1983 SF, La francescanità delle laudi jacoponiane

La francescanità delle laudi jacoponiane sull’Assisiate, «Studi Francescani», 1-2 (1983) pp. 37-58.

Testo dell’Articolo

La «follia» di un poeta che è espressione, ma anche segno di contraddizione, di una temperie etica e storica densa di polemica, nella quale si colloca Jacopone da Todi con incidenza affascinante[1], ha suscitato tanta curiosità che il Sapegno potè meravigliarsi delle «mirabolanti avventure» dei critici del Tudertino[2]. Ma non sempre tale «follia» è stata rettamente compresa: essa è quella di un «pazzo tra gli altri pazzi», per dirla ad esempio con Arturo Graf[3], o comunque di un mistico «affocato» che non conosce misura. In molti studiosi ha giocato, negativamente, l’equivoco di osservare le espressioni del poeta come chiave interpretativa del suo animo, senza, prima, cogliere il suo animo per spiegarne le formulazioni. Solo chi ha avuto a sua disposizione gli strumenti concettuali per indagare sull’origine ulteriore della poetica jacoponiana ha potuto, correttamente, intendere gli esiti poetici del mistico medioevale. Noi qui intendiamo differenziandoci dai precedenti critici, dei quali nessuno ha fatto gran caso alle laudi francescane di Jacopone, seguire il poeta nel suo confronto diretto, esteticamente parlando, con il Fondatore, invece che, eventualmente, esaltarlo come colui che «meglio […] incarnò in sé il concetto di San Francesco»[4] e interpretò fedelmente l’«antica Regola e (il) Testamento del suo Patriarca»[5], oppure tacciarlo di «gioachimismo» contro il «dolce» francescanesimo[6], e negargli, come molti dopo il Papini, la «genuinità di spirito francescano»[7]. Jacopone ha scritto su san Francesco solo due laudi: nelle quali crediamo che egli mostri come, «forse più e meglio degli stessi biografi ufficiali, abbia meditato gli Scritti del Poverello che diventano non di rado fonte di ispirazione poetica e motivo di tensione morale»[8]. Ma vediamole in concreto.

***

 «O Francesco povero, patriarca novello».

Inizia così la prima laude sull’Assisiate: calma, come dice Feliciano Olgiati. Pacata. Serena, da rischiare l’apparenza dell’ovvietà. L’Autore non teme una presentazione semplice e quasi scontata: perché essa è semplicemente vera, storicamente assodata. Ciò basta a giustificare la contemplazione estetica da parte di un poeta francescano, e ciò basta alle intenzioni del discepolo; per nulla, dunque, quello di Jacopone, è uno spirito ambizioso e polemico.

«Povero», e per questo «novello». C’è qui, già, una precisazione di notevole acutezza, di radicalità spirituale: poiché è la povertà a giustificare l’attribuzione onorifica – per quanto consacrata ormai dall’autorità ecclesiastica – di «patriarcato». La «novità» di Francesco non è soltanto, per Jacopone, nell’aggiungere un’altra istituzione a quelle storicamente precedenti; la sua è infatti un’istituzione «patriarcale» perché è «nuovo» il suo apporto nella storia della Chiesa: cioè, con una specie di ipallage, perché – dice il Poeta – Francesco è «povero […] novello». La «novità» della povertà di Francesco non ci sembra per nulla lontana da quella del poeta Jacopone, per il quale essa è «assoluta ricchezza, ed effettiva signoria»[9].

È degno di nota che la figura jacoponiana dell’Assisiate – disegnata nella forma «crocifissa», per ragioni che sia il misticismo jacoponiano sia la spiritualità francescana spiegano a sufficienza – ricalchi, sostanzialmente, quella delle fonti antiche, sia pure in selezioni e in invenzioni determinate dalla sensibilità dello scrittore. In effetti, l’Autore si preoccupa unicamente di «abbreviare» la storia del «novello» crocifisso povero, per poterla «contare» (v. 5), più agevolmente, ai semplici, che non possono seguire un «longo trattato» (v. 6). Ora, questo ci sembra il significato essenziale della sua fedeltà alle fonti classiche: rendere tutti partecipi della verità dell’ineguagliabile Francesco[10]. Il parallelo racconto bonaventuriano si diffonde, con respiro mistico-biblico e, se pur oculata ed equilibrata, cura apologetica, per una necessità «politica» che Jacopone non ha bisogno, sembra, di riprodurre: piuttosto, il Poeta manifesta un orientamento diverso, per elezione e non per educazione «culturale»[11]. Alla «direzione laica», «incolta», segnalata dai critici[12], noi aggiungiamo l’impegno «morale» che, nella specifica laude in esame, ha impresso alla scrittura un «sentimento» corrispondente, ben alieno da quell’«espressione violenta e rozza del sentimento popolare» che alcuni lamentano nel Tudertino[13]: in realtà, «la sua bravura […] consiste nel ridimensionare […] lo strenuo impegno stilistico della lirica profana […] in nome d’una sincerità che non è di ordine sentimentale ma rigidamente morale»[14]. «Anche in questo, – come nota Emidio d’Ascoli a proposito del «volontarismo» jacoponiano come «esperienza vissuta», informante il laudario[15] – «Frate Jacopone è schiettamente francescano». Ora, l’esperienza vissuta è quella dell’umiltà, in questo brano poetico. Come al solito persino in un D’Annunzio, o, ancor più, in un Carducci[16], dinanzi ad un Francesco si smorza l’orgoglio, per quanto giustificabile (o avvincente!). Il reagire contro la «nuova tendenza» dello «stile cortigiano» che «aveva dell’artificio»[17] agisce, qui, nell’immedesimazione con lo stile stesso dell’Assisiate, insuperato poeta di profondissima semplicità e penetrazione, e permette alla poesia del rude Tudertino disciogliersi con forte spontaneità, «espressione d’un’anima personalissima e vigorosa che riesce […] a crearsi quel che si dice uno stile»[18].

Enrico Santoni ha riconosciuto Jacopone «francescano per le effusioni, di lirica pura e di pura musica, a Dio e all’amore»[19]; e possiamo incalzare con quanto asserisce il Sapegno a proposito dello Stabat Mater: «I mezzi adoperati […] sono ancor più che semplici, quasi poveri e direi prosaici, se non vi si sentisse scorrer per entro come un’onda d’eloquenza dominata e compressa»[20]. Orbene, nella composizione di cui trattiamo, apparentemente ripetitiva e che «succresce sulla poesia mistica di san Bonaventura»[21], l’Autore si impone per «una delle qualità più spiccate e pregevoli della (sua) poesia, (che) è l’ispirazione, […] madre della sincerità»[22]. Il laudario jacoponiano non è affatto, né in questa né in altre composizioni, un «libro di devozione» poeticamente limitato, come ha scritto il De Sanctis[23]: poiché la «devozione» del Tudertino oltrepassa la natura di una catechesi stereotipa e, anche nell’umiltà della ri-presentazione contenutistica, si fa visione interiore «personalissima», scavata nell’«humilitas passionis», come direbbe Franco Mancini.

Le «sette figure», che vanno dal «principio de tua conversione» fino all’apogeo de «la Verna», sono prive, nella laude, di intenti dimostrativi, diversamente che in Bonaventura[24]. La conclusione jacoponiana si concentra non solo sul mistero («dura fora a credere», v. 40a), del resto ben sottolineato dai biografi antichi, ma anche sulla fisicità delle stigmate. Di come e quanti, in Francesco morto, le videro, le biografie già tramandavano il racconto; e non è neppure importante che il poeta vi aggiunga un particolare «appreso dalla tradizione»[25]. È significativa invece l’insistenza della descrizione, che dimostra ancora una volta un poeta corposamente fantasioso, quale appare nelle scene altrettanto «carnali» di O Vergen plu ca femena, con gli «sguardi» amorosi di Maria che «lattava» il Figlio «parturito», cioè Dio stesso «en quella carne velata» (cfr. vv. 100, 106, 84 e 102). Ma questa nota jacoponiana, per quanto riferibile, fondatamente, al «carattere passionale»[26] del poeta, corrisponde ad alcuni atteggiamenti, non solo eccezionali e simbolici, ma anche consueti e realistici di san Francesco[27]. Ad essa, il poeta perviene con gradazione composta: senza polemiche e anche senza euforie celebrative; senza «sanguinose staffilate»[28] per nessuno. Le ferite sono solo in lui, in Francesco: quelle che, alla fine della laude, Jacopone vede baciare, «appicicate» dai suoi denti, da quelli di santa Chiara (v. 43). Se, qui, si può vedere «qualcosa di meno d’un perfetto spirito francescano»[29], sarebbe, direi, la prepotenza di una devozione nella quale l’Assisiate chiedeva discrezione. Ma la situazione non è identica[30].

Se è vero che «tra il maestro e il discepolo si drizza un’insormontabile barriera» perché «Jacopone non ha potuto, pur facendo getto di quant’ebbe di più caro al mondo, trasformare la propria natura; uomo di combattimento era e tale rimase»[31]; se è vero che in lui c’é una «violenza senza pace»[32], qui non c’è nulla di ciò. Semplicemente, con schiettezza narrativa quale è propria dell’Assisiate, Jacopone dice: «De croce trovam sette figure demonstrate» (v. 3).

Tale è l’inizio della cronaca: con il sapore del fatto. E il poeta si rivolge direttamente a lui: l’unico protagonista. Benché non senza una pregnanza omiletica, non c’è scontro: la propria passione, per quanto sofferta e tragicizzata dalla vita portata sulla breccia delle tensioni anche ufficiali, è elevata, esteticamente e psicologicamente, a purezza di insegnamento, sublimata a contemplazione esistenziale. Solo lui. Qui, dunque, c’è l’altro: tu. E non soltanto nella forma sintattica vocativa. Infatti, al «tu» sta di fronte il «noi» (trovamo). Jacopone non è «veramente maestro (solo) nella satira», come sostiene Aurelio Alunno[33]. Se, effettivamente, la satira mette «più in vista le caratteristiche del suo pensiero e del suo stile»[34], la poesia «assisiana» – come ci piace definirla – di Jacopone ne mette in luce la capacità estetica[35]: poiché egli è il teologo che «trasse […] non pure verità da istruirgli, ma bellezze da rapirgli; non pure delle lezioni, ma de’ canti», come disse Frédéric Ozanam[36].

Alla prima visione degli scudi in forma di croce (cfr. v. 9) è connessa la «dimostrazione», la profezia della missione: «un popol(o) […] t’è dato» (v. 10). Era necessario, aveva commentato il Celano, che appunto fosse «armato» il «soldato che si accinge(va) a combattere contro il forte armato» – da Luca 11, 21[37]. È notevole che il «battagliero»[38] Jacopone non colga questo rapporto, sia pure evangelico e morale, guerresco; e non già perché dubiti del fiero spirito dell’Assisiate, ma perché è il popolo («scuta», v. 9 e cfr. v. 10) a doversi crocifiggere. Francesco già lo ha fatto. Di qui, l’insegnamento: ma un insegnamento sommesso, rispettoso, privo di quegli isterismi che sono stati con troppa facilità individuati nel Tudertino[39].

Segue l’«enfocazione» (v. 12a) di san Francesco, nel cui cuore il crocifisso lo avrebbe condotto alle lacrime al solo suo pensiero (cfr. v. 13). L’infusione (cfr. v. 12b) del dolore è puramente fondata sul Cristo, solo l’amore è causa del pianto (cfr. v. 14a). La «straziata visione del Golgota» notata, in parte correttamente, dal Santoni[40], qui si addolcisce poeticamente e spiritualmente nell’affetto, nel «recordare» Gesù (v. 14a), maestro ed amico sofferente. Il medesimo tono non si perde nella «settima» visione, quella della «stigmatizzazione»: c’è, qui, «orazione» (v. 35b), c’è «devozione» (v. 36b),c’è «mirabil visione» (v. 37a). Di fronte all’estatico, c’è il noto «serafin» (v. 37b): «crucifisso è veduto con sei ale mustrato» (v. 38). Tutto qui.

Vedere in Jacopone solo sensualità («Persino la letizia del mistico è esaltata e torbida»)[41], non è giusto. D’altra parte, non è neppur assente, Jacopone, come poeta, e presente soltanto come catechista ripetitore di tradizioni. Infatti, nella sua esposizione egli porta il pensiero commosso più adeguato e più profondo che valga nel caso: la crocifissione non è, né più né meno, che cosa necessaria. Ogni orpello è fantasticheria sentimentalistica. Se Jacopone rammenta come le piaghe di Francesco, morto, furono «ammirate», e come egli «da molti fo palpato» (vv. 41-42), è solo per ravvivare, nel conforto visibile dei «segni», la fede interiore del popolo umile.

Anche nella laude francescana trovi il Cristo «ne la croce levato», dinanzi al quale il discepolo di Francesco aveva posto, in una laude pi famosa, una madre «smarrita», «sparita», che invocava: «Figlio, chi tt’à firito? Figlio chi tt’à spogliato?»[42]. Ma gli accenti drammatici, giustificati dall’angoscia materna nell’altra poesia, compaiono qui attutiti dal velo della naturalezza, per l’influsso della stessa esperienza iniziale dell’Assisiate[43]. Notate: Francesco, qui, «medita» (cfr. v. 11b), profondamente anche se (egli è ad un bivio esistenziale!) con una serenità trepida; poi l’«enfocazione» (v. 11a), poi ancora la forma verbale alliterante di «enfusa» (v. 12b), il perpetuo («sempre puoi […]», v. 13a) lacrimare, il pensare al Cristo in quanto (per l’omoteleuto «remembrava-recordava» che avvicina, retoricamente, l’oggetto dei due verbi) crocifisso, ed infine l’elevarsi, tragico ma salvifico nel richiamo giovanneo, sulla croce[44].

Nell’accostamento amore-dolore, spirito-carne (mistero-visibilità) troviamo uno dei più completi quadri jacoponiani, in cui il sublime della contemplazione si unisce alla vista sensitiva del miracolo contemplato. Se la «poesia affettuosa e fiduciosa […] di francescana dolcezza è solo, in Jacopone, di qualche riga»[45], noi la sentiamo senz’altro nelle «apparizioni» ripercorse in questa laude, O Francesco povero, e poi nel finale di O Francesco de Deo amato, «nei suoi due temi […] librati […] in un clima soprannaturale, ai margini del Paradiso e dell’Inferno»[46], che tuttavia nulla tolgono, come pure in un Francesco d’Assisi o in un Dante, alla speranza circa la «natura», che diviene «armonia», e all’amore verace di tutte le «cose».

In effetti, la direzione della laude francescana di Jacopone si determina anche in tensione morale, suscitata dall’esempio del «povero novello»: «prindi (la croce) con gran desire» (v. 16b) ed annichila te stesso. «Dall’interpretazione iacoponana – sostiene il Getto – viene fuori un’immagine di san Francesco che non solo è lontanissima dal profilo luminoso e puro che si delinea attraverso la figura del Cantico di Frate Sole e degli altri scritti francescani, ma che non si saprebbe a quale delle fonti biografiche o dei documenti iconografici accostare. Forse per trovarvi un ritratto in certo modo equivalente, […] suscettibile di accogliere come didascalia le parole che Jacopone mette in bocca al suo santo (‘«l’amor de l’Onnipotente me fa gir co ‘nebriato’), dovremmo cercare nella pittura dell’età barocca; […] non già, come nella celebre figurazione di Giotto, proteso in atto cordiale verso le creature, ma tutto ripiegato, in tormentosa e indicibile agonia, su se stesso»[47]. In realtà, se è vero che il «grande tema francescano delle creature» è fondamentalmente estraneo alla spiritualità e alla poesia di Iacopone […] (e) la natura completamente nascosta», poiché «le cose non sono viste, non sono poeticamente avvertite […] (ed egli) non pone i suoi versi davanti al creato», ciò è vero solo in quanto « […] non si verifica mai un passaggio dai sensi alle cose, produttivo di una distinta coscienza di esse»[48]; ma, d’altra parte, Jacopone, «francescano nel promulgare l’efficacia dell’esempio»[49], si interessa effettivamente di ciò che anche per l’Assisiate è, essenzialmente, l’importante: l’uomo, che «domina e solo realmente interessa nella considerazione dell’autore»[50], il quale «fondamentalmente si raccoglie intorno all’uomo e alle cose dell’uomo».

Ora, tale interesse non ha nulla di negativo né di pessimistico: poiché esso è in esplicito riferimento all’amore (cfr. v. 18b), nel quale si ricompongono, in radice, i rapporti fra gli uomini e fra l’uomo e le «cose», come ha notato bene Emidio d’Ascoli. Il proclamato «odio di sé» jacoponiano ha suscitato le paure di troppi commentatori[51], mentre ha indotto altri, tra cui Émile Gebhart, a preoccuparsi esageratamente di contrapporre al «terrore» medioevale la «letizia» di un Francesco d’Assisi[52]. Ma l’«amore per il prossimo», indicato perentoriamente proprio accanto all’«odio per se medesimo», spiega e ricapitola esaurientemente sia la dinamica ulteriore dell’odio, sia l’universalità dell’amore: si tratta di un odio «crociato», tale cioè che è salvezza, fa capire la «luce» e fa accettare nel proprio cuore tutti gli uomini e tutte le cose. Lo ha egregiamente notato Emidio d’Ascoli[53], per cui vogliamo aggiungere solo che Jacopone, nelle famose umiliazioni autopunitive[54], non ha proprio nulla di antifrancescano. Non solo compì, anche l’Assisiate, gesti simili, ma con la stessa intenzione: di «sequitare» il Cristo (v. 17b), perché occorre, prima di costruire, distruggere qualcosa di sé e di sé in rapporto alle cose. Sostenere che Jacopone era troppo crudo con sé e troppo rude con la natura per dare le «forme liriche, soffuse di poesia, della incantevole leggenda di Francesco d’Assisi», è più falso che vero[55], ed è falso del tutto il giudizio carducciano sulla «incomprensibilità» (E. d’Ascoli) della vita da parte del frate di Todi.

Nella laude francescana di Jacopone c’è la decisa riconferma dell’insegnamento di quell’uomo di solida umanità, che fu l’Assisiate, del quale i commentatori del Tudertino hanno spesso ignorato le parole: «E dobbiamo avere in odio il nostro corpo con i suoi vizi e peccati»[56]; e «[…] chi è veramente povero di spirito odia sé e ama quelli che lo percuotono nella guancia»[57]. Non è un caso che l’«odio di sé», nelle stesse parole del Fondatore, sia anch’esso in rapporto con la carità, come toglimento di ciò che impedisce la possibilità dell’amore. Del resto, Jacopone è più esplicito, al riguardo, altrove che nella poesia. L’«esser vile nel cospetto» di se stesso e il reputarsi «spiacevole a ogni uomo», condizione per acquisire l’umiltà, è giustificato ultimativamente in vista della «comprensione» degli altri, «colli quali (l’uomo) ha da conversare»: quindi in contesto ben concreto, e non fumoso o solo ideale. L’«amor di se medesimo» è respinto in quanto, precisamente, è «radice d’ogni male […], e diveglimento d’ogni bene»; il suo opposto, l’odio di sé, è ammesso come «distruggimento d’ogni vizio»; poiché, se uno m’offende, da ciò riconosco che ho l’«amor del prossimo […] (se) non l’amo però di meno; ché, se io l’amassi di meno, sarebbe segno che io imprima non amavo lui per lui, anzi l’amavo per me medesimo, cercando utilità dal suo amore»[58]. Altro che disprezzo per il prossimo!

Ci permettiamo insistere perché, anche a prescindere dagli equivoci sulle «fonti» francescane, gli strali contro il francescanesimo jacoponiano si sono rivolti, oltre che sulla divergenza circa la «sottomissione e il rispetto alle autorità ecclesiastiche»[59], soprattutto su questo aspetto, nel quale il Poeta di Todi è stato visto «mancare» rispetto al Poeta d’Assisi[60]: imbellito, però, quest’ultimo, dai cultori più della facile che della forte gioiosità e affettuosità creaturale.

Neppure nella successiva «figura», più politica, intravediamo alcuna ombra di arcigno pessimismo e bellicosa polemica: la «ecclesia è sviata»; Cristo comanda a Francesco: «repara lo stato suo» (v. 22). Al contrario, amore del prossimo e «riparazione» della Chiesa è la connessione che la poesia jacoponiana, sulla scia di tutte le fonti anteriori, ha correttamente posto[61]. L’incriminato poeta non aggiunge, qui, proprio nulla. Certo, c’è il «gran sono de vuce» (v. 20b) con il quale Cristo parla e comanda a san Francesco. Ma il concetto non rimanda, attraverso anche accostamenti semantici, al «cum clamore valido» della Lettera agli Ebrei? Nella laude jacoponiana è lui, il Signore, che, con la stessa penosità umile e con la stessa fortezza amorosa, chiede, ora – ma non lo ha inventato Jacopone! –, a Francesco di salvare ciò, per cui egli stesso, «nei giorni della sua carne», aveva soffocato le «alte grida», odiando se stesso per amare i suoi «fratelli». C’è, dunque, in Jacopone, la passione di Cristo per la sua Chiesa, non l’accusa contro la Chiesa. A parte l’acuta analisi di un umile e intelligente Emidio d’Ascoli circa lo spirito dell’invettiva jacoponiana indubbiamente, in altre laudi, dichiarata[62], anche in questo settore la maggior parte delle riflessioni critiche sul Tudertino tradiscono il meccanismo della presupposizione preconcetta, a volte ideologica e a volte superficiale.

Le altre apparizioni della «croce» si succedono con la stessa tonalità di pacatezza, nel fascino spiritualmente coinvolgente ed esteticamente dispiegato, senza segni tuttavia di ebbrezza, esercitato dal succedersi di meravigliosi e cari eventi. Vi trovi qui la semplicità dell’esposizione, vi trovi anche l’umiltà del cuore, l’affettuosità di famiglia nei confronti dei confratelli fortunati, Silvestro, Pacifico, Monaldo. Oltre a ciò, vogliamo solo segnalare un appellativo inconsueto («angelico», v. 28a) e un’espressione onorifica («degno de granne laude», v. 28b). La tensione si condensa, in crescendo, sul personaggio in se stesso, Francesco: il resto appartiene alla cronaca. In questa cronaca, compare la forza della protezione dell’Assisiate (cfr. vv. 25-26), e insieme l’attenzione, fondamentale, verso i destinatari: anche lo straordinario è importante e proficuo per l’uomo, quando esso è puro come una canzone, quando esso è semplice come l’animo innocente (cfr. sotto). Davvero, «se le anime fatte cittadine del cielo prendessero talento di lodare […], forse non vorrebbero usar altro che la dolce favella del Todino»[63]; in ogni caso, ciò vale per i cittadini della terra, e la poesia francescana di Jacopone, benché marcatamente più dialettale[64] di quella dell’Assisiate e di Dante, può ben confrontarsi con la loro.

Alla fine compare, come si accennava, la carnalità testimoniale. Chiara «addenta» le stigmate. Bonaventura aveva parlato solo di «bacio»[65]. Da notare, però, un altro particolare: la «carne» del Santo (v. 47) corrisponde, nel colore, a quella di Gesù, ricordata da Maria in Donna de paradiso (cfr. vv. 116 e 120). Nella laude francescana, la bianchezza è in significanza esplicitamente protesa verso la «puerilità». Così, Jacopone ha colto una nota essenziale del suo fondatore: durante i giorni della lotta, la carne di Francesco era «brunissima per li freddi» (v. 48a), nel giorno della rinascita essa ridiventa quale deve essere: bianca. Contrapposizione di valori? Contraddizione fra due categorie mentali? Per nulla. Anzi, connessione. Infatti, «l’amor la fe’ gentile, che par glorificata» (v. 49). Notate il «gloriosa», che semanticamente, nella letteratura biblica e teologica, connota un’acquisizione, non una dotazione[66]: la pelle macerata, annerita dal gelo, screpolata dal digiuno e dalle autodiscipline è un anticipo. Ed è solo questo, per l’austero: poiché essa si giustifica nel biancore, ha nell’amore l’unica scaturigine («l’amor la fe’ […]»).

Asceticamente corretto, per di più nella delicatezza dell’implicito, nel sotteso del rapporto tra innocenza e amore, tra bianchezza e dedizione senza misura, il passo jacoponiano è anche di altissima freschezza. Non valgono senza l’amore neppure, per il rigido Tudertino, le «stimate (nel) lato, pede e mano» (v. 39). La «piaga laterale (è) como rosa vermeglia» (v. 51); è un riferimento significativo alla terminologia tipicamente mariologica[67]. «Lo pianto», che «c’era» intorno all’uomo morto (v. 52a), era intorno ad una «meraveglia» (v. 52b). Ma quale meraviglia?

È la «semeglia de Cristo crucifisso» (v. 53), è il vedere «tale specchiato» (v. 54b). Anche alla fine della laude la commozione raccoglie il sussulto affettuoso e mistico («lo cor era en abisso», v. 54a), alieno sempre da fatue infatuazioni: il corpo è solo «specchio», Francesco è puro riflesso. Così, ogni libidine di orgoglio è, in radice, spezzata, in Jacopone, allo stesso modo che nelle più antiche fonti. Con «specchiato» termina la presentazione dell’Assisiate nella prima parte della laude, ricollegantesi, idealmente e strutturalisticamente, all’inizio, al «Francesco de la cruce signato». Ma non solo: al «Francesco povero». Con ciò, è sottesa la determinazione della «novità» della «povertà» di lui: cioè, che in lui si manifesta – meglio che in altri – l’essenza in cui consiste la totale e radicale validità della povertà: la privazione di sé, nel senso del riferimento di sé, assoluto ed intrinseco, a colui che, unico, è il bene. Esattamente quello che Francesco aveva già proposto, cantando, riguardo a Maria[68]. La «povertà» della Vergine francescana è la stessa del Francesco jacoponiano.

Segue una lunga lezione, di ammirazione e di insegnamenti; sulla sua poeticità sarebbe troppo lungo trattare[69]; quanto al legame con la concezione mistica, più generale, di Jacopone, non è necessario alcuna prova. Qui, solo un rilievo. L’inizio del brano, sull’«ammiranza» (v. 55b) dei frati e dell’altra gente al «veder la novetate» (v. 58a), manca della stringente sinteticità più tipica del poeta di Todi. Ma ciò è comprensibile: «Nullo trovamo santo che tal signa portasse» (v. 83). Ed è anche morale, e affettivamente poetico: l’Autore sente di partecipare con il popolo in venerazione. La sua ispirazione è, a scorno di molti, popolare. (Né per lui stesso, e neanche per i «novizi», occorreva tanto dispiego di considerazioni).

Anche qui, tuttavia, risaltano alcune espressioni che inchiodano profondamente per la loro incisività spirituale ed estetica: è il «Cristo novo piagato» (v. 58b), è il concitato moto verso l’«enfocato ardore» (v. 60b), è l’«ardore» consueto nel «core» dei «santi» (v. 61a), ma che addirittura è «uscito for» (v. 61b), ha «penetrato» il corpo (v. 62b), ha fatto «salire» il corpo là, dove esso poté essere «miniato» visibilmente (vv. 63b e 66b). «Piagato», «miniato», «vergato» (vv. 58, 66, 70): è penetrazione estatica ed estetica, che incide, non con retorica devozionistica, la poesia scavando l’orizzonte teologico, creando stilemi di dantesca potenza.

Il tutto, conducendo, in ascensione più scarna e incisiva del Paradiso dantesco, alla sostanza di tutto, laude compresa: «L’amore ha questo officio, unir dui en una forma» (v. 67). Il verso, perdendo la cadenza usuale, denota metricamente la sua funzione eccezionale: contiene il nucleo sovra-intuizionale di tutto il discorso. È qui l’apice della ideologia jacoponiana. Poi, l’«amore», che si ripete nel verso 70, acquista, di colpo, nonostante l’usualità dell’espressione, l’elevatura di francescana tempra: «amor divino altissimo» (v. 71a), l’«affetto suo ardentissmo» (v. 72a): sintesi di soprannaturalità e di umanità, mirabile coincidenza con i dicta ed i facta del Cantore di Assisi.

E che cosa nasce da questa affocata ed armoniosa unità? Nasce lo «stemperamento», l’umiltà di cuore. Segno che Francesco non è passato invano, per il «battagliero» di Todi. Le dichiarazioni successive circa l’incapacità di «parlare» (vv. 75a, 85b; cfr. vv. 75b, 76, e ss.) valgono come realistica insufficienza, e non occorre andare alla «teologia negativa» di Jacopone. Ma c’è un’altra constatazione più importante da fare: non è il fatto in sé (che è, appunto, segno, cfr. v. 88b) a costituire il valore delle stigmate. Esse significano il «mistero» (vv. 76a, 84a), il loro significato è «la smesurata amanza de lo core ‘nfocato» (v. 78).

Ora, il «foco non lo potem sapire» (v. 79). Esattissimo. Non solo: ma, per la verità del contrario applicato ai «segni», è sottinteso il pensiero jacoponiano che le stigmate sono un fatto non solo normale, nella sua dinamica, ma per questo anche comprensibile: il corpo non riesce a contenere il «fuoco» esorbitante (cfr. vv. 81-82). La «fabbricazione» divina delle stigmate «ammirate» (v. 87a) non è dunque intesa dall’autentico francescano di Todi come un episodio di stranezza edificante, oggetto appetitoso per gli storici. Da qui, anche il senso dell’ammirazione del popolo, che abbiano detto egli stesso alimenta, acquista la sua genuina natura: di fedeltà all’unico bene. Infatti, la «gran cosa», che le piaghe dimostrano (v. 88), è indizio di amore; ma non solo: è effetto di «amore crociato». Con ciò, esse diventano segno di contraddizione (cosa simile aveva detto il ben più vecchio Simeone del Vangelo!), discriminando, «a la fine», «quando sirà la iostra» (v. 89), il «popolo crociato» (v. 90b) da quello senza croce[70].

Il canto francescano di Jacopone sta concludendosi; così, come si era aperto, con la «croce». Ma si è anche allargato: dalle ragioni del singolo individuo – benché come «profeta», in ogni caso eccezionale – alle ragioni del «popolo» di Dio. Non solo è significante – cioè segno – il Francesco d’Assisi: lo è, addirittura, anche il Cristo. Il Crocifisso stesso rimanda al «popolo», nel senso che Gesù è colui, attraverso il quale il Padre riscatta a sé la creazione, e in particolare il popolo che nel Cristo e attraverso il Cristo è amato come «corpo», che è la «ecclesia», di lui, che è il «capo». La storia ritorna al Padre, dunque, per mezzo di Colui che, segno efficiente di tale riconciliazione, è «specchiato» in un segno effecto, per così dire: Francesco d’Assisi.

In questo contesto si colloca l’ultimo invito: bevi a «questo fonte» (v. 92b), inebriati di esso (cfr. v. 93a), «e non te ne partire»: distenditi sulla croce, fino a morire, che essa è fonte, e fonte di amore (vv. 93b, 94). Il «teorico» Jacopone, che vuole insegnare invece che, come Francesco[71], puramente praticare, non appare affatto tale, in questa laude francescana: egli ingiunge, ma indirettamente, e non eleva se stesso ad autorità né ad «illuminato» presuntuoso («gioachimita» o meno). Soltanto, egli ricorda. È tutto; anzi, ricorda soprattutto a se stesso: è il prosieguo della laude. È una preghiera a Francesco, è un esempio per gli altri. E neppur dubita, l’antipatico di Todi, delle altrui buone disposizioni. Forse, gli altri sono meno peggiori di lui. È ben vero che il culmine della contemplazione francescana da parte del mistico è posta nella in-effabilità: ma non per distanziare il volgo impotente, bensì, al contrario, per stimolarlo a «gustare» (cfr. v. 86b) ciò che non può esser capito se non è vissuto (cfr. lo stesso v. 86). E questo è, semplicemente, verità. Senza prese in giro.

* * *

Nella laude O Francesco da Deo amato[72], l’invocazione segna il senso stesso dell’intera poesia; segue subito la precisazione complementare: «Cristo en te s’ène mustrato» (v. 2). Il fondamento paolino è fin troppo chiaro: il significato di Francesco, e di ogni uomo, è l’esser da Dio, «per primo», amati.

All’origine non c’è affatto il «Nemico» del verso 2: costui è «engannatore», non già creatore (cfr. vv. 2-3). Dire di Jacopone che, al contrario di Francesco, veste Dio dell’abito del giudice «severo e accigliato»[73] non è esatto. Qui egli inizia con l’esemplificazione di un amore ricevuto ed offerto: attraverso Francesco, perché questi «raggiunse tal grado di perfezione nell’imitare Cristo, da lasciare a grandissima distanza tutti»[74], e perché l’Autore stesso intese essere «rigido» seguace del Vangelo e dell’esempio francescano[75]. Ciò detto, sottolineiamo l’evidente subordinazione, concettuale ed intuitiva, del «Nemico engannatore avverser de lo Signore» (v. 2), in perfetto allineamento con il Genesi, e, sostanzialmente, con l’Epistola ai Romani, il Prologo di san Giovanni, ecc.

All’«inganno» l’«amore» risponde con una creazione, o ri-creazione storica, di bene: tale è il nucleo, materiato poeticamente in una drammatizzazione biografico-spirituale, della laude, a proposito della quale si può applicare un giudizio felice del Flora, espresso da lui per l’insieme del laudario jacoponiano: «[…] la predicazione non riesce a mortificare le qualità poetiche fertilissime e verdissime del beato Jacopone: anche nella sua vaghezza di santità v’è un punto in cui la poesia s’accorda spontaneamente col divino […], affermandosi nella terrena essenza formale»[76]. L’«invidia» del demonio, contro la cui distruzione (cfr. v. 3) la Provvidenza concepisce la potenza umile di Francesco, sarà una formulazione interpretativa anche dell’Alighieri. È semplicemente ingiusto dire di Jacopone: «Il terribile odio di sé, degli uomini, del mondo e della vita mondana e la sgomenta e trepida aspettazione della morte […] li troviamo […] in tutti i gesti e gli atti del piccolo frate, che s’immagina di tener ritta, (da) solo, con eroico sforzo, la bandiera della fede, fra’ compagni traditori e vili»[77].

Innanzitutto, quanto al «demonio », anche san Francesco lo rammenta come l’«istigatore»[78], uno dei «nemici»[79], anzi «l’antico nemico»[80], per quanto sia chiaro che Jacopone, come ha ben riflettuto il Sapegno, vi insista con più trepidazione, per una conflittualità vissuta. Ma se l’Assisiate fu più propenso, per sublime delicatezza fraterna, a comprendere, quasi, da una parte, l’ingannato, con l’assunto dell’ingannatore «nemico»[81], seppe anche tenere in guardia l’uomo ingannabile. Pertanto, sia pur con stili diversi, l’uno e l’altro evidenziano, egualmente, un Medioevo «più gretto ma meno falso»[82] – nel senso che è più crudo nella sua verità – dei tempi moderni.

Nei versi 4-5 è esposta, senza morbosità alcuna, la caduta dell’uomo. A noi il quadro interessa per notare come essa sia individuata nella «superbia» (v. 7b), e il riscatto nell’umiltà, cioè in questo «fatto», che Dio «fecese om», togliendo così al nemico «tutto l’accatto» (vv. 8-9). Segue poi il principio storico-teologico, che sarà riproposto da Dante, dello sviluppo storico delle contraddizioni: lo «scacco» dato al nemico è stato rilanciato, dopo che Satana ha di nuovo «riappicciato» il mondo (v. 13b), attraverso una nuova «cavallarìa» (v. 15a): «San Francesco ce fo elesso» (v. 16a)[83], e «per confalonier è messo» (v. 16b), dice il poeta con terminologia mariana[84].

Poi, la polemica: nessuno va dietro a questo gonfalone (cfr. v. 17a). Ora, dopo il Sacrum Commercium, la stessa cosa sarà dichiarata anche da Dante[85]. E nel Tudertino non c’è, qui, più che negli antichi biografi, dura perentorietà; anzi, l’annotazione successiva (con valore logico di protasi) trasforma la polemica in principio propositivo: non segue Francesco e la povertà, se uno «al mondo (non è) desprezato» (v. 17b). Semplice verità, che la «grettezza» medioevale – di cui sopra – ha solo la colpa di non mimetizzare. Si tratta dello stesso concetto di Francesco d’Assisi, e non è assolutamente vero che il Tudertino lo faccia, per così dire, pesare sugli altri, con condanne aspre. Se Francesco imponeva, con estremo vigore, che qualunque «peccatore», per qualunque colpa al mondo (fatta esclusione dell’insubordinazione all’autorità della Chiesa), fosse innanzitutto accostato, umilmente, da parte dei superiori stessi, con spirito di «correzione fraterna», qui Jacopone neppure taccia nessuno di malvagità o di viltà. Dice solo la verità che il Fondatore aveva indicato nella «fiaba» sul «vero frate minore»[86], e che era stata praticata dai suoi compagni[87].

Lo stesso Bonaventura accosta chiaramente la povertà all’«essere sprezzato agli occhi propri ed altrui»[88]: povertà che è in rapporto anche con le altre virtù, in specie, nella laude jacoponiana oltre che nelle fonti antiche, con l’obbedienza (si badi! Dunque Jacopone lo sapeva!) e con la castità, in parallelismo perfetto con la visione delle «tre donne» sulla via di Siena[89], con l’insegnamento del Signore all’Assisiate nella narrazione dei Fioretti[90], e con le «dotazioni» francescane dello stesso Bonaventura[91]. Il corredo di povertà totale, definito «l’arme de lo Segnore» (v. 20b) con simbolismo cavalleresco delle fonti anteriori e con semantico richiamo alla prima visione di Francesco, e inoltre rapportato alle stigmate come causa profonda di esse (cfr. vv. 21b, 23b), si materializza con la «Pace»: invito ed augurio, che «en bocca gli è trovato» (v. 27b).

E solo dopo questa annotazione biografico-spirituale, tremendamente essenziale, sulla quale i critici hanno poco meditato[92], si ingigantisce nella laude la figura del «Nemico», acquistando aggressività. Dopo il terribile attacco della «pace» – che è supremo, mortale, contro l’«omicida fin dall’inizio» –, è comprensibile che la lotta, nella poesia illuminata dall’intuizione più vera, nasca.

La lotta è serrata, la «guerra» (v. 3la) corpo a corpo, Francesco entra in tentazione (cfr. v. 33).

«O Francesco, che farai?» (v. 34a).

Anche per questa sezione della laude ci sembra valere il giudizio di Natalino Sapegno a proposito del «Pianto della Madonna»: il poeta sfugge, secondo il critico, alla «stanchezza e aridità ritrovando un punto esterno di consistenza, producendo fuori di sé il contrasto delle sue passioni, rielaborando un mito, un racconto; rappresentando i suoi sentimenti non più in un mondo lirico ed analitico, bensì drammatico e plastico»[93]. Se il «Pianto della Madonna» si vivacizza molto di più per il conflitto maternità-divinità e nella drammaticità strazio-amore, l’altercatio Francesco-Satana esprime il suo significato nella stessa prosaicità. Il sentiero è tra i più concreti, e al contempo delicati e sublimi, di ogni spiritualità, peculiarmente di quella francescana: il poeta non cede né a lirismi esautoranti, né a teatralizzazioni da «flagellanti» o a radicalizzazioni da «millenaristi» (Ognuno potrà constatare che i principi del contrattacco di Francesco sono nel perfetto segno delle fonti autorevoli). Se i Fioretti stemperano solo nella melodiosa freschezza della fantasiosità poetica la «forte battaglia e noia» ingaggiata contro Francesco dai demoni, dei quali «l’uno lo pigliava di qua e l’altro di là; l’uno lo tirava in giù e l’altro in su; l’uno lo minacciava d’una cosa e l’altro gliene rimproverava un’altra; e così in diversi modi si ingegnavano di sturbarlo […]»[94], Jacopone è appuntato con sguardo lucido alla centralità della lotta: la quale sembra uscire dall’«intimo desiderio (del poeta) di librarsi nel silenzio dal tumulto delle passioni […]»[95].

La lotta è sull’essenziale. Ed è, pur tuttavia, calma. È biblica: con rimando all’archetipia delle «tentazioni di Gesù nel deserto», per solo nell’esemplarità intrinseca, con sobrietà sostanziale, senza imitazioni esteriori forzose. Trascurati i conforti contenutistici dei dati biografici francescani, qui valga soltanto qualche annotazione.

Intanto, la prima tentazione riguarda l’eccessivo rigore della penitenza corporale: perciò, l’aspetto meno importante, secondo il poeta mistico[96]. Probante è anche la risposta del tentato (v. 36), perfettamente «assisiana»: e ciò basta a denunciare il falso della raffigurazione jacoponiana da parte di pensatori un po’ paurosi.

La tentazione sull’«umiltà» è più sottile: occorre che «‘1 Segnor ne sia laudato» (v. 40). La risposta del tentato potrebbe apparire troppo recisa e superficiale. O magari farisaica (cfr. v. 40b). È invece radicalissima: il cuore dell’uomo è cosa solo del «Segnore». Punto e basta. A servire per la «lode» di Dio non è l’uomo nel suo industriarsi a «far conoscere» la propria positività. La lode di Dio è l’uomo stesso, nel suo vivere la propria positività come cosa di, e soltanto di, Dio. Il resto è solo gioco.

Per ciò Jacopone non ha dato coreografia pietistica neppure a questa tentazione: l’umiltà è la cosa più naturale che ci sia, per Francesco: e la «luce», per la quale egli è tentato di «mostrarsi», viene da essa, unicamente: grazie ad essa, Dio è libero, è l’unico offerente, e i fratelli sono risparmiati dalla loro tentazione di invidiare.

È dunque questo il contesto ideologico del «capo umiliato» (v. 41b). Non c’è, nello Jacopone «francescano», quella «maschera del selvaggio» che gli è stata vista in faccia[97]; l’apparenza dimessa per tenere «il core […] (dato) al Segnore» (v. 41a). E ciò significa che anche l’aspetto dimesso, anche la testa bassa non deve costituire una mostra di sé. Umile è il «core» dato. Niente altro. Pertanto non ha capito il Pazzo di Todi chi ha visto nelle sue abiezioni la riproduzione «a rovescio, per un eccesso di umiltà, (delle) fondamentali immagini della biografia dell’Assisiate»[98]: le quali «fondamentali immagini», in realtà, non solo non sono le uniche della poliedrica persona dell’Assisiate – che ne ha di ben diverse! –, ma neppure sono state capite bene. Infatti, il problema è se il capo basso, o le abiezioni di sé, servano – necessarie od utili, secondo i casi – a dare il cuore a Dio, o no. Per l’intelligenza autentica dell’umiltà, bisogna ricorrere ai pensatori esperti, di cui qui ricordiamo solo, di sfuggita, un Ugo Panziera o Panciera (+ 1330), quasi contemporaneo di Jacopone e anch’egli francescano, autore de I dieci gradi dell’umiltà, il quale nelle Epistole spirituali scrive: «Questo glorioso Jesù si lasciò reputare semplice, vile e idiota, inutile e malfattore; e voi volete essere tenute […]»[99].

La tentazione sulla povertà, insidiosissima per l’accusa che essa impedisce di poter «dare» ai bisognosi l’utile aiuto (cfr. v. 43), ha questa risposta strana: è «l’amor de l’Onnipotente» che «me fa gir co ‘nebriato» (v. 45). A parte l’esatta rispondenza biografico-francescana tra povertà ed ebbrezza, almeno nella prima esperienza dell’Assisiate[100], che pur buoni critici non sembrano conoscere, è proprio l’ideologia stessa della povertà qui indicata a combaciare perfettamente con quella di Francesco, sottesa nella predicazione di Dio come «onnipotente».

Segue un rifiuto, da parte di Francesco, di diverse «costumanze umane», per dirla con un’espressione usata per tacciare Jacopone di «pazzia»[101]. Dunque, «pessimismo ironico e feroce, isolamento orgoglioso e tragico, ebbrezza cieca d’amore»: questi sono i «tre poli (della) follia religiosa del Tudertino»[102]. Nulla affatto. L’Assisiate dice, per bocca del suo Poeta, di esser venuto non già per fuggire (cfr. v. 52), ma per «assidiare» (vv. 52b, 53a), come aveva detto sempre Francesco nei biografi antichi. Quanto al «mondo», il Tudertino scrive, altrove, testualmente: «l’insensibilità derivante dall’amore è quella dell’«anima, che pienamente sé gittata in Dio, (e che) è assente da tutte le cose mondane e non cura ciascuna cosa che a lei avvenga. Posto che (alcuna cosa) temporalmente paia dannosa e ingiuriosa […] quasi di nulla si turba»[103]; così, l’anima perviene, «tolti tutti i mezzi», alla «convenienza» (la pace)[104].

Il prosieguo dell’«altercatio», tutt’altro che commentare l’etichetta apposta a quest’uomo, insopportabile, del Medioevo: «Vae mihi nascenti!»[105], si fa dolcissima, nel rimembrare le care famiglie fondate: e senza cenni di attacchi da «spirituale». È «quisto ordene» (v. 54b) di poveri, è quest’«orden de sorelle» (v. 57a), è la «valle spoletana» (v. 60a): dove il Francesco di Jacopone tocca il vertice del cuore paterno e dell’attaccamento soave per la dolce terra, poi sublimemente ricantata dal Carducci. Ma tenero, e pure orgoglioso, con la «vergen […] Clara»: «una vergen c’è soprana» (vv. 60b, 6la)[106]. Amore per la terra, amore per il «tempio» (v. 61a). Tutto, qui, è ricapitolato. Nell’amore. Il quale, ancora una volta, si allarga, subito, sul mondo intero: all’«orden deritto» dei coniugati (vv. 62-63).

Concludiamo queste semplici considerazioni con l’acuto giudizio del Sapegno, da lui dato a livello più generale: « […] tutta la poesia del Tudertino tende verso una lirica commossa e raffinata, che esprima le più delicate e sottili vibrazioni del suo animo […] e faccia della sua anima stessa l’inizio ed il fuoco della sua poetica […]»[107].

 

[1] Cfr. F. Mancini, Introduzione alle Laude di Jacopone da Todi, Bari 1930, pp. XIV-XV. Per l’ambientazione storico-culturale, cfr. A. Frugoni, Jacopone francescano, in Jacopone e il suo tempo, «Convegni del centro di studi sulla spiritualità medievale», I, Todi 1959, pp. 99ss; E. d’Ascoli, Il Misticismo nei canti spirituali di Frate Jacopone da Todi, Recanati 1925, pp. 1-22.

[2] N. Sapegno, Frate Jacopone, Torino 1926, p. 75.

[3] Citato in E. d’Ascoli, op. cit., p. 217. Per l’interpretazione, invece, «ereticale» del Tudertino, cfr. G. Guarnieri, Il movimento del Libero Spirito. Testi e documenti, in «AISP», 1965, pp. 400ss. Jacopone sembra sia stato etichettato come «intemperante» dagli storici, ma forse ci sembra più giusto definirlo «scomodo»; P. Renucci, La comparsa di una nuova cultura (secoli XIII-XIV), in Storia d’Italia, vol. 2, t. 2, pp. 1146 e 1172.

[4] A. D’Ancona, Jacopone da Todi, il giullare di Dio del sec. XIII, Todi 1914, p. 11.

[5] Tenneroni, Le laude e Jacopone da Todi, in Nuova Antologia, 16 giugno l906.

[6] Cfr. A. Alunno, Jacopone da Todi, tratto da’ suoi canti, Città di Castello 1922, p. 58, che così spiega: «[…] perché (la letteratura apocalittica era) tutta imbevuta di passioni politiche ed informata non da uno spirito intimo di carità, ma d’umana violenza». Però, lo specialista del «gioachimismo», H. de Lubac, non fa menzione di Jacopone: cfr. L’eredità spirituale di Gioacchino da Fiore, I, tr. F. di Ciaccia, Milano 1981, capp. 2 e 3.

[7] E. Santoni, San Francesco e Jacopone da Todi, in Frate Francesco 14 (1937), p. 300.

[8] S. da Campagnola, Introduzione alla sez. II, in Fonti Francescane, Assisi 1978, p. 381 (sigla FF). Per il testo, seguiamo quello di FF, note di F. Olgiati, pp. 1669-1673. Per il rapporto con la Leggenda maggiore di Bonaventura, cfr. il commento citato. Avvertiamo comunque che, per ragioni pratiche, non seguiamo le connessioni concettuali e letterarie di queste laudi né con gli scritti di san Francesco né con le fonti antiche francescane, ciò che esigerebbe un lavoro a sé; e neppure con il resto del laudario jacoponiano, sul quale tuttavia la nostra interpretazione, che richiederebbe un saggio a parte, è deducibile dalle presenti nostre osservazioni. Cfr. però B. Brugnoli, Fra Jacopone da Todi e l’epopea francescana, Assisi 1907, che tuttavia non contiene le nostre riflessioni.

[9] La figura retorica sintattica, di cui sopra, non è stilisticamente configurata, ma interpretativamente fondata sul senso del rapporto tra i termini in oggetto. Per la citazione sulla «povertà», G. Getto, La poesia religiosa dal Due al Novecento, I, Firenze 1967, p. 95. Non possiamo qui discutere sulla povertà francescana, perché stiamo conducendo al riguardo studi specifici.

[10] Per queste laudi francescane di Jacopone non condividiamo l’ipotesi del Sapegno, per il quale il Poeta non scriveva né per le folle né per gli stessi «confratelli religiosi»; op. cit., p. 113.

[11] «benché fosse letterato, non volse essere chierico ma laico»; F. Nevati, Il notaio nella vita e nella letteratura delle origini, in Freschi e minii del Dugento, Milano 1925, p. 247. Sembra però, e fondatamente, che almeno più tardi Iacopone sia stato non solo chierico, ma cappellano e predicatore.

[12] «Iacopone, uomo di cultura, polemizzò contro la cultura»; G. Getto, op. cit., p. 88: «Quest’uomo, che a tutto ha rinunciato (e persino, più d’una volta ma non sempre, alla sua dotta scrittura) […]»; F. Ageno, Modi stilistici delle Laudi di Jacopone da Todi, ne La Rassegna d’Italia I, 5 (1946), p. 25: «Jacopone […] in piena coerenza col suo temperamento intransigente ed eccessivo, ignora queste sfumature, e si pone deciso e ostile contro ogni forma di cultura»; G. Getto, op. cit., p. 89. Si tratta della distinzione tra il sapere per far mostra di sé e «vendere» la scienza, e il sapere «in vista della salvezza e per l’acquisto della carità». Cfr. É. Gilson, La théologie mystique de Saint Bernard, Paris 1947, p. 85.

[13] N. Sapegno, op. cit., p. 76.

[14] F. Mancini, Introduzione, cit., p. XV. Cfr. anche p. XVI: «Lo stesso impiego del volgare […] polemicamente obbedisce a intenti di umiltà […]».

[15] E. d’Ascoli, op. cit., p. 66.

[16] Cfr. il nostro articolo Umiltà e morte nel «Frate Francesco» carducciano, ne L’Italia Francescana, 57 (1982), pp. 561-569.

[17] A. Alunno, op. cit., p. 89. Dal punto di vista strettamente metrico, cfr. G. Galli, Disciplinati dell’Umbria nel 1260 e le loro laudi, in Giornale storico della letteratura italiana 9 (1906), pp. 65ss.

[18] N. Sapegno, op. cit., p. 81, che lo afferma in generale. Per Donna de Paradiso, cfr. E. d’Ascoli, op. cit., p. 79: «Non credo che sia possibile esprimere con maggior semplicità e potenza […]».

[19] Loc. cit, p. 307.

[20] Op. cit., p. 85.

[21] F. Olgiati, op. cit., p. 1669, nota ai versi 7-10.

[22] A. Alunno, op. cit., p. 85.

[23] Citato in N. Sapegno, op. cit., p. 79.

[24] Leggenda maggiore, XIII, 10, in FF, tr. S. Olgiati, p. 954: «Perciò nessuno può respingere questa dimostrazione […], poiché essa è veramente opera di Dio ed è degna di essere accettata da tutti». Per le successive espressioni, che rimandano alle fonti, cfr. ad esempio Tommaso da Celano, Trattato dei miracoli, 2-13, in FF., tr. T. Lombardi e M. Malaguti, il cui capitolo sul «miracolo delle stigmate» è una vera «apologia», densa di «stupore» generale.

[25] F. Olgiati, in FF, p. 1671, nota ai versi 43-46.

[26] L. Cellucci, Le laudi francescane di Jacopone da lodi, in Frate Francesco, n.s. 1 (1954), p. 161.

[27] Cfr. F. di Ciaccia, La «festa» in San Francesco d’Assisi, in Communio, 10 (1982), p. 102. Per il Natale in particolare, cfr. F. di Ciaccia, Francesco d’Assisi e il Natale di Greccio (1223), in Campane di Rendena, Trento 72 (1982), pp. 64-66.

[28] Espressione di A. Alunno, op. cit., p. 56.

[29] L. Cellucci, loc. cit., p. 166, che lo afferma per tutto il laudario.

[30] Cfr. la nostra osservazione, volutamente non spiegata, su una disposizione di Francesco morente, in Umiltà e morte nel «Frate Francesco» carducciano, cit., p. 567.

[31] F. Novati, L’amor mistico in S. Francesco d’Assisi e in Jacopone da Todi, in Freschi e minii del Dugento, Milano 1925, p. 196.

[32] M. Pazzaglia, Gli Autori della letteratura italiana, Bologna 19742, p. 109.

[33] Op. cit., p. 86. Cfr. anche A. D’Ancona, op. cit., pp. 58-98.

[34] M B. Brugnoli, Le satire di Jacopone da Todi, Firenze 1914, p. IV. Per una diversa interpretazione della satira jacoponiana, cfr. E. d’Ascoli, op. cit., pp. 199ss. Rendiamo onore a quest’umile, sconosciuto eppur intelligente conoscitore di Jacopone, di cui la grande critica sembra aver ignorato la voce, non accademica ma verace.

[35] Cfr. C. Cardogna, San Francesco nel canto d’un suo discepolo, in Frate Francesco 2, fasc. III (1925), p. 158.

[36] Cit. da A. Alunno, op. cit., p. 64.

[37] Vita prima, 5, in FF, tr. A. Calufetti e F. Olgiati, p. 415.

[38] C. Cardogna, loc. cit., p. 155. Con ciò, non intendiamo, come potrebbe apparire dalla nostra ironia sottesa, negare la dimensione «guerresca» di Jacopone, che anzi, nel suo senso evangelico ed etico «quale crediamo nello stesso Tudertino», abbiamo rilevato in Francesco; cfr. il nostro Francesco d’Assisi e la pietra, ecc., in Campane di Rendena 72 (1982), pp. 60-63, soprattutto p. 61.

[39] Cfr. un’analisi del genere: «Pare che Jacopone si compiaccia di scoprire nelle anime de’ suoi simili volontà perverse, ed è sempre pronto a denunciare sotto la vernice virtuosa il vizio occulto» (ciò è detto a proposito della laude XVIII, e simili); N. Sapegno, op. cit., p. 26. Soltanto che ciò non ha nulla a che vedere con lo «scovare il male» per «compiacenza» sadica; è invece la denuncia delle apparenze fallaci, che già aveva stimolato Gesù Cristo, e avrebbe stimolato il fra Cristoforo de I Promessi Sposi.

[40] Op. cit., p. 307.

[41] A proposito, in particolare, dello «iubilo del core», cfr. N. Sapegno, op. cit., p. 36. Ma non concordiamo del tutto con il critico. Si leggano ad esempio una Caterina da Siena, una Teresa d’Avila, una Veronica Giuliani, per non parlare di altri.

[42] Donna de Paradiso, vv. 113-114; per la seconda cit., vv. 90-91.

[43] Cfr. La «festa» in San Francesco d’Assisi, cit., pp. 91-96.

[44] Erratamente A. D’Ancona, op. cit., p. 3, dice che Jacopone «non conobbe il magistero dell’arte».

[45] E. Santoni, loc. cit., p. 305.

[46] G. Getto, op. cit., p. 92. Del critico, poi, accettiamo solo in parte il giudizio circa il limite della «luminosità creaturale» di Jacopone, ma non accettiamo per nulla quello sull’improponibile comparazione tra l’animo jacoponiano e gli scritti francescani. Per la citazione successiva, cfr. E. d’Ascoli, op. cit., pp. 58s.

[47] Op. cit., p. 93.

[48] G. Getto, op. cit., pp. 93s: «[…] il solo significato acquista rilievo, nel più assoluto oblio del significante» (p. 94).

[49] E. Santoni, loc. cit, p. 307.

[50] G. Getto, op. cit., p. 94. Stessa referenza, ma a p. 97, per la cit. successiva.

[51] Cfr. F. Novati, op. cit., p. 223.

[52] L’Italie mystique, Paris 19172, p. 270.

[53] Op. cit., pp. 50s e 199-213; per la cit. successiva, p. 204.

[54] Cfr. Franceschina, II, p. 87, i cui episodi in realtà sono «educativi».

[55] Cito da G. Getto, op. cit., p. 91. Non trattiamo qui degli aspetti identici dell’umiltà di Francesco e di Jacopone. Rimandiamo al Trattato di Jacopone, in Mistici del Duecento e del Trecento, a cura di A. Levasti, Milano-Roma 1935, p. 225; cfr. anche p. 227.

[56] Regola non bollata, XXII, 5, in FF, tr. F. Mattesini, p. 117. Cfr. Lettera a tutti i fedeli, VII, 37, ibidem, p. 154.

[57] Ammonizioni, XIV, 5, in FF, tr. F. Mattesini, p. 144. Anche se in diverso contesto, non sottoscriviamo il giudizio, secondo cui in Jacopone «manca l’amore del prossimo»; A. Alunno, op. cit., p. 56.

[58] I detti di Frate Jacopone, II e I, in Mistici del Duecento e del Trecento, cit., pp. 231ss.

[59] A. Alunno, op. cit., p. 56.

[60] «[…] a metà seguace di Cristo e di Francesco», perché Jacopone «praticò pienamente il primo comandamento, imperfettamente il secondo»; A. Alunno, op. cit., p. 55. A parte il problema interpretativo sull’amore del prossimo, in ogni caso se Jacopone capì e visse a metà il comandamento dell’amore del prossimo visse egualmente, a metà, il comandamento dell’amore di Dio. Perché non è possibile diversamente; se, in questo campo, ha autorità l’insegnamento di Gesù Cristo, di un san Giovanni, ecc. Anche il «ribelle» Jacopone sottoscriverebbe questa osservazione.

[61] Ne abbiamo fatto cenno ne Il «Saluto alla Vergine» e la pietà mariana di Francesco d’Assisi, in Studi Francescani 79 (1982), pp. 60s.

[62] Op. cit., pp. 192-197, che ricorda Antonio da Padova, ma non Dante.

[63] G. I. Montanari, Se S. Francesco d’Assisi abbia mai scritto poesie volgari, e se si debbano creder sue quelle che gli sono da taluni attribuite, ne L’ardimento, Bologna 1858, pp. 193s.

[64] Cfr. F. Mancini, Introduzione, cit., p. XIV, il quale ricorda la «sdegnosa chiusura nei confronti delle humanae litterae». Per i rapporti dell’Autore con una delle più incisive correnti letterarie dell’epoca, cfr. P. Cudini, Contributo ad uno studio di fonti siciliane nelle laude di Jacopone da Todi, in Giornale storico della Letteratura Italiana 145 (1968), pp. 561ss.

[65] Leggenda maggiore, XV, 5. Per la «vista» delle stigmate di un «amico» sincero di Francesco, cfr. il nostro articolo, Santa Chiara «domina» e Jacopa dei Settesoli «fratello» di San Francesco d’Assisi, in Studi Francescani 79 (1982), pp. 79ss.

[66] Ciò vale, con le dovute distinzioni, anche per il Cristo, nel senso della teologia paolina e dell’Epistola agli Ebrei. La dinamica complementare del possesso della gloria e dell’acquisizione della gloria è anche nei Sinottici e in san Giovanni.

[67] I nostri scritti sulla mariologia delle laudes sono inediti. Abbiamo potuto farne un cenno ne Il «Saluto alla Vergine», ecc., cit., p. 62.

[68] Cfr. F. d’Assisi, Lodi di Dio Altissimo, in FF, tr. F. Mattesini, pp. 176s, e il Saluto alla Vergine, ibidem, p. 176, con il nostro commento, cit., pp. 61 e 63.

[69] Cfr. comunque F. Olgiati, in FF, pp. 1672-1673.

[70] Non si capisce perché i critici, riguardo all’Assisiate, abbiano tenuto nascosta la sua esuberanza passionale di amore per il Crocifisso, facendo di lui solo un tranquillo cantautore svolazzante, mentre abbiano tanto calcato la penna sul «fuoco» jacoponiano: il quale Jacopone – strano! – le stigmate, lui, non le ha «ricevute», mentre Francesco sì. Sulla follia della croce jacoponiana, anche in ciò è stato intelligente critico E. d’Ascoli, op. cit., pp. 129-133, con le sue analisi sull’«ascetismo» propedeutico: pp. 115-120.

[71] F. Novati, op. cit., p. 202.

[72] In FF, pp. 1674-1681, con commento citato.

[73] A. Alunno, op. cit., p. 57. Tanto più che il critico contrappone Francesco a Jacopone, come se quest’ultimo non avesse capito il Dio «che per amore s’era fatto uomo ed era morto in croce […]»; invece, non c’è niente di più bello nel Tudertino dell’affettuoso canto al Cristo della natività, e dell’appassionato canto al Cristo della Passione.

[74] A. Alunno, op. cit., p. 56.

[75] A. D’Ancona, op. cit., p. 75.

[76] Storia della letteratura italiana, I, Milano 195911, p. 50.

[77] N. Sapegno, op. cit., p. 26.

[78] Cfr. Regola bollata, VII, 2; Ad un ministro, 13, in FF, tr. F. Mattesini, pp. 127 e 168.

[79] A tutti i fedeli, X, 69, in FF, tr. F. Mattesini, p. 156; Tommaso da Celano, Vita seconda, 125, in FF, tr. S. Colombarini, p. 655.

[80] Benché sia espressione dotta di Bonaventura, Leggenda maggiore, V, 4, in FF, p. 873.

[81] Cfr. anche solo la meravigliosa lettera Ad un ministro, cit., p. 168.

[82] E. Santoni, loc cit., p. 304.

[83] Stesso concetto anche nella Leggenda di santa Chiara, 5: «(Francesco) rinnovava la vita della perfezione ormai sparita dal mondo […]», in FF, tr. Chiara A. Lainati, p. 2397. Cfr., poi, Dante, Paradiso, XI, 28-33.

[84] Il termine «confalonera» si trova anche in Bonvesin da la Riva (es., Eo Bonvesin, v. 41, in G. Marotta, Lirica Mariana, Torino 1932, p. 32), con più insistenza che nelle laudes dell’epoca.

[85] Cfr. F. di Ciaccia, ad es. Il senso della povertà nel San Francesco di Dante Alighieri, in Frate Francesco 49 (1982), pp. 21-26. Sugli esempi di identità letterale di Jacopone e Dante, cfr. G. Salvadori, Sulla vita giovanile di Dante, Roma 1906, pp. 175-190. Altrove, come poi Dante, anche Jacopone «allarga il suo campo di osservazione ed estende il suo sguardo alla società, della quale mette a nudo i mali e le piaghe»; A. Alunno, op. cit., p. 83.

[86] Leggenda perugina, 83; lo stesso, in Specchio di perfezione, 64.

[87] Leggenda dei tre compagni, 40; lo stesso, in Anonimo perugino, 23.

[88] Leggenda minore, III, lezione VI, in FF, tr. S. Olgiati, p. 1033.

[89] Bonaventura, Leggenda maggiore, VII, 7.

[90] «Della terza considerazione delle sacre sante Istimate», in FF, a cura di B, Bughetti, p. 1595.

[91] Leggenda minore, VI, lezione IX.

[92] Sull’ideologia della «pace» cfr. il nostro articolo su Fra Galdino manzoniano: la missione inutile della semplicità francescana, ne L’Italia Francescana 58 (1983), pp. 15s.

[93] Op. cit., p. 156.

[94] Per i Fioretti, cfr. «Della prima… » e «Della seconda considerazione delle sacre sante Istimate». Con diversa estensione, ma sempre con elementi di duro e anche «fisico» conflitto (Bonaventura, Leggenda minore, IV, lezione II), cfr. T. da Celano, Vita seconda, 119-122; Bonaventura, Leggenda maggiore, V, 2; X, 3; Leggenda Perugina, 92s.

[95] N. Sapegno, op. cit., p. 115, che tuttavia non riguarda in particolare la laude presente.

[96] Si sa che le «tentazioni» procedono dalle cose meno importanti a quelle più importanti: poiché sull’essenziale si è, all’inizio, più agguerriti psicologicamente.

[97] F. Neri, La maschera del selvaggio, in Letteratura e leggenda, Torino 1951, p. 159.

[98] G. Getto, op. cit., p. 91. Tuttavia lo stesso critico, con notevole acutezza morale, afferma il «valore indiscutibile» dei clamorosi gesti di umiltà del Tudertino.

[99] In Mistici del Duecento e del Trecento, cit., p. 307.

[100] Cfr. il nostro art. sulla «festa» in San Francesco, cit., par. 1.

[101] N. Sapegno, op. cit., p. 46. Stessa referenza per la cit. successiva.

[102] Ibidem, pp. 36-45, soprattutto p. 45.

[103] Il Trattato, cit., in op. cit., p. 228.

[104] Ibidem, pp. 228s.

[105] F. Novati, Attraverso il Medio Evo, Bari 1905, p. 48.

[106] Per l’affetto dell’Assisiate verso Chiara, cfr. il nostro citato art. su «Chiara e Jacopa», nella prima parte.

[107] Op. cit., 115.

 

 

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