1982, SRF, L’elemosina
L’elemosina come socialità radicale in Francesco d’Assisi, «Studi e Ricerche Francescane», 1-4 (1982) pagine 156-171.
Testo dell’Articolo
Ferdinand Gregorovius, affermando di Francesco d’Assisi, con esaltante ammirazione, che la “massima (sua) dottrina era non possedere cosa alcuna”, il suo “ornamento […] l’abito di accattone”, e che i suoi “modi di trar la vita derivavano dalle elemosine volontarie”, ne approfondisce il senso attraverso la sintesi del movimento degli “idealisti” compagni dell’Assisiate, spinti a “gettarsi in braccio della nuda inopia (non da) una ribellione contro la impari ripartizione dei beni terreni, (ma da) un impulso religioso che agitava la mente umana inferma” e che li rendeva “cinici e comunisti”, come aveva reso il maestro, “sul breve confine che divide la luce dalla tenebra”, un “visionario”. Quel “fervido profeta […] tutto cuore […], nel quale si rifletteva un raggio del genio divino”, quel “Dionigi vero del medio evo […] povero e grande sognatore”, tradito da successori tali che, non essendo riusciti “a riformare la società umana”, distorsero il “regno di mesti rapimenti” in una “forma esteriore” codificata, fu in pratica costretto “a diventar legislatore” di un “ordine di errabondi”[1].
Il quadro non solo presenta dell’Assisiate l’istanza innovatrice, ma anche ne coglie tratti di indiscussa storicità, come la mancanza di problematiche (presenti invece in altri suoi contemporanei) esplicitamente sociali, lo stile di un uomo dall’“animo poetico”, l’influenza esterna nella formulazione “legislativa”. Dalla dicotomia fra “istituzione e progetto primitivo” (Franco Gaeta), già propria della storiografia umanistica su Francesco d’Assisi, all’effigie “profetica” alla maniera di un Cola di Rienzo, e alle oleografie “eroico-inimitabili”, da una parte, del cattolicesimo settecentesco (Daniele Menozzi) e, dall’altra, in tensione antimonastico-istituzionale, dell’illuminismo[2], il quadro sembra tuttavia soffrire di una insufficiente attenzione alle fonti documentabili. Non resta utile, dunque, che analizzare nel concreto il fenomeno del “non possesso” dell’Assisiate, poiché discorrere sulle estasi “visionarie” o meno, e sui “mesti”, o meno, “rapimenti” porterebbe ad un discorso interessante — meritevole di uno studio a parte —, ma, in questo nostro ambito, chiuso, fissato cioè sulla base dei presupposti interpretativi.
Francesco ha qualificato il “servizio” di Dio dei frati con l’essere i “suoi giullari, che devono sollevare il cuore degli uomini e condurlo alla gioia spirituale”[3]. Molti storici hanno circoscritto la sostanza del carisma francescano in questa caratterizzazione, a partire soprattutto dagli ambienti protestanti o comunque riformistici, tanto che lo stesso Erasmo focalizzava il “significato universale del suo esempio nella vita evangelica, attuata con pochi compagni in spirito di libertà”[4]. Con un progetto interpretativo differente, Maria Sticco traccia questo scorcio di vita minoritica alle origini: “(i frati) non possedevano nulla, nemmeno il mantello […], perché dovevano essere pronti a cederlo a chi lo richiedesse, mangiavano frutti di bosco o tozzi accattati per carità, dormivano sotto un portico, sui gradini di una chiesa, ai piedi di un albero”[5]. A Bologna, frate Bernardo si prende “tutti gli insulti possibili, ma poi, ammirato da un certo professore, Messer Niccolo, e fatto segno di venerazione, ritorna alla Porziuncola dal fondatore pregandolo di mandare là altri frati, perché egli, per sé, non vuole che sassate e vituperi. La sopportazione paga, ma i diretti discepoli di Francesco preferiscono la pazienza ai vantaggi della pazienza. Altrettanto, sembrerebbe, prediligono, “giullarescamente”, il sostentamento mediante elemosina all’elemosina come “ultima ratio” di sostentamento. Ma l’insistenza di tanti biografi sulla “nobiltà dell’elemosina” (Maria Sticco) è, correttamente, come anche in J. Joergensen e altri, un fondamento incapace di determinare una visione semplicisticamente pauperistica dell’impegno francescano nel mondo, come anche noi, analizzando l’aspetto “festoso” dell’Assisiate, abbiamo osservato come esso non comporti un “mistico vagabondaggio” né una “libera sequela per fede”, alla Lutero, “trasformata in legge” traditrice[6]. Una proposta per un’organizzazione del movimento francescano sul “modello zingaresco” è stata da non molto formulata da Luigi Sesti[7]. Ma, a parte ogni possibile realizzazione storica dell’ideale francescano, occorre, prima, penetrare il senso dell’“elemosina” secondo l’Assisiate — come punta di diamante della sua povertà —, evitando sia un’esaltazione politico-pauperistica, sia un’apologia intimo-individualistica, ambedue tributarie di culture parziali.
Il “non possedere alcuna cosa” come “massima virtù” per l’Assisiate non richiede documentazione[8]; il problema è se essa costituisca la massima “dottrina”, ed eventualmente in che senso. La prima virtù, nelle Lodi delle virtù, e l’ultima, conclusiva, sono, rispettivamente, la “regina sapienza” con la sorella “la pura e santa semplicità”, e la “santa obbedienza” verso tutte le creature, “così che (esse} possano fare di lui (l’uomo) quello che vogliono […]”. La “seconda” virtù menzionata nel testo è la “signora (domina) santa povertà”, con la sorella “santa umiltà”. Se la composizione ricalca altri encomi del genere e dipende sostanzialmente da una tradizione patristica[9], ci sembra debitrice, anche nel concetto di “sapienza”, di quell’influsso “orientale” che acutamente Stanislao da Campagnola ha osservato a proposito dell’“obbedienza”. Tuttavia, nessuna eredità su Francesco basta a spiegare come mai il poverello intransigente non abbia mutato i rapporti tradizionali.
Le conseguenze imposte dall’Autore alle virtù sono le seguenti: la sapienza confonde “satana”; sua sorella la semplicità confonde “ogni sapienza di questo mondo e la sapienza della carne” — una “semplicità”, dunque, il cui valore nell’economia spirituale francescana merita uno studio specifico —. Carità e obbedienza confondono, rispettivamente, le “diaboliche e mondane tentazioni”, e “tutti i timori umani”: effetti, dunque, in stretta connessione fra loro. In mezzo, la povertà, che confonde “cupidigia e avarizia e le preoccupazioni di questo mondo”. La povertà allora assicura la confusione di mali che sono conseguenze o implicazioni dei mali eliminati dalla regina e dalla carità-obbedienza. Essa è perciò, dottrinalmente, domina, vale a dire, feudalisticamente, padrona di un dominio vassallo, non già del regno. Se la povertà è tutt’altro che secondaria nel pensiero francescano, il suo orizzonte intrascendibile ed il suo principio sia efficiente sia teleologico con-sistono veracemente nella “sapienza dei semplici” e nella “carità obbediente”. L’essenza della povertà francescana è una donazione alle creature per amore di Dio, tale che elimina le “cure” terrene; una qualsiasi concezione “illuminata”, nel senso del profetismo medioevale e non, è impensabile. Mendicare o andare a piedi nudi hanno, francescanamente, senz’altro valenze ascetiche e anche “profetiche”, ma non valor eidetico nella struttura profonda della religiosità francescana.
Morendo, Francesco sollecitò dei “dolcini” da mangiare: per onorare l’amicizia, è vero, ma comunque li mangiò[10]. La mendicità povera, come sottolinea il Manselli, fu una dignità riconquistata, ma entro la forma essenziale dell’amore fraterno e, come riafferma egregiamente Stanislao da Campagnola, dell’” imitazione di Cristo”, non “nel simbolo e in astratto” bensì nella modalità concretamente più fedele”[11]. “La sua (di Francesco) aspirazione più alta, il suo desiderio dominante, la sua volontà più ferma era di osservare perfettamente e sempre il santo Vangelo e di imitare fedelmente con tutta la vigilanza, con tutto l’impegno, con tutto lo slancio dell’anima e del cuore la dottrina e gli esempi del Signore Nostro Gesù Cristo”; e, subito dopo, il Celano prosegue: “Ma soprattutto l’umiltà dell’Incarnazione e la carità della Passione […]”[12].
Francesco d’Assisi, “accattone” e “immediato in tutto”[13], lo fu in ogni caso con intelligenza e larghe vedute. Se, nel Medioevo, “di fronte all’espansione trionfante della potenza del denaro la rinuncia alla ricchezza, il rifiuto di adattarsi alle condizioni sociali nuove si riallacciano ai valori tradizionali del cristianesimo”[14], ciò vale anche per l’Assisiate in tutta la sua rivoluzionarietà. E se il primo abito di Francesco fu “simile a quello degli eremiti, con una cintura di cuoio, un bastone in mano e sandali ai piedi”[15], i modi francescani di “uscire dalle condizioni pratiche della vita” (Gregorovius) normale, di mercante e più in generale di borghese, non si rapportano, nonostante le apparenze, alla fanatica “inopia”. L’abito “eremitico” dipende dalla necessità, o convenienza, per il giovinetto che, appellatosi alla Curia vescovile contro la citazione paterna al tribunale civile, in qualche modo è inserito nella configurazione giuridica regolata, nel Medioevo, dall’autorità ecclesiastica[16]. Ma l’Assisiate non intendeva porsi, né in forza dell’“abito” né in forza dell’“elemosina”, in quelle categorie “sociali” (Geremek) protette e quasi istituzionalmente disciplinate, vuoi dei “penitenti” vuoi dei “poveri”[17]: poiché egli si pone, innanzitutto, nella sua povertà, e di conseguenza ricorre all’elemosina. Se, all’inizio, i frati si dichiaravano alla gente come “penitenti”, era perché “il loro Ordine non era detto ancora Religione”[18], cioè perché, di fatto, essi non sapevano bene, ancora, quello che fossero sul piano giuridico. Ma l’intenzione autentica di Francesco più maturo, ad esempio, circa l’“abito”, con le implicazioni sia civili che religiose, è in effetti bene indicata, nonostante l’indubbio segno apologetico, dal Celano: perché Francesco fosse reso “più emulo della povertà”, ma “soprattutto”, con la simbolica forma di croce, emulo “del Crocifisso”[19]. Se Francesco, subito dopo la conversione, riscontrò nell’elemosinare lo strumento fattivo per essere povero — simile è la dinamica della “riparazione delle chiese” —, ciò era anche alla luce di una dichiarazione di rottura con il passato, come fa capire Bonaventura sottolineando, dopo altri biografi, la circostanza che il giovane “non aborriva dal chiedere l’aiuto dell’elemosina anche a coloro con i quali aveva avuto l’abitudine di vivere da ricco”[20].
Certo, la mendicità non fu per Francesco una fortuita occasione. Innanzitutto, essa “allena” alla mortificazione, ed “è santa la vergogna che non ritrae il piede”, anche se, con equilibrato rigore, Francesco ammette “il rossore che spunta su un volto sensibile, non altrettanto l’imbarazzo che confonde”[21]. Elemosinare era dunque, all’inizio, una sfida contro se stesso[22]; e se i mendicanti venivano, spesso, definiti come “gaglioffi, paltonieri, furfanti, bianti”[23], tale giudizio era pertinente in modo particolare proprio al giovane figlio di Bernardone, privatosi dei propri beni per poi andare a “rubarli” agli altri. L’insistenza del Fondatore perché si andasse a mendicare ha radici anche in questa sua originaria scelta di umiltà[24].
Altra considerazione. La mentalità medioevale, per cui la povertà era “une condition et une vertu”[25], il cui pregio derivava nell’occasione offerta di far “esercitare la carità”[26], trova riscontro in Francesco d’Assisi: perché “gli eletti compiano verso di essi (i poveri) azioni degne di essere premiate dal Giudice”[27]. Infatti, fare l’elemosina lava “l’anima dalla bruttura dei peccati” (Lettera a tutti i fedeli), e ottiene l’amore di Dio nei cui confronti “ciclo e terra sono un nulla”[28]. Perciò, commenta Francesco nella Leggenda perugina, 60, bisogna chieder l’elemosina “più francamente e gioiosamente che non farebbe un uomo il quale, volendo comprare qualcosa, sospinto da cortesia e generosità, andasse dicendo: ‘Per una cosa che vale un denaro, io verserò cento marchi d’argento!’. Anzi mille volte di più”. Ma, a parte la categoria “cortese” che proietta la dinamica puramente “economico-spirituale” su un piano di “generosità” assolutamente altruistica e disinteressata — categoria che richiederebbe una riflessione a se stante —, è illuminante la considerazione premessa dai biografi antichi agli “elogi della mendicità” di Francesco: cioè, che gli uomini, in realtà, sono tutti nella condizione di mendicare. Essi sono mendicanti del “Grande Elemosiniere” (Bonaventura), il quale, “dopo il peccato, ha messo tutti i beni a disposizione (di tutti), dei degni e degli indegni”, “per amore del diletto suo Figlio” (Specchio di perfezione)[29].
La mendicità di Francesco è trasferita dunque, nella sua intima verità, nell’universo del “sociale”: non nel senso ristretto di rapporti, spirituali (soltanto) e storici, tra uomini in un determinato mondo sociale, ma nel senso universale della “società della creazione”. Perciò, se “l’elemosina è l’eredità e il giusto diritto dovuto ai poveri”, essa è umile accoglimento e fiducioso contraccambio, in rapporto innazitutto all’amore di Dio per tutti e per ciascuno: “e con fiducia l’uno manifesti all’altro le proprie necessità”, dice l’Assisiate nella Regola non bollata, IX, 10-11.
L’obiezione per cui, se così fosse, dovrebbe essere Francesco stesso, e dovrebbero i suoi frati, a fare anch’essi l’elemosina, non necessita di controprova, tanti, ed alcuni così noti, sono gli esempi dimostrativi[30]. Ci piace, qui, ricordare solo un episodio, tra l’altro molto grazioso, che lo Specchio di perfezione pone all’origine dell’osservazione citata: alcuni cavalieri, “in un borgo del contado assisano”, vanno a comprare qualcosa per Francesco ammalato, non trovano niente da comprare, tornano dall’ammalato e, con aria quasi canzonatoria, gli chiedono le elemosine! Francesco, quasi di colpo infervorato di spirito — quei brav’uomini non avevano capito niente del suo messaggio? —, li rimanda indietro a chiedere l’elemosina. A parte le circostanze concrete che potrebbero aver determinato il susseguente successo, l’operazione è emblematica perché esprime questo pensiero francescano: non è nel dare, o nel ricevere, l’essenza della mendicità francescana, ma nel credere che tutto, davvero tutto, è, nel dare e/o nel ricevere, dono di Dio. In fondo, è anche vero che il Fondatore sapeva che i frati, pur non possedendo nulla, non avrebbero mancato del necessario (anzi temeva che avrebbero avuto del superfluo!); ma è proprio qui il senso della mendicità francescana: la certezza che tutte le cose sono di Dio, e che solo lui è il donatore.
Perciò, chiedere per amore di Dio non è né un mezzuccio per impietosire, né solo — lo è anche, ma hi questo contesto — una dichiarazione di compenso: è l’affermazione che le cose ricevute e/o date, così come il “dovuto” compenso, provengono esclusivamente da Dio. Ne consegue che per il rivoluzionario Assisiate, nella sua grandissima e vera umiltà, sono coinvolti alla pari sia chi chiede, sia chi è richiesto: in questo fondamento ha senso compiuto l’avvertenza perché non ci si vergogni a elemosinare. Infatti la vergogna, indicando un sentimento di inferiorità, nega la fede nella sovranità di Dio, così come nella sua paternità: e questa negazione è, per Francesco (leggere attentamente il Cantico delle creature), la massima rapina, la suprema ingiustizia nei confronti del Padre Creatore.
In questa cornice si capisce anche la norma di questuare solo per il giorno corrente; qui ricordiamo[31] la proibizione, addirittura, di mettere a mollo, la sera, i legumi da mangiare il giorno dopo: cosa che, invece, dicono le fonti, “si usa fare”. Nella sua stranezza, non mai senza saggezza, qui l’Assisiate ha insegnato come l’uomo debba, sostanzialmente, gettarsi sempre nelle “viscere della misericordia”, come direbbe san Paolo.
Osservando di nuovo il giovinetto che, ancora a cavallo, incontra un lebbroso, scende, lo bacia, e poi se ne va tutto contento, oltre alla “vittoria” su se stesso che le fonti notano come necessaria al “cavaliere” che vuoi essere di Cristo, noi pensiamo all’originaria esperienza dell’Assisiate: di aver ricevuto qualcosa dando qualcosa, ed esattamente di aver ricevuto non da qualcuno, ma solo attraverso qualcuno. L’effusione e la generosità successiva con i lebbrosi ed i poveri è arricchita dall’esperienza di siffatta socialità radicale: il “vedere Cristo lebbroso nel lebbroso” non è solo dunque un’eredità di cultura biblica[32]. Bonaventura, che sottolinea ciò, acutamente prosegue, infatti: “Da allora (egli) si rivestì dello spirito di povertà e d’un intimo sentimento d’umiltà e di pietà profonda”. Umiltà: poiché, con il dare e con il ricevere, l’uomo si sottomette all’uomo per amore di Dio.
Allora acquista significato profondo la gioia di Francesco nel vedere i frati non solo andare mendicando, ma addirittura emularsi nel “prendere” offerte più degli altri (“Io ho preso più di te!”): cosa perlomeno strana in un Francesco d’Assisi. Ma il biografo[33] fa capire che la felicità del poverello non fu per l’abbondanza della questua; infatti egli la mette in rapporto ai frati, “così lieti e di buon umore”. Appunto! La elemosina francescana è, essenzialmente, nel farsi dono agli altri, in servizio fraterno. Dono, anche, di gioia.
Era Natale. Si prepara a Greccio un buon pranzo, tra l’altro “coprendo le tavole con belle tovaglie bianche […] guarnendola di bicchieri di vetro”[34]. Francesco nota la “ricercatezza” della mensa dei frati, e, non visto, esce, poi, “travestito da pellegrino”, bussa alla porta, chiede in elemosina per amore di Dio qualcosa da mangiare, si siede “a terra”, appartato dai frati che, pur riconosciutolo, non sanno che cosa dirgli. Ma non aveva, proprio lui, dichiarato che, a Natale, si dovevano “spalmare di carne anche i muri”?[35] L’inspiegabilità è tradita dai frati nel loro, almeno apparente, comportamento imperturbato. Ma due sono le circostanze preziose che esprimono l’insegnamento del Fondatore, anche se a diverso livello. Egli accusa la “ricercatezza” della mensa, perché, dice, i frati “vanno ogni giorno a questuare di porta in porta”. Se questuare è evangelico, resta sempre un prender qualcosa da altri; ora, ciò che si prende per necessità non può essere tale da permettere superflue necessità. Altrimenti, la questua è un imbroglio o un facile mezzo di sostentamento.
Ma ciò non spiega tutto. Infatti, cospargere i muri di carne vale, sì,
come espressione di esultanza, ma rimane pur sempre una prodigalità futile; anche se per il Signore ed escluso l’egoismo, il punto di vista del “furto” non cambia. L’altro rilievo, più radicale, è dunque indicato dalla stranezza della “veste da pellegrino”. Infatti, sia pur “per terra” e “mendicante”, Francesco mangiò bene quello che avrebbe mangiato alla mensa, “elevata da terra”, imbandita dai frati! Ma la soluzione è appunto qui: che si mangi qualcosa, “ricercatezze” a parte, di più, non è ciò l’appunto mosso dal santo. (In fondo, neppure il problema delle “tovaglie” è importante). Importante è l’esser “pellegrino”, è l’esser “mendicante”. Tutto il brano, davvero bello nella sua freschezza poetica e incisività narrativa, dimostra questo: l’avere in proprio vuol dire fidarsi di se stessi; ricevere dal prossimo, invece, impegna il credere che le cose sono di Dio, e sottomettersi ai fratelli.
Questuare, dunque, è francescanamente un fatto il cui valore è spirituale. Ma non affatto soltanto.
C’è un altro episodio simile, ma più scandaloso. Francesco è invitato dal vescovo di Ostia[36]; “furtivamente” “per riguardo al vescovo”, esce dalla sala, va a questuare, ritorna, mette “le elemosine sulla tavola” e si siede, come “voleva” il vescovo, accanto a lui. Il prelato “quella volta rimase un po’ male”. Ma non basta. Francesco mangia qualcosa delle elemosine, poi ne distribuisce fra i commensali “cavalieri e cappellani del vescovo”, naturalmente “come dono da parte del Signore”. Per concludere: il vescovo, edificato con “gioia esultante” (!) per i segni di stima rivolti da tutti a quel matto, tira in disparte il santo, gli rivolge tanti complimenti con un chiaro, però, “fratello mio semplicione”, e gli dice con più schiettezza: “[…] mi hai fatto l’affronto […]”. Orbene, Francesco risponde: “[…] io vi ho reso un grande onore”, e si difende dignitosamente richiamandosi alla propria “professione”. In ordine all’insegnamento da offrire ai suoi frati, presenti e futuri. A dispetto dell’intento apologetico del biografo, e dato anche per scontato questo tipo di dovere del Fondatore, non crediamo nello stile dell’Assisiate mettersi a insegnare il valore, spirituale o no, dell’elemosina a chi sta mangiando del proprio. Indicativa è la conclusione del discorso di Francesco al vescovo: egli è più felice quando mangia alla mensa dei poveri che non quando mangia a quella del vescovo. Il vescovo, che forse capì, gli rispose: fratello, fa’ quello che credi, “Il Signore è con te”. Ma forse non capì. Del resto, non era più semplice declinare l’invito? Tanto, di “affronti”, per l’appunto, Francesco ne faceva lo stesso!
L’azione dell’Assisiate, poco diplomatico, sì, ma sempre discreto, “positivo” e “mai critico” (J. Joergensen), si giustifica appunto in un contesto “positivo” di insegnamento. “Il pane dell’elemosina”, precisa il santo al prelato, è “pane santo”: perché rivestito della “lode e amore di Dio”. Se è così, egli non ha denunciato formaliter e directe il pranzo in se stesso — cui del resto egli si associava, in qualche modo, con l’aggravante della “venerazione” che vi riceveva —; egli, esattamente ed essenzialmente, indicava quale dovesse essere la dimensione entro la quale qualsiasi fruizione di beni è meritevole: il servizio vicendevole. Il “sia lodato e benedetto il Signore Dio”, che Francesco ricorda al vescovo essere la premessa della richiesta di elemosina, esprime proprio la dinamica per cui il dono si ha solo da Dio, e ciò mediante il fratello, la cui mediazione è essenziale per la sottesa convinzione che il Padre si serve dei fratelli dell’uomo. E l’uomo non fa che servire l’intenzione del Padre: il servizio scambievole è dunque lode di Dio.
Lo strumento privilegiato di tale servizio è il povero: sia perché immagine più evidente di “colui che si è fatto povero per noi”, sia per la sua maggiore capacità di entrare — se non di comprenderla appieno — in questa dinamica. Un frate “sparla di un povero”[37]; a parte il disturbo viscerale di Francesco per le “mormorazioni”, più che la risposta data al frate è significativa l’ingiunzione imposta da Francesco: fa togliere la tonaca al frate, lo fa inginocchiare “ai piedi del povero” e gli fa chiedere perdono e preghiere. Che cosa era accaduto? Era accaduto che il frate, svilendo lo strumento mediante il quale è reso proprio più possibile il servizio, depauperava anche se stesso della propria identica funzione. Quindi: “Su, presto, togliti la tonaca”. Come in altri, anche in questo caso l’intento di Francesco non era di ignorare le possibilità dell’imbroglio: era, più in radice, di individuare gli elementi essenziali del rapporto in universale, così che il male sociale fosse meno praticabile.
La reciprocità del dare è essenziale al servizio. Degli innumerevoli esempi francescani qui analizziamo solo qualche particolare. Un giorno l’Assisiate dona ad un povero, “non avendo niente per le mani […], un lembo della tonaca”, scucito dal resto dell’abito[38]. Gesto insulso: elemosina stupida. Senza mettere in dubbio la tenerezza dell’atteggiamento generoso, con il quale le fonti commentano l’episodio, resta il fatto che l’offerta è inutile. Ma quell’inutile elemosina — a prescindere anche dalla rappresentazione primaziale della strumentante del povero — proponeva “ingenuamente” che anche ciò, che non può esser dato a causa delle proprie necessità, non appartiene a sé, per il principio radicale della funzione “di servizio” di ogni uomo e dei suoi beni. (Nello stesso capitolo, il Celano avverte che il santo “altre volte […] si tolse perfino i calzoni»). Lampanti sono gli episodi seguenti, che qui sintetizziamo[39]: Francesco impone a un compagno di “restituire il mantello (ad un povero), perché è suo”, avendolo il frate avuto in prestito fino a quando non si fosse imbattuto in “uno più povero”: “Io non voglio essere ladro, e ci sarebbe imputato a furto […]”; e a Rieti, invitato allo stesso modo un guardiano, che “in realtà l’aveva comprato (il mantello) poco prima, perché era necessario a Francesco”, e che quindi risponde: “[…] è mio e non l’ho avuto in prestito da nessuno”, il Fondatore taglia corto: “Restituisci il mantello ricevuto in prestito dalla poveretta”.
Ciò vuol dire che il dare l’elemosina per amore non è gratuità, ma giustizia: ciò che è dato non appartiene né all’offerente né all’accettante. Meglio ancora: il dare “in elemosina” è gratuità, ma lo è dalla parte di Dio: l’uomo è, invece, in obbligo per quell’amore a tenere, quanto ha, con disponibilità di servizio. L’elemosina perde così la connotazione pietistica e paternalistica: acquista il livello di “fraternità”, anche come disposizione soggettiva, sulla quale insistono le fonti, della necessità del servizio.
Parlare dell’affettuosità del servizio è entrare nel nucleo della riflessione sul “sociale” francescano. Lo rivela un gesto apparentemente» inefficace — o anti-“sociale” —, quale il seguente[40]. Un tale, “pieno di livore” verso il padrone, da cui è stato frodato, incontra per caso l’Assisiate, e ne riceve “in regalo” il mantello perché, perdonando per amor di Dio, si salvi l’“anima” e, può darsi, riceva anche il “maltolto”. L’impianto è, nell’esplicito, etico-individualistico; ma solo per un verso è “consolatorio”, e per nulla socialmente “conservatore”. Se infatti l’Assisiate resta di fatto al di fuori delle problematiche sociali reali[41], è per non inibire, in una individua configurazione storica, il suo principio che va all’essenza di ogni possibile configurazione storica. Rivendicare i propri diritti, ma con “livore”, è in radice, per Francesco, lo stesso che non mendicarli. Egli indicò che, al di fuori della radicalità del servizio, non si dà che imprescindibile sopruso, e la storia resta fissata, dannatamente, nell’alternanza dell’intranscendibile sopraffazione. Egli impone a tutti la stessa obbedienza[42]: e, questo, non è per nulla una posizione di comodo o di “alienazione” storica. Se una Rappresentazione del dì del Giudizio[43] del sec. XV pone sulla bocca di san Francesco un’accusa contro i “mendicanti” dal “cuore avvelenato”, non è solo per un discorso moralistico; quell’accusa sottende che, nella proporzione in cui il messaggio dell’“idiota” non è operante, la storia non cambia.
C’era un frate che non solo “non si prestava per la questua, ma valeva per quattro a tavola”[44]. Che il Poverello lo abbia cacciato via, e con parole dure, è di poco conto; interessante è l’annotazione del biografo, che fa dire al santo come quel frate fosse “partecipe del frutto, ma non della fatica”. L’acutezza è nel rapporto tra “frutto” e “fatica”. Ma non solo nel senso che, per avere il frutto, bisogna faticare: ciò rientra ancora nella logica “economica” di sempre, Medioevo compreso. Poiché la “fatica” (“questuare”, lavorare”, ecc.) non è intesa da Francesco come posizione di un atto che dà diritto al frutto, ma come posizione di un atto che obbedisce al diritto del fratello che sia servito (diritto che il Padre di tutti ha dato a tutti) — ovviamente, la relazione è vicendevole —, allora il “frutto” non è in rapporto alla “fatica” come ciò che è dovuto, ma come ciò che è ricevuto. La “fatica”, compiuta non già per avere diritto a un bene, ma per poterlo accettare per ( = dall’) amore di Dio attraverso i fratelli[45], diventa un dovere verso Dio e verso il prossimo, e perde ogni “economico” tornaconto. Se, così, sembra scardinata tutta l’impostazione “sociale” e “di diritto”, in realtà essa ottiene un fondamento più generale e più giusto. Quell’impostazione è, da un punto di vista concreto, pur necessaria: ma non rappresenta l’orizzonte totale e perfetto. La donazione servizievole è l’ultimativa ed essenziale ragione perché uno non possa essere “fuco” — come Francesco ha chiamato quel frate.
Sono da vedersi in siffatta luce gli esempi in cui l’Assisiate mostra addirittura una certa violenza nel dare l’elemosina, così come la preferenza a “chiedere l’elemosina di porta in porta” piuttosto che prenderla da “benefattori” spontanei: cioè, per evidenziare sia il proprio obbligo del dono, sia la fatica del servire. Il “servire al prossimo mediante la questua” non sembri un servizio troppo facile. Formalmente, esso esige l’offerta, ma solo per amore di Dio. Ora, mentre il dono di Dio all’offerente è garantito — poiché l’amore di Dio non è possibile, ma necessario —, il dono dell’offerente al richiedente è solo possibile. Di fronte alla possibilità negativa, il richiedente è posto nella contraddizione da una parte di non poter imporre legittimamente l’offerta, ed è ciò che gli vieta di “giudicare” il rifiutante, e dall’altra di veder frustrato il proprio servizio. Se Francesco, “Padre dei poveri”, dice il Celano, spesso “andava a chieder lui l’elemosina per i poveri”[46], era, sì, per tenerezza; ma con la premura di evitare agli altri questa contraddizione.
Questa contraddizione, la quale implica in sé, se tolta, tutta la ricchezza del “dono servizievole fraterno”, spiega l’imposizione ai frati degli eremi di chiedere l’“elemosina” alle loro “madri”[47], cioè ai frati stessi che, negli eremi, svolgono la funzione di “Marta”. Di per sé, praticamente, questa norma è insulsa, perché le “madri” non potevano non dare il necessario ai loro “figli”, cioè ai frati dediti alla contemplazione come “Maria”: sarebbe bastato che questi ultimi avessero riferito i propri bisogni ai frati incaricati allo scopo. Ciò dimostra allora che, per Francesco, i beni sono solo elemosinabili, e che egli amava per i suoi frati l’esperienza assoluta di amore nel “servizio” fraterno.
Tutt’altro, dunque, che essere un “Dionigi vero del medio evo” (Gregorovius), cioè un saggio, compiaciuto di se stesso, sprezzante le comodità “normali” della vita, l’Assisiate è un maestro di dedizione, il quale, attraverso il superamento delle pressioni “normali” della vita, sia fisica sia sociale, istituisce “ingenuamente”, e, ma non da alti piedistalli di olimpici compatimenti, indirettamente le fondazioni della giustizia universale, fra uomini e cose, e sociale, fra uomini e uomini: il che, tutto insieme, come giustizia pura e semplice.
Dell’individualismo etico e sociale l’Assisiate non ha avuto quanto in esso è negazione dell’impegno “comunitariamente” inteso, ma, in primis, quanto in esso è negazione di sensibilità affettuosa. Poi, che tale fraternità sia stata da lui vissuta, e posta deliberatamente, ad un livello di “soprannaturali” credenze, ciò, al contrario che restringere e mortificare, proprio esso ha consentito quella espansione di intelligenza “profetica” nell’umiltà, per la quale Francesco è ancor oggi uno stimolo, per lo meno, ineludibile. [Francesco di Ciaccia]
[1] Citato in Paolo Giudici, Storia d’Italia, II, Firenze 1930, 505s.
[2] Per Franco Gaeta, Francesco d’Assisi nell’Umanesimo, cfr. Anna Scattigno, L’immagine di Francesco nella storiografia, Assisi, 15-18 ottobre 1981, in «Quaderni medievali», 13, giugno 1982, 221. Per Daniele Menozzi, L’immagine di Francesco nella cultura del 700, ibid., 224.
Ad esempio, Lucchesino Lucchesini riconobbe a Francesco un valore, “finché (egli) restò un penitente solitario”, ibid., p. 224. Sul problema generale del rapporto, di lacerazione o meno, tra l’ideale dell’Assisiate e l’attuazione dei suoi frati, cfr. Stanislao da Campagnola, in Fonti Francescane, Assisi 1978, Introduzione, 338s. (sigla FF), e A. Gemelli, Francescanesimo, Milano 19476. Sulle pressioni esterne subite dal Fondatore nella redazione giuridica della Regola, cfr. solo l’acuto accenno di Stanislao da Campagnola, op. cit., 334s e 343s.
[3] Specchio di perfezione, 100, in FF, tr. Vergilio Gamboso, 14; cfr. Legenda perugina, 43.
[4] K. V. Selce, Francesco nella storiografia protestante del ‘500, in A. Scattigno, loc. cit., 223.
[5] San Francesco d’Assisi, Milano 1945, 108. Per gli episodi successivi, cfr. ibid., 110-113. Il titolo del paragrafo citato, “I cavalieri erranti», è indicativo per il richiamo ai Cavalieri, detti Erranti, della Tavola Rotonda, cui l’Assisiate “cavaliere” fa esplicito riferimento (Specchio di perfezione, 72). Sull’argomento, cfr. Pio RaJa, San Francesco d’Assisi e gli spiriti cavallereschi, in «Nuova Antologia», 61, fasc. 1310, 16 ott. 1926, 386s.
[6] Per M. Sticco, cfr. op. cit., 104-106; di J. Joergensen, cfr. Saint François d’Assise. Sa vie et son oeuvre, nella tr. franc. di Teodor de Wyzewa, Paris 1913, 348s. Per Lutero, cfr. K. V. Selce, in loc. cit., 223-224. Per il nostro art. sulla «festa in Francesco d’Assisi», cfr. «Communio», XI, 64, lug.-ag., 1982, 91-104.
[7] La religione nel mondo contemporaneo, III, La ricerca dell’assoluto, Roma 1977, 339-341 (par. «Il movimento francescano»). In effetti, nel mondo francescano si è più volte sentito il bisogno di esperienze su linee del genere; ma il problema è sulla necessità di tale dimensione.
[8] Cfr., per il testo delle Lodi delle virtù, di cui sotto, Francesco Mattesini, in FF, 175. Sulla “povertà” francescana, soprattutto in rapporto al “denaro” e nel contesto storico medioevale, individuato nella disamina dantesca, stiamo in effetti conducendo uno studio specifico.
[9] Cfr. stanislao da campagnola, in FF, 83.
Per il Bonizone, che indica l’obbedienza figlia dell’umiltà, e principale virtù, cfr. Liber de vita christiana, ed. E. Pereles, Berlino 1930, cap. II, 2, p. 34.
Per il rapporto tra povertà e umiltà, emergente nella Salutatio mariana di san Francesco, cfr. il nostro art. Il “Saluto alla Vergine” e la pietà, mariana di Francesco d’Assisi, in «Studi Francescani», 79, 1-2, 1982, pp. 55-64, soprattutto p. 63. Per il rapporto tra la “semplicità”, sorella della “regina”, e la povertà, “sorella” invece dell’umiltà, e quindi per la loro implicazione nella quale si configura stilnovisticamente (ante litteram) la “regalità” della “madonna povertà”, cfr. quanto è sotteso nel nostro art. «Madonna» povertà e Francesco nel canto XI del Paradiso, in «Studi Francescani», 79, 1-2, 1982, 139. E in effetti, nella peculiarità particolarissima dell’Assisiate, la “sapienza” — ma noi crediamo anche l’“obbedienza” —, ha tutta una sua connotazione “umile” (o da “idiota”), che si avvicina straordinariamente alla “povertà”, intesa nel senso profondo di “sapienza dei semplici”. Resta comunque la verità della “regalità” della sapienza, come orizzonte universale (da “regno”), nel quale la applicazione della “povertà” costituisce un diretto “vassallaggio”.
[10] Cfr. il nostro art. Chiara “domina” e Jacopa “fratello” di Francesco d’Assisi, in «Studi Francescani», 79, 3-4, 1982, 327-341.
[11] Raoul Manselli, San Francesco d’Assisi, Roma 19812, 45, 264ss. Per Stanislao da Campagnola, insigne studioso cappuccino, qui rimandiamo solo a FF, 325. Cfr. Tommaso da Celano, Vita seconda, 74, in FF, tr. Vergilio Gamboso, p. 614: “Carissimi fratelli, il Figlio di Dio era più nobile di noi, eppure per noi si è fatto povero in questo mondo. Per suo amore abbiamo scelto la via della povertà […]”.
[12] Vita prima, 84, in FF, tr. Abele Calefutti e Feliciano Olgiati, 477s. Torna, di nuovo, la considerazione sulla “poverella Madre di Dio”, di cui sopra. Per la “Passione”, si desidererebbe uno studio globale.
[13] Leggenda dei tre compagni, 21, in FF, 1083.
[14] B. Geremek, Il pauperismo nell’età preindustriale (secoli XIV-XVIII), in Storia d’Italia, I, Documenti, I, Torino 1973, 669.
[15] tommaso da celano, Vita prima, 21, in FF, 428. Cfr. Leggenda dei tre compagni, 21. L’Anonimo perugino, 8, parla di “vestito miserevole», in FF, tr. Vergilio Gamboso, 1128.
[16] Cfr. R. manselli, op. cit., 49ss.
[17] Cfr. R. manselli, op. cit., 674. Cfr. anche ibid., 676. B. Geremek nota che nella categorìa “sociale” dei poveri e dei mendicanti erano inclusi anche coloro che solo “occasionalmente” ricorrevano all’elemosina.
[18] Leggenda dei tre compagni, 37, in FF, tr. Vergilio Gamboso, 1094s.
Cfr. Anonimo perugino, 19. Sulla consapevolezza di una sua propria povertà, Cfr. J. JOERGENSEN, op. cit., p. 41.
[19] Trattato dei miracoli, II, 2, in FF, tr. Teodosio Lombardi e Maurizio Malaguti, 739. Cfr., più apologetico, Bonaventura, Leggenda maggiore, I, 1.
[20] Leggenda minore, I, lez. IX, in FF, tr. Sempliciano Olgiati, 1024. La sottolineatura è nostra.
[21] tommaso da celano, Vita seconda, 71, in FF, 612.
[22] Necessità di esperire, “lui-mème”, la povertà mediante la mendicità, ma anche, a nostro avviso, l’istanza di farlo ad ogni costo sono la ragione del pellegrinaggio del giovane Assisiate a Roma. Cfr. J. joergensen, op. cit., 41.
[23] “[…] che (i poveri) a nome della carità ladramente acciuffano un pane, ch’è non vogliono guadagnare col sudore della loro fronte […] destinati anch’essi a muovere il riso, non la pietà […]” (A. D’Ancona), in B. Geremek, op. cit., p. 676.
[24] tommaso da celano, Vita seconda, 75, in FF, tr. Saverio Colombarini: “il vero frate minore non dovrebbe lasciar passare molto tempo, senza andare per l’elemosina”: “per non lasciarsi penetrare dalla vergogna», precisa la Leggenda perugina, 62, in FF, 1229.
[25] M. Mollet, in B. geremek, op. cit., 669.
[26] “se non vi fossero mendicanti, non si potrebbe fare l’elemosina”, G. uhlhorn, cit. da B. geremek, op. cit., 672. La concezione è antica, poi formulata teoricamente da Tommaso d’Aquino e da Antonino da Firenze.
[27] tommaso da celano, Vita seconda, 71, in FF, 612, in riferimento a Matteo 25, 40-45, e Anonimo perugino, 4, in riferimento a Isaia 58, 7-10.
[28] Leggenda perugina, 3 e 60, in FF, 1166 e 1225. Cfr. bonaventura, Leggenda maggiore, IX, 1.
[29] bonaventura, Leggenda maggiore, VII, 10, in FF, 896, Specchio di perfezione, 22, in FF, 1327s.
[30] Solo qualche referenza di sfuggita: Leggenda dei tre compagni, I, 3; tommaso da celano, Vita seconda, 86.
[31] Leggenda perugina, 4; Specchio di perfezione, 19, in applicazione letterale di Matteo 6, 34.
[32] Cfr. bonaventura, Leggenda maggiore, I, 6, in FF, 843. Stessa referenza per la cit. successiva.
[33] Cfr. Leggenda perugina, 3, in FF, 1166.
[34] Per l’episodio, cfr. Leggenda perugina, 32. Per il tempo dell’episodio, cfr. feliciano olgiati, in FF, 1196, nota 20.
[35] T. da celano, Vita seconda, 199, in FF, 712.
[36] Per l’episodio, Leggenda perugina, 61, in FF, 1227ss: cfr. T. da celano, Vita seconda, 73 e Specchio di perfezione, 23.
[37] Per l’episodio, T. da celano, Vita seconda, 85, in FF, 622s.
[38] Cfr. t. da celano, Vita seconda, 90, in FF, 626, che commenta il fatto in rapporto alla “tenera compassione” per i poveri e all’“affetto che spingeva il santo a seguire le orme di Cristo”.
[39] Cfr. ibid. 87, in FF, 624.
[40] Cfr. ibid., 89, in FF, 625.
[41] “Francesco non ebbe l’idea di fare una rivoluzione e di cambiare radicalmente gli uomini: volle soltanto accendere, dentro un mondo che sembra condannato a non rinnovarsi mai, una luce che illuminasse le regioni assopite dell’anima e le facesse ricordare ciò che essa ha dimenticato”, giuseppe fagcin, Spiritualità medievale e moderna, Vicenza 1978, 29.
[42] Su questo problema, che esigerebbe una riflessione troppo impegnativa per essere qui trattata, cfr. willelm egger, Francesco d’Assisi. Il Vangelo come alternativa, Roma 1981, che non affronta sullo specifico il problema, ma che a nostro avviso offre indicazioni utili anche al riguardo. Sulla realizzazione effettuale della “socialità” come da Francesco intesa, ci proponiamo uno studio particolare.
[43] In B. geremek, op. cit., 676.
[44] Per l’episodio, cfr. T. da celano, ibid., 75, in FF, 615.
[45] Ne consegue, in pratica, tra l’altro, che, come è consuetudine imprescindibile nel francescanesimo, riceva ugual “frutto” chi non abbia, per causa non responsabile, potuto “faticare” in proporzione. Il dono che uno riceve è uguale a quello di chiunque altro, se egli ha, secondo tutte le sue possibilità generosamente attuate, offerto il dono della propria “fatica”.
[46] Vita prima, 76, in FF, 471.
[47] Cfr. Del comportamento dei frati negli eremi, in FF, tr. Francesco Mattesini, 135.
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