le epidemie mistiche del Medio Evo. Studio psichiatrico, Palermo 1909.

[31] Cfr. Leggenda dei Tre Compagni, IX, 33, in FF, p. 1091.

[32] Leggenda dei Tre Compagni, X, 40, in FF, p. 1097.

[33] Leggenda dei Tre Compagni, IX, 34, in FF, p. 1092.

[34] San Francesco d’Assisi, Milano 1945, p. 315.

[35] Maria Sticco, op. cit., p. 316. Cfr. anche G. Getto, Letteratura religiosa dal Due al Novecento, I, Firenze 1967, p. 81.

[36] Si tratta del libro del Nuovo Testamento: Leggenda perugina, 56, in FF, p. 1222; cfr. Specchio di perfezione, II, 38, in FF, tr. V. Gamboso, p. 1343.

[37] Leggenda perugina, 55, in FF. p. 1222; cfr. Specchio di perfezione, II, 36, in FF, p. 1341.

[38] Leggenda perugina, IX, 104, in FF, pp. 1417-1418.

[39] Leggenda perugina, 97, in FF, p. 1266.

[40] Specchio di perfezione, VI, 95, in FF. p. 1406.

[41] Regola non bollata, 7, 17-18, in FF, tr. F. Mattesini, p. 106.

[42] Leggenda perugina, 97, in FF, p. 1266; cfr. Tommaso da Celano, Vita seconda, XCI, 128 e Specchio di perfezione, 95-96.

[43] Leggenda perugina, 97, in FF, p. 1266.

[44] Bonaventura, Leggenda maggiore, VI, 5, in FF, p. 883.

[45] Regola non bollata, XVII, 9, in FF, p. 113.

[46] V. Banal, Al Vescovato di Assisi, v, 10, in op. cit., p. 41.

[47] Leggenda perugina, 24, in FF, p. 1188.

[48] Leggenda perugina, 24, in FF, p. 1188. Cfr. anche Tommaso da Celano, Vita seconda, LXXXIX, 126, in FF, pp. 655-656.

[49] Il Celano fa dire al santo, invero, «prendere a prestito», comunque sempre «di nascosto» (Vita seconda, LXXXIX, 126, in FF, p. 656).

[50] Leggenda perugina, 24, in FF, p. 1189. Passi paralleli, già citati.

[51] Leggenda perugina, 64, in FF, p. 1231; cfr. Specchio di perfezione, XII, 121, in FF, p. 1437.

[52] Cfr. ad es. Tommaso da Celano, Vita seconda, CXXV, 166, in FF, 686-687.

[53] Leggenda perugina, 24, in FF, p. 1188.

[54] Liberamente da op. cit., p. 316.

[55] Lodi a Dio Altissimo, 8, in FF, tr. F. Mattesini, p. 177.

[56] Specchio di perfezione, VI, 95, in FF, p. 1406.

[57] Tommaso da Celano, Vita seconda, LXXXVIII, 125, in FF, p. 655.

[58] V. Banal, Er lupo de Gubbio, vv. 3-4, in op. cit., p. 32.

[59] Tommaso da Celano, Vita prima, 85, in FF, p. 478.

[60] Idem, ibidem.

[61] Fioretti di San Francesco, XV, in FF, riveduti da P.B. Bughetti, pp. 1485-1486.

[62] Tommaso da Celano, Vita seconda, CLI, 200, in FF, p. 712. Cfr. Specchio di perfezione, XI, 114, in FF, p. 1429, Stessa referenza per le cit. seguenti.

[63] V. Banal, Er lupo de Gubbio, vv. 12-14, in op. cit., p. 32.

[64] V. Banal, L’uccelletti, vv. 5-8, in op. cit., p. 39.

[65] Diamo solo la sintesi del Celano: «Tutte le creature da parte loro si sforzano di contraccambiare l’amore del Santo e di ripagarlo con gratitudine. Sorridono quando le accarezza, dimostrano segni di gioia quando le interroga, obbediscono quando comanda (Vita seconda, CXXV, 166, in FF, p. 686).

[66] Er presepio de Greccio, vv. 13-14, in op. cit., p. 36.

[67] VI, 96, in FF, p. 1407.

[68] Ammonizioni, 21, in FF, p. 145.

[69] Specchio di perfezione, II, 28, in FF, p. 1335.

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