1984, IF, I protagonisti dei canti XI e XII del “Paradiso”

I protagonisti dei canti XI e XII del “Paradiso”, «L’Italia Francescana», 1 e 3-4 (1984) pp. 65-86 e pp. 235-269.

Testo dell’Articolo

LA DIVERSITÀ NELL’UNITÀ DEI DUE «PRINCIPI»

Dante, nell’inquadrare il discorso su san Francesco e san Domenico attraverso, reciprocamente, il domenicano Tommaso e il francescano Bonaventura, va oltre la consuetudine di cortesia fra le due famiglie religiose, e lascia intendere il «superamento e la riconciliazione nel cielo»[1] di tutte le possibili tensioni contrarie all’unico «fine» per cui «fur l’opere» (XI, 42) dei due «archimandriti» (cf. XI, 99)[2].

L’«amor che move il sole e l’altre stelle» (XXXIII, 145), del quale, a proposito di questi due canti, il Pascoli ha ricordato le generazioni divine di «sapienza» e di «amore»[3], «tragge» Bonaventura «a ragionar de l’altro duca / per cui del mio sì ben ci si favella» (XII, 32-33). L’«amor che mi fa bella» (XII, 31), come si esprime Bonaventura, da realtà teologica diventa, qui, principio teologale ed ecclesiale, mediazione salvifica quale, attraverso la figura di Beatrice, appariva già all’inizio della simbolica Commedia: «amor mi mosse che mi fa parlare» (Inferno, II, 72). Il contesto stilnovistico, per cui il «salutare» la «donna» e il «ragionare» di lei dà beatitudine e salute[4], inquadra l’esordio bonaventuriano e coinvolge strettamente la relazione, oltre che tra il Francesco e la Povertà del canto XI[5], anche tra i due «campioni» e le rispettive famiglie, in un rapporto, correlato, di salvezza, che ha la naturale conclusione, in spirito di correzione fraterna dantescamente vibrante, nelle preoccupate rampogne da parte dei due religiosi nei confronti dei membri del proprio Ordine[6]. Anche ciò è per l’«un fine», che è la «sposa di Dio» la quale «surge / a mattinar lo sposo perché l’ami» (Paradiso, X, 140-141).

La partecipazione però non esclude, anzi contempla la differenza. Se ambedue i personaggi «ad una militaro» (XII, 35), l’uno però «mediante il suo serafico amore […], [l’altro] mediante la sua grandissima sapienza e profondissima dottrina»[7]. L’uno, come già si esprimeva Leone XIII, «secondo l’impulso della grazia, che lo portava a grandi imprese, riuscì a sciogliere negli animi cristiani l’amore della virtù e a richiamare all’imitazione di Gesù Cristo uomini da molto tempo allontanatisi […]; l’altro difendeva con coraggio […] l’integrità della dottrina cattolica, e con la luce della rivelazione fugava le eresie perniciose»[8].

La situazione dell’«essercito di Cristo» (XII, 37) è fondamentalmente, nei due canti, uguale: indegna di colui al quale «sì caro / costò a rïarmar» (XII, 37-38), e lontana da colui «ch’ad alte grida / disposò lei col sangue benedetto» (XI, 32-33), in cui, biblicamente, il «costar caro» di XII, 38, equivale alle «alte grida» ed al «sangue» di XI, 33. Nel canto domenicano, però, risalta una terminologia guerriera e civile: «riarmar» è l’operazione compiuta da Cristo per il proprio «essercito»; «imperador»[9] è Dio che «regna» (XII, 40), da cui scaturisce la coerente azione del suo santo, il «combatter per lo seme» (XII, 95), il «percuotere» (cf. XII, 100), il «vincere in campo» (cf. XII, 108)[10]. Nel canto francescano, invece, c’è, oltre alla definizione della Chiesa come «sposa» (XI, 32) al pari che nel canto domenicano («a sua sposa soccorse», XII, 43), anche il termine, più intimo, di «diletto» riferito allo sposo (XI, 31). Inoltre, non solo l’«ardore» di Francesco (XI, 36) fa seguito alla passione ardente del Salvatore per la Chiesa (cf. XI, 32), e le stigmate (XI, 107) si riallacciano al «sangue benedetto» (XI, 33), ma tutta la tensione poetica rimanda ad una comunicazione di vita tra il protagonista del canto XI e Gesù, tale che la sponsalità di Gesù e della Chiesa, presente in XI, 31-34, si riverbera su Francesco e Cristo. Il «famigliar di Cristo» (XII, 73), attribuito a Domenico, ha un valore di santità più tradizionale, e tutta la biografia del canto XII lo evidenzia. Se tutti e due i personaggi svelano l’identica metodologia di risanamento, cioè il «contatto diretto col Vangelo» che «spezzava finalmente gli angusti orizzonti degli interessi immediati, […] immergendo le anime in un’atmosfera di concordia e di universalità»[11], i «due principi» (XI, 35) o «campioni» (XII, 44) si annunciano differenti nella stessa attribuzione – anche se, grammaticalmente, indifferente perché ciascuna è al plurale –: il «principe» denota la cortesia cavalleresca, ambizione ed effettiva inclinazione di Francesco[12], mentre il «campione» si accosta concettualmente all’«atleta» (XII, 56) che è Domenico.

Ma nell’ordine della causalità, semanticamente espressa in modo identico nei due canti, c’è un solo principio: «La provedenza, che governa il mondo» (XI, 28), «provide alla milizia ch’era in forse» (XII, 41). Uno studioso, recentemente, ha addirittura individuato nella Provvidenza la «vera protagonista di questi due canti»[13]. Dipendente dal «mistero di Dio [che] si cala nella storia umana»[14], la funzione dei due protagonisti è 1’oggetto principale dell’intenzione dantesca, per la quale anche «la persona è subordinata all’ufficio»[15] e la stessa allegoria della povertà si mantiene, secondo l’Auerbach, sotto tale segno[16]. Se la biografia francescana poté riuscire più «articolata» di quella domenicana, perché più «ricca» e più «affollata», per Dante, di «argomenti importanti»[17] e perché, d’altra parte, «la persona [di Domenico] non poteva avere un’efficacia popolare come il serafico e ardente Francesco»[18], tuttavia l’«uguaglianza di missione affidata da Cristo ai due campioni»[19] opera, nella rielaborazione dantesca, una «stretta complementarietà, ingenerando una loro parificazione storico-religiosa»[20]. La «provvidenzialità» di Francesco è stata sempre ben esaltata; ma non meno degna di menzione è quella di Domenico: già radicata nella coscienza dei contemporanei attraverso le «profezie»[21], essa fu dichiarata anche da Onorio III[22] e registrata dagli storici antichi[23].

Quanto alla dimensione «sociale» della funzione dei due santi, citiamo una riflessione di Raoul Renucci: «Non è per ragioni retoriche che Dante fa dell’umbro e del castigliano due ritratti paralleli […]. La fondazione dei due grandi ordini mendicanti, con quella complementarietà già scorta da Dante, può ben apparire a distanza come l’espressione di una sola e medesima politica, condotta in Italia attraverso il ‘recupero’ […]. I due ordini assolvono immediatamente a una funzione notevole nella vita pubblica […]; i frati mendicanti sono continuamente presenti nella società laica, dove hanno una parte crescente non solo come predicatori e confessori, ma anche come consiglieri o arbitri nella vita delle famiglie e dei gruppi sociali»[24]. Tuttavia, se è certo che la presenza dei due Ordini lievitò verso una convergente incisività nel mondo[25], in un primo tempo anche in reazione alla potenza del monachesimo[26], occorre notare una diversità di impostazione, almeno originaria, delle due realtà religiose, e distinguere inoltre il «sociale» dal «civile». Il carisma francescano è contrassegnato dalla «semplicità e privatezza»[27], e lo stesso fatto che «il papato puntò più prontamente su san Francesco che su san Domenico»[28] perché vide, tra l’altro, il movimento minoritico come naturale concorrente degli Umiliati e dei Poveri di Lione[29], dimostra l’originaria debolezza «civile» della funzione francescana. Il che non contrasta con la forza «sociale»: quest’ultima è un’azione nelle masse e per le masse, esclusivamente. Senza nulla togliere, in questa direzione, al tipo di intervento del movimento domenicano, è certo però che l’Ordine dei Predicatori fu sospinto, già ai primordi, verso un inserimento nell’ambito delle vicende «civili» del tempo, sviluppatosi poi, maggiormente, nel prosieguo storico. L’espressione dantesca, indicativa benché non decisiva in se stessa, per cui la Chiesa vinse, grazie a san Domenico, la «civil briga» (XII, 108), ci sembra possa inserirsi in una caratterizzazione più generale della funzione dei Domenicani[30].

Con ciò, non intendiamo sostenere un san Francesco, mistico sereno ed asceticamente soddisfatto della propria solitudine privata, quale appare nell’interpretazione petrarchesca[31]. Tuttavia, l’elemento «eroico», messo in luce da Grabher e Momigliano e riproposto poi da molti altri[32], non è l’unico aspetto della battaglia intrapresa da Francesco, né ha valenza prevalentemente politica e civile nella ideazione di Dante, nonostante il carattere, anche in questi due canti del Paradiso, essenzialmente impegnato della poesia del Fiorentino. Bisogna notare che l’amore dell’Assisiate per la povertà è sempre più «forte» (XI, 63), ma ciò nella dolcezza chiaramente stilnovistica dei versi 76-78[33]. Di san Domenico, dopo la descrizione geografica del luogo natio, la prima definizione personale è quella di «amoroso drudo» (XII, 55). La santità («santo atleta», XII, 56) di lui corrisponde alla «gran virtute» dell’XI, 57: ma se la santità è, per Dante, «sempre battaglia»[34], nel caso di Francesco essa è immediatamente rapportata, con una conseguenza concettualmente simbolica, ad una influenza quasi avuta in dono: il «conforto» che ne riceve la «terra» (XI, 56-57). Tale concetto esprime bene la «seraficità» francescana indicata da Dante (XI, 37), mentre, per Domenico, è posta espressamente la relazione con il mondo in una caratterizzazione attiva ed energica: «Benigno a’ suoi e a’ nemici crudo» (XII, 57), con una configurazione volutamente anche storica.

Per concludere, osserviamo che, in questi due canti del Paradiso, l’«ardore serafico», che principalmente è verso Dio, e la «luce cherubica», che in prima istanza viene da Dio per il mondo, sono inscindibili. Il Pascoli avverte che Francesco, cantato da Dante con lo sguardo fisso all’amore, è Sapienza, mentre Domenico è, a sua volta, «pien d’amore»[35].

 

LE «CONFERME» PONTIFICIE DI FRANCESCO E DOMENICO

  1. La confidenza filiale di Francesco

Le «conferme» papali della «religione» (XI, 93) di Francesco e l’accoglimento, da parte della «sedia» romana, della «domanda» (cf. XII, 94) di Domenico rivelano una forte caratterizzazione, recepita dal poeta, dei differenti carismi dei due personaggi.

Francesco «aperse» (XI, 92) la sua «intenzione» ad Innocenzo. Il vissuto di questo atto è ricalcato, a nostro avviso, sulla celaniana Vita seconda, 16-17, e il «regalmente» (XI, 91) di Dante traduce il senso della «parabola» raccontata, in qualche maniera, dall’Assisiate al papa, che è la seguente: sarò pure «dispetto» (dantescamente, XI, 90), ma il «re» in persona, che ha scelto proprio me, assicura ai miei figli di partecipare, in perpetuo, alla sua «mensa». Semplice, ma chiara e pericolosa «intenzione»: «regalmente»! (Si sa che questa «mensa» è la «mendicità»).

Né li gravò viltà di cuor le ciglia

per esser fi’ di Pietro Bernardone,

né per parer dispetto a maraviglia;

ma regalmente sua dura intenzione

[…] (XI, 88-91).

A noi pare che questo scorcio psicologico e morale del personaggio colga, obiettivamente, l’atteggiamento francescano quale risulta dal racconto, sia esso reale o simbolico-fiabesco, di Ruggero di Wendover e di Matteo Paris[36]. Il papa avrebbe consigliato a quel «frate in abito strano, dal volto disprezzabile, barba lunga, capelli incolti», di andarsene dai «porci» a predicar loro e ad avvoltolarsi nel loro brago; lo strampalato giovane di Assisi si sarebbe ripresentato in «concistoro» tutto inzaccherato, come si può immaginare, e poi (a prima lettura, questo aspetto francescano non compare in Dante), avuta l’approvazione della sua forma di vita, non avrebbe fatto altro che «costruirsi un oratorio nell’Urbe» per «contemplare» e per «lottare» contro «gli spiriti maligni e i vizi carnali».

In effetti, non poteva essere solo il sapersi figlio di un commerciante, o solo il portare un «umile capestro» (XI, 87) da «penitente» a costituire, per il «regale» di Assisi, una tentazione di «viltà». Dante deve averlo capito bene[37]. Egli sottolinea infatti due elementi essenziali e rivelatori, al di là dei dati di cronaca: la semplicità, e la regalità del personaggio, con una contrapposizione tale che l’ufficio di questa «guida» di Assisi sembra quello di risolvere la disprezzabilità in apprezzabilità. L’elemento che media e supera la contraddizione è una qualità superiore, che si attiene insieme alla semplicità esterna e alla regalità interna, ed è la semplicità come forma di vita evangelica. È la povertà come forma cristica di esistere.

Il connotato più profondo di quell’«aperse» è la disponibilità umile: che è di dipendenza, cioè filiale, e di uguaglianza, cioè fraterna. Francesco non doveva far forza al «cuor» perché privo di titoli nobiliari, o perché vestito da pezzente, ma perché manifestava, anche mediante queste condizioni, di volere che fosse tolta la differenza, per la fraternità e nella fraternità. Ora, è proprio questa regalità della fraternità povera a poter non essere compresa dalle corti – e dalle curie –. A ciò si aggiunga il conseguente postulato, tanto rigido quanto, apparentemente, stupido e sconcertante: l’improvvido e impudente di Assisi non voleva, per nulla affatto, un consenso pontificio, ma voleva il consenso pontificio esattamente a quella precisa dimensione di povertà: cioè, che fosse riconosciuto a lui il dovere – il povero non pretende nulla dagli altri – di non porre, come povero, nessuna differenza, neppure con il povero[38].

Ordunque, il consenso poteva essere valido solo se fosse manifesta, essa stessa, quella dimensione, e quindi se esso fosse avuto mediante la maniera povera. Per cui, «aperse». «[…] e da lui ebbe» (XI, 92): egli non ottenne; ottenere è di chi ha l’abilità di chiedere. Ma l’abilità non appartiene – si intenda ciò solo sul piano della fraternità evangelica – alla povertà. Egli «ebbe»: cioè riceve come riceve il povero, al quale, per povertà di spirito fraterno, si dà: senza abdicazioni superbe o vigliacche, da parte né dell’uno né dell’altro. Solo per questa forma di vita Francesco chiedeva, a suo modo, il consenso. Se pure Innocenzo non abbia davvero «mandato ai porci» quello strano individuo, che voleva mendicare ma non voleva accaparrarsi il diritto di mendicare, è verosimile che abbia dovuto controllare molto bene la sua attitudine di pace: perché quella povertà doveva essere di pace.

Lo stesso papa era, fondamentalmente, per una politica di «mediazione di pace»[39]. Michele Maccarone, riflettendo su una precedente bolla di Innocenzo III, del 17 novembre 1206, con la quale il papa faceva intendere il desiderio che, per la questione catara, «si raccogliessero degli uomini, i quali, in abito umile e con lo spirito di Cristo, non avessero paura di andare a parlare ai lontani», ritiene che, «quando gli si presentò San Francesco, […] Innocenzo III [era] deciso ad accontentar [lo]»[40]. Orbene: l’abito si vede addosso, lo spirito si riconosce nei fatti. Allora, dunque: «Va’, e rivoltolati nel brago». L’attitudine di Francesco, in effetti, non si smentirà. Sentite: egli chiede al vescovo di Imola il permesso di predicare, il prelato gli dice che non ha bisogno di lui (con un tantino di disprezzo, diplomaticamente appena velato: «Che vuoi, frate?»); Francesco esce, poi rientra subito: «Se un padre scaccia il figlio da una porta, deve necessariamente entrare da un’altra». Anche qui, ad Imola[41], possiamo dire che egli «aperse», e basta, la sua intenzione: fino a togliere, però, la differenza del disprezzo. Ma la vittoria del fratello non consiste nel fatto che egli ebbe, dopo ciò, il permesso di predicare dal vescovo di Imola, ma nel fatto che, qualora fosse stato scacciato di nuovo, egli di nuovo sarebbe ritornato; e, scacciato ancora, ancora sarebbe ritornato: senza mai predicare contro il divieto, e neppure senza mai «giudicare», e senza desistere dalla fraternità obbediente. Questo toglimento radicale delle differenze, nella fraternità povera, va alle radici di ogni impresa della Chiesa, perché essa corra «ver’ lo suo diletto / […] / in sé sicura e anche a lui più fida» (XI, 31 e 34).

A parte il «sogno» del Laterano – un sogno non rivela tanto quanto l’uomo che si ha davanti –, il papa ebbe, lui per primo, all’«aprirglisi» del fraticello, il «sigillo» della «religione» di lui[42]: e ciò perché egli dovette intuire il significato di autentica povertà fraterna, e quindi lo spirito di pace, di quell’uomo che gli confidava, con fiducia nel toglimento delle differenze, il bisogno di essere confermato in quella forma di povertà fraterna. Se però, in questo contesto, la «conferma» elemosinata da Francesco rispondeva, spiritualmente, ad una esigenza di cattolica fedeltà[43], e in parte anche di organizzazione nel «vincolo con la Chiesa»[44], essa derivava, per un aspetto psicologico-esistenziale, da un’istanza di «filialità»: quella di sapersi accettato dal «padre»[45].

Il vescovo di Assisi era in qualche modo subentrato, per il giovinetto, non tanto – se non giurisdizionalmente – al posto dei magistrati civili, quanto al posto del padre, Bernardone. Indicativo, affettivamente, per il diseredato di Assisi è il gesto del vescovo Guido nei confronti della futura «domina» di Francesco[46]. La «paternità» appare, nella profonda intuizione dell’Alighieri, insieme un problema ed un valore per san Francesco. Il «patre» è ricordato (XI, 62) come antagonista. Ciò è nelle fonti[47]; ma l’Alighieri spinge l’antagonismo fino alla efferatezza: proprio «coram patre» il giovane si unisce alla «donna» più odiosa, per un commerciante. Ora, l’accostamento tra la presenza di Pietro e il farsi «unito» del figlio alla propria sposa, ciò non era ricalcato nelle fonti letterarie. E se Francesco disse di Guido: «[…] egli è padre […]»[48], l’unione con la sposa «dinanzi a la sua spirital corte» (XI, 61) assume il significato di trasferimento di ruoli. La Leggenda dei tre compagni, 23, è carica di questa esigenza del «padre»: contro la maledizione di Bernardone, il figlio, maledetto, cerca un povero, come sostituto, per esserne benedetto; e il povero rappresentava, per l’Assisiate, Gesù stesso[49]. Senza la «benedizione» del padre, un cavaliere non intraprendeva nessuna impresa[50]. Innocenzo, poi, rappresentava la totalità e la pienezza visibile della «paternità» di Gesù sulla terra. Il canto XI tradisce anche il valore, per Francesco, della paternità. Dalla scena della truce ingiuria contro Pietro, Dante passa alla storia della sposa e, subito dopo l’identificazione dei «due amanti» (XI, 74), definisce lo sposo, entro la presentazione della loro prole (XI, 79-86; cf. anche XII, 115), come padre (XI, 85). Il poeta ben sapeva che anche Domenico lo era; ma lo chiama «pastor» (XII, 131). Il «pastore» di un’organizzazione, come vedremo, «addimandò» (XII, 94); il «padre», invece, «aperse» il cuore ad un padre supremo, una volta avuti dei figli ed esaurita la funzione ad personam, affettivamente parlando, del vescovo locale.

Per il resto, san Francesco diffidava dell’«abile e sottile formulazione giuridica» delle curie[51]. Si sa degli incontri un po’ tormentati di Francesco e Ugolino, pur affezionatissimi l’un l’altro[52], sulla adozione di una regola preesistente[53]; si sa degli incontri, per quanto ingentiliti da un’atmosfera di umiltà, di Francesco con Domenico e Ugolino sulla questione della prelatura[54], e di Francesco con il papa stesso[55]. Ciò non è in contrasto con la richiesta di un «cardinal protettore»[56]; è, invece, in accordo con il timore che la «sapienza dei prudenti di questo mondo» inquini la «stoltezza» del carisma francescano[57], e il fondatore voleva per i suoi, come già per sé l’aveva avuto in Innocenzo, un «padre» cui «aprire l’intenzione», continuamente, di essere «minori».

Un giorno san Francesco ebbe con il vescovo di Terni un colloquio, che in parole povere è il seguente[58]: il vescovo invita a ringraziare «sempre il Signore» per aver dato quell’«uomo poverello» non dotato di «nessun pregio»; Francesco, esaltato da tanto «onore», rivendica, tutto contento, egli dice, «intatto ciò che è mio», cioè la «miseria». Se la «conferma» pontificia del «propositum» francescano è «uno dei grandi miracoli morali della storia»[59], lo è innanzitutto la fraternità che, per togliere le differenze, vuole prima per sé, e non per gli altri se non affratellandoli, l’eliminazione di ciò che ne è un ostacolo. Quel che poi ne segue è necessità: anche se non per lo storico.

 

  1. La «domanda» giuridica di Domenico

Domenico, invece, «addimandò» (XII, 94): e poi, grazie a lui, «la Santa Chiesa si difese» (XII, 107). Sacerdote e canonico, egli esercitava già da qualche tempo, con il vescovo Folco e per incarico pubblico, la predicazione, condotta ormai fino a Tolosa, quando si presentò, i primi giorni dell’ottobre 1215, a Innocenzo. L’iter della «conferma» domenicana[60] è caratterizzato, certamente, da spirito cattolico e obbediente, ma unito ad un vero e proprio ingegno organizzativo. Il fondatore fu capace di cogliere il momento «opportuno» in ogni circostanza, e particolarmente in quella «in cui il Concilio Lateranense si accingeva a pronunciarsi in merito ai […] problemi della predicazione»[61]. Inoltre, egli dedicò moltissima attenzione a garantirsi libertà di movimento e di azione[62].

Gli aspetti caratteristici della «conferma» domenicana riguardano la predicazione e, secondo Dante che tradisce nel canto XII la tentazione pauperistica, la povertà. Essi saranno considerati nei rispettivi paragrafi. Qui ci preme concludere con la «conferma» francescana da parte di Onorio, con cui Dante garantisce il valore istituzionale della Chiesa[63].

La «seconda» (XI, 97) approvazione segue subito, nel testo, il «primo sigillo» (XI, 93): lo spazio di 13 anni è sintetizzato, in poco più di un verso, nella «crescita» della «gente poverella» (XI, 94)[64]. L’immediata successione non obbedisce solo, in Dante, ad un criterio tematico del discorso, ma anche ad una intuizione suscitata dalla figura del protagonista.

Il complemento di agente usato per l’«Etterno Spiro» (XI, 98) non toglie nulla ad «Onorio», cui viene assegnata una funzione mediale o strumentale («per»); anzi, ne avvalora l’autorità, conferendogli il massimo del potere, di decidere, cioè, in terra, delle stesse chiamate che vengono dallo Spirito Santo: potere che è del solo «vero clavigero del regno dei cieli»[65]. La giusta osservazione sintetica del Millefiorini: «la continuità fra i tre ‘sigilli’ ricevuti dall’istituzione del Poverello mette in risalto come il dono mistico delle stigmate venga a ratificare l’operato ‘giuridico’ di due papi»[66], esige la discussione di possibili contestazioni.

L’ultimo «sigillo» mediante le stigmate, generalmente inteso rispetto alla Regola[67], è ricevuto direttamente da Cristo, così come la «seconda» conferma direttamente dall’«Etterno Spiro». Ora, soprattutto questa «ultima autenticazione»[68], nella quale la Chiesa ufficiale, cioè dell’«ufficio gerarchico», non compare affatto, non potrebbe essere intesa come quella approvazione che, unica, è decisiva, essenziale, la sola avente valore sostanziale? Sarebbe il Cristo il supremo «confermante» anche in terris? Ci pare che non sia così, per Dante. Innanzitutto, per l’atteggiamento che egli addita in Francesco, la cui prima premura – dopo solo circa tre anni dalla «conversione» – fu di «aprirsi» a Innocenzo. Per Domenico, il cui canto XII mostra chiaramente l’affermazione dantesca della Chiesa istituzionale, tra la prima «idea di un Ordine di predicatori», concepita a fianco di Diego[69], e la domanda di «conferma» passarono circa nove anni. Eppure, per Dante, lo «sposo» andato a nozze, addirittura, con la regina salita agli apici del Golgota era lui, Francesco. A che scopo ricordarne una insignificante, giuridicamente, orale «conferma», quando era ben più allettante, per un poeta politico, e anche più lirica, l’orale «chiamata» di Gesù stesso in san Damiano? «Va’, ripara» la Chiesa: così corrotta, per Dante? Né c’era più bisogno ormai, del resto, di un’apologia della legittimità giuridica dei Minori.

Il poeta vedeva essenziale nel personaggio il rapporto intimo – e lo visse egli stesso – con un altro, uno, fuori del cui riferimento la «voglia santa» (XI, 99) può esser santa quanto si vuole, ma senza alcun valore ecclesiale. L’«ultimo sigillo» non esautora i primi, né li supera: li presuppone. Anzi, come la «seconda» conferma aveva avuto, «per» Onorio, la mediazione giurisdizionale e magisteriale dell’operazione dell’«Etterno Spiro», così qui, nel «sigillo», diremmo «carnale» di Cristo, è implicita, idealmente, la presenza gerarchica della «sposa di colui ch’ad alte grida / disposò lei col sangue benedetto» (XI, 32-33). A questo punto ci viene in mente un’osservazione di H. Vicaire: «L’incertezza cristiana […] non proveniva tanto da una decadenza quanto piuttosto da una esuberanza […] di generosità religiosa»[70]. Dante sembra lo abbia capito, almeno in questo canto XI. Operare in «favore» (XI, 35) della Chiesa, senza stretto legame con i suoi «pastori» anche se «tralignano» (cf. XII, 90), non sarebbe possibile, secondo il Francesco dantesco, neppure alla «provedenza che governa il mondo / con quel consiglio nel quale ogne aspetto / creato è vinto pria che vada al fondo» (XI, 28-30).

Se Dante non avesse colto questa intima convinzione francescana, non avrebbe potuto capire, secondo noi, il personaggio pur, certamente, temerario e ardito, e dunque non avrebbe costruito un’«epopea [dalla] maestosa e nuda ispirazione […] fino alla squallida e divina morte» di lui[71]; non ci avrebbe ricreato, con una «splendente e pur nuda parola[72], un «campione» così imponente.

Oltre alle osservazioni di un Brezzi[73] o di un Millefiorini, per esempio[74], non ci sembra che Dante distingua, in questi canti, due aspetti, nella Chiesa, con una concettualizzazione che costituisca valido quello «spirituale», e invalido quello «istituzionale». Se infatti è sottolineata la connessione tra i «campioni» e il «popolo» raccoltosi intorno a loro (XII, 42-43), e se la provvidenzialità dei due «archimandriti» è fondata sulla «sola grazia», e «non per esser degna» la Chiesa (XII, 42), tale esclusione della «vigna» (XII, 86), la Chiesa, va individuata in ordine ad una categoria da cui sia esclusa, a sua volta, l’autorità papale (ed episcopale, XI, 61), ovvero la «sedia» (XII, 89-90). Ci convince che Dante distingua piuttosto due formalità: quella individuale, come comportamento morale, con responsabilità di fronte all’«imperador» divino e di fronte alla storia, e quella istituzionale. In quest’ultima non è disgiunta la funzione giuridica da quella sacerdotale.

Da segnalare infine un prezioso dato testuale. Mentre nel canto XII l’autore lancia un’accusa a «colui che siede» (XII, 90), cioè alla Chiesa gerarchica come individui, moralmente colpevoli, nel canto XI nessuna gliene sfugge, pur avendone maggiori occasioni. Infatti, a chiedere l’approvazione ecclesiastica fu, per primo, Francesco, ed inoltre per una vita più «dura» (XI, 91) – almeno per l’«intenzione» che interessa a Dante – di quella domenicana. Se l’Alighieri concepì i due canti unitariamente[75], crediamo che anche questo dato comprovi la loro complementarietà nell’unità. Infatti, l’identica fedeltà alla «sedia» è sentita, con Francesco, nella modalità di chi aveva raccomandato di non giudicare neppure le persone, e in specie i chierici, «perché nient’altro io vedo, corporalmente, in questo mondo, se non il santissimo corpo e il sangue suo che essi soli amministrano agli altri»[76], e perciò «non voglio in loro considerare peccato»[77]; con Domenico, invece, nella modalità di chi, mantenendosi nella carità, e pur con misericordia, sapeva operare, per abitudine teologica – ciò, almeno, secondo il diffuso giudizio sull’Ordine di san Domenico –, distinzione tra gli aspetti formali.

 

IL «FARE» E IL «DIRE» FRANCESCANO E DOMENICANO

La distinzione dei carismi non comporta una qualificazione contrapposta, con esclusione di elementi comuni[78].

San Francesco, indubbiamente, intese la propria vocazione come «soccorso al mondo mediante la parola di Dio»[79], e ricevette l’invito a predicare «la parola di Dio»[80]. D’altra parte, anche per Domenico la predicazione era congiunta, esattamente come per Francesco, alla «testimonianza di vita personale», «verbo et exemplo»[81]: anche per il fondatore dei Predicatori il «dire» non è efficace senza il tacere della preghiera[82] e senza il fare misericordia[83], per «compungere» il cuore dei fedeli[84]. Tra l’altro, Domenico sapeva distinguere bene tra «lotta» all’eresia ed esortazione pia[85].

Tuttavia, «Francesco non discusse di problemi teologici, ma dei temi morali […], [mentre] san Domenico faceva una esperienza molto differente. […]. I problemi posti dai catari implicavano piuttosto chiarimenti dottrinali: problemi teologici per quanto riguarda l’esistenza dei due dei o un Dio e un principio maligno»[86]. Il compito di predicare, per Francesco, è incentrato sulla «penitenza», anzi, esattamente, è incentivo a «fare» penitenza[87] e a «fare» la pace[88]; il suo dettato, costante ed energico, era di predicare più «con l’esempio che con le parole»[89]. Con esatta intuizione, Dante non rammenta la predicazione di Francesco, che del resto non fu frequentissima[90], e ricordando quella al «Soldano» la inquadra nell’ardore per il «martirio» (XI, 100)[91].

Dotato, a suo stesso dire, di spirito più di orazione che di predicazione[92], comunque con un carisma anche di semplicità[93] e di «penitenza»[94], Francesco predicava «in un linguaggio [così] familiare» da sembrare «uno che conversa[va]»[95]; nella sua predicazione «itinerante», il suo parlare era più un fare che un dire[96]. L’uso della predicazione itinerante di per sé non era una novità francescana[97], ma per la spiritualità minoritica essa rispondeva anche al principio di costruire la pace nell’obbedire, senza scuse ed eccezioni[98], ai «sacerdoti del luogo»[99].

L’«indi sen va» (XI, 85) dantesco, pur non riferito alla predicazione, disegna la psicologia del personaggio, dai suoi primi «canti di lode a Dio»[100] alle sue «prediche» alle creature. Certamente per tratteggiare la figura di un uomo impegnato sul fronte, essenziale per Dante, della povertà, il poeta non espone l’aspetto «giullaresco» del cantore di Assisi, ma ne illumina la forza rivoluzionaria in quell’«andare»[101] che è predicazione della presenza della «sua donna» (XI, 86): predicazione che è un atto di letizia e di speranza: l’«umile capestro» (XI, 87) dimostra, nel fatto, la prodiga dedizione della povertà del Verbo[102].

Curiosa – non decisiva – è la coincidenza del citato verso 85 del canto XI con il XII, nel quale è posto l’inizio del carisma, sotto un aspetto, di Domenico: «In picciol tempo gran dottor si feo». Inoltre, nel verso 99 dei due canti è definita, rispettivamente, l’intenzione francescana come «santa voglia», che indica – rafforzata immaginificamente dalla «sete» del verso 100 –, ardore, e l’azione domenicana come «torrente ch’alta vena preme», che esprime tradizionalmente la facondia[103]. «Se l’importanza dei due ordini è alla pari […], il loro influsso culturale non è di ugual natura. Il francescanesimo si rivela subito aperto ai voti della pietà popolare e borghese, al volgarizzamento del messaggio evangelico, all’esemplarità personale proposta come lezione di vita […]. L’azione dei domenicani è diversamente orientata e indirizzata […]. I frati di san Domenico sorvegliano scrupolosamente il campo delle idee, e quindi del sapere, quanto il comportamento dei fedeli. Lungi dal proscrivere la scienza, come Jacopone da Todi […], essi la assediano, se così può dirsi, dall’interno, attenti a tutte le sue mosse»[104]. È ben vero che Francesco stesso, aperto alle possibilità inesauribili, seppe ammettere, per i frati, scelte di studio[105]; ma, per Domenico, già le premesse erano diverse: egli aveva «il gusto della dottrina», «era nato per essere un predicatore»[106]. Perciò, mentre Francesco «sprezza il bel parlare», Domenico lo coltiva «con una plasticità di immaginazione […] che conferisce alla sua parola un lirismo sorgivo, un empito drammatico che ne fanno un vero oratore»[107], e vuole i suoi frati «dediti senza interruzione allo studio, [oltre che] alla preghiera e alla predicazione»[108].

Il «dottor» (XII, 85) e la «dottrina» (XI, 97) traducono esattamente il «magister praedicationis»[109]. Il «maestro» attribuito a Francesco ha, anche in Dante, in cui esso compare accostato a «quel padre» (XI, 85), il senso del magistero paterno. Titolo non gradito al santo[110], «maestro» gli è attribuito dai discepoli nel senso dello Specchio di perfezione, 87, cioè secondo la descrizione offerta, su tale concetto, da Francesco stesso: «maestro» è colui che «genera» i fedeli soprattutto «con le opere buone, con mansuetudine di scienza», poiché sapere è amare «Dio e il prossimo»[111]. Dante, forse per la complessità medioevale del termine maestro[112], non lo usa per Domenico, al quale dà invece il titolo di «dottor».

Poi con dottrina e con volere insieme

con l’officio appostolico si mosse (XII, 97-98).

Con finezza intuitiva, Dante, al cui canto XII non ci sembra applicabile il giudizio secondo cui egli appare «incapace di ricostruire l’intima personalità» del protagonista[113], ha colto bene come per Domenico non bastasse la dottrina: «uomo dai pochi disegni, maturati nel lungo silenzio e realizzati poi con tenacia»[114], lo confortava il forte «volere». Il ministero della predicazione, esercitato, fino allora[115], in genere da chi avesse anche potere temporale, oppure preparato da uno studio inteso ad «acquistar moneta e dignitate»[116], fu rivoluzionato da san Domenico con una contestazione «più efficace nel rendere spirituale la diffusione del messaggio evangelico» di quanto non fosse «il sistema contemporaneo della guerra santa e la coercizione civile in materia di fede»[117]: addirittura, i legati pontifici «ne rimasero sconcertati».

Individuati «nella Chiesa le insufficienze e i rimedi», Domenico guardò la situazione con «occhio sacerdotale» e, «solidale con gli Apostoli, con la comunità primitiva dei Dodici», rispose «alla parola d’ordine […] rivolta» alla Chiesa: «Ammaestrate tutte le genti»[118]. Il primo intendimento di Domenico fu la «conferma» papale del titolo e dell’incarico ufficiale di Predicatore[119], benché egli fosse in ciò già autorizzato dal vescovo Folco[120]. Certo, anche Domenico, come Francesco, confida, e vuole che i suoi frati confidino, nel «dono» divino della parola[121], tanto più che i frati erano, all’inizio, «in genere semplici e poco istruiti»[122]. Ma appunto in ciò sta la differenza tra l’uno e l’altro: il «dottor» imposta l’«officio» sulla «dottrina», e sceglie, come «cardini della società dei Predicatori, Parigi e Bologna, i due centri intellettuali dell’orbe cattolico»[123]. Questo personaggio, che è essenzialmente un apostolo[124] e che fu mosso dalla lucida oculatezza anche di Ugolino – il quale colse, «con una specie di nostalgico rimpianto, la generosità [di Domenico, così] vicina a quella degli Apostoli»[125] –, mosse la Chiesa a convincersi della necessità dell’«evangelismo apostolico per infondere nuova vita alla cristianità»[126]. In quel dantesco «si mosse» c’è tutto il «volere» eroico, poiché, «per assolvere alla sua paurosa missione apostolica, Domenico era […] solo»[127], e c’è tutto il carisma apostolico[128].

Il magistero dottrinale e oratorio di Domenico è ricalcato da Dante su uno schema combattivo, già evidente però, ad esempio, nella bolla Gratiarum omnium di Onorio III, del 21 gennaio 1217, che parla di «salutare eloquenza» dei Domenicani, «atleti invitti di Cristo» che impugnano «generosamente la spada della parola di Dio contro i nemici della fede»[129], e che inoltre concede ai medesimi frati – «speciales filii» – gli stessi privilegi accordati, «in remissionem peccatorum», ai partecipanti alla crociata antialbigese[130].

«Anche i particolari [del canto XII] che non richiamano a idee battagliere, hanno però una solennità impetuosa con la idea dominante di questo disegno biografico»[131]. Siffatta caratterizzazione è anch’essa una scelta del poeta, che gli ha fatto sottovalutare «il distacco del cuore di apostolo» di san Domenico, il quale, di fronte alle diatribe inutili, sapeva rinunciare per amore fraterno.

 

LA SANTITÀ DI DOMENICO E DI FRANCESCO

  1. L’«apostolicità» domenicana

Il dinamismo apostolico, nel senso dell’azione, è il fondamentale, ma non l’unico aspetto del Domenico dantesco, né la sua esaustiva dimensione. In effetti, il poeta traccia nel canto XII la figura di una corretta visione del suo «officio appostolico» (XII, 98), ha inquadrato il ruolo dell’«archimandrita» nella rappresentazione, all’inizio della biografia, del personaggio come persona.

Certamente, i prodigi delle prime battute agiografiche sono stereotipi, dalle «visioni»[132] agli altri «episodi edificanti» che hanno il solo inconveniente di aver già servito per altri santi[133]. Tuttavia, non si è riflettuto abbastanza perché Dante sia ricorso, nel canto XII a differenza dell’XI, a tali luoghi comuni, non del tutto spiegabili, per l’ispirazione poetica, con la struttura simmetrica dei due canti «anche nel numero dei versi»[134], né, per il contenuto, con l’esiguità delle notizie sulle «esperienze spirituali del Santo, [poiché] […] un profondo riserbo avvolse fino all’ultima ora il segreto dei suoi intimi rapporti con Dio»[135]. Ma Dante, che in realtà doveva conoscere bene sia l’Ordine domenicano sia la storia del suo fondatore[136], non introdusse, nella «vita» di lui, il suddetto materiale senza una congrua motivazione ideologica, in sintonia con il personaggio; dal punto di vista espressivo, ciò vale anche per gli evidenti «inserti esortativi (XII, 73-81), i sottili giochi metalinguistici (XII, 67-69; 79-81), le componenti apologetiche (XII, 82-87) e polemiche (XII, 88-93)»[137]. Se infatti Bonaventura, che parla di Domenico, usa una «parola […] più ornata»[138] di quella di Tommaso che parla di Francesco, e se egli esprime l’entusiasmo con una figura etimologica (XII, 79-80) di eredità biblica[139], e se tutto il discorso è condotto secondo un procedimento circonlocutorio fatto anche di riprese («e io ne parlo», XII, 70), ciò si attiene a colui «che in picciol tempo gran dottor si feo» (XII, 85). Secondo qualcuno, i Domenicani, al tempo di Dante, predicavano seguendo addirittura le «regole di composizione» classica[140]; comunque, i loro sermoni certamente erano composti sullo schema della sacra oratoria[141].

Analiticamente, la «profezia», di evangelica derivazione, «ne la madre» (XII, 60), si addice ad un predicatore[142], e al contempo la natura del personaggio è fissata tra i segni del futuro carisma e le prime gesta del santo, uomo eletto come persona:

[…]

la donna che per lui l’assenso diede,

vide nel sonno il mirabil frutto

ch’uscir dovea di lui e de le rede;

[…]

Spesse fiate fu tacito e desto

trovato in terra da la sua nutrice,

come dicesse: ‘Io son venuto a questo’ (XII, 64-66, 76-78).

La terzina che, indubbiamente con stile oratorio, determina il personaggio etimologicamente, è troppo «costruita»[143], ma non senza implicazioni che vanno alla sostanza dell’avvenimento:

e perché fosse qual era in costrutto,

quinci si mosse spirito a nomarlo

del possessivo di cui era tutto (XII, 67-69).

Il rilievo essenziale è che lo «spirito», che guidò la scelta umana del nome di Domenico, venne «quinci», dal cielo: il che immerge anche il singolo particolare, così come l’intero destino storico, nell’ordine della «provvidenza». Il disegno trascendente coinvolge, per la sensibilità medioevale forse più che per la nostra, l’intero processo, compresi i fenomeni indubbiamente secondari, e quindi diversamente rapportabili, dell’opera umana. In ogni caso, la celebrazione di Domenico, senza la premessa biografica così puntualizzata, rischiava di proporsi con un eccesso di ideologia: eccesso al quale, nel canto XI, l’Alighieri aveva ovviato con altrettanta avvedutezza, espressivamente diversa per il medesimo principio della coerenza con il personaggio in questione.

L’«agricola» che «Cristo / elesse a l’orto suo per aiutarlo» (XII, 72)[144] fu, ancor fanciullo, ben dimostrato:

Ben parve messo e famigliar di Cristo (XII, 73).

L’«officio» è presente:

come dicesse: ‘Io son venuto a questo’ (XII, 78),

ma non, direttamente, come predicazione. All’origine c’è, invece, la disponibilità alla chiamata essenziale, da leggersi, tuttavia, unitamente sia al verso 63: «ch’uscir dovea di lui e de le rede», sia ai versi 70 e successivi: «Domenico fu detto», ecc. Inoltre, i predicati del verso 73, sopra citato, sono spiegati mediante attitudini qualitativamente precise, che ne costituiscono intrinsecamente il senso più immediato, anteriore ad ogni funzione pubblica. Esse sono sia la sequela di Gesù,

che ‘1 primo amor che ‘n lui fu manifesto,

fu al primo consiglio che diè Cristo (XII, 74-75)[145],

sia la preghiera silenziosa, compiuta sulla «terra» nottetempo, quasi con disappunto, o con stupore, degli adulti (XII, 76-77).

Tali note agiografiche escludono, nell’economia del canto XII, il concetto di una strumentalizzazione di Domenico da parte della Chiesa (la quale «si difese», XII, 107 mediante la sua opera), ed insinuano che il servizio, di cui la Chiesa si avvale, è, prima di ogni strategia politica, un frutto della provvidenza la quale, entro al processo delle contingenze storiche, sa preparare uomini, innanzitutto, di penitenza e di preghiera. Domenico regge bene, in santità, il confronto con Francesco[146]. La contrapposizione tra l’«amor de la verace mamma» (XII, 84) mostrato da Domenico e l’«affanno» del mondo per i beni temporali (cfr. XII, 82-83) è polemica, ma nel senso di XI, 4-9:

Chi dietro a iura e chi ad amforismi

sen giva, e chi […]

[…]

s’affaticava e chi si dava all’ozio[147].

Più ancora, però, tale contrapposizione, che vale per Francesco quanto per Domenico, serve ad applicare loro il massimo ideale religioso e, dantescamente, «politico»[148]: tanto più che, come osserva il Tommaseo a proposito dell’esordio del canto XI, è «la mansuetudine che risplende nella dolcezza […]»[149], nonostante la polemica.

L’associazione, nella «gloria», dei due «principi», per cui

Degno è che, dov’è l’un, l’altro s’induca (XII, 34),

e

[…] d’amendue

si dice, l’un pregiando […] (XI, 4041),

mostra una convergenza unitaria, con manifestazioni differenti anche nella santità, oltre che nella funzione. In Domenico è considerato l’uomo fedele, cioè il servitore «amoroso» (XII, 55). Se anche nel canto XII, come già nell’XI, compaiono le «sponsalizie» (XII, 61), tuttavia, qui, sia la specificazione del «drudo» (XII, 55), sia i contraenti lo sposalizio si incentrano su un dato peculiare al protagonista: la fede. Per «l’amoroso drudo / de la fede cristiana» (XII, 55-56), «le sponsalizie fuor compiute / al sacro fonte intra lui e la Fede» (XII, 61-62): si tratta, certamente, della fede come esperienza di vita personale, ma è anche, opportunamente, indicata la fede sia come sacramento mediante cui essa si ottiene ecclesialmente, sia, poi, come criterio discriminante i «suoi» fedeli e seguaci e i «nemici» (XII, 57), per cui egli fu «benigno a’ suoi e a’ nemici crudo».

Essa dunque è, in Domenico, una «vertute» (come già quella della «madre […] profeta», XII, 60) essenzialmente conoscitiva: non già astratta e arida, essendo essa di un servitore «amoroso»; tuttavia tale che distingue, discerne.

La «mutua salute», di cui «si dotar» (XII, 63) Domenico e la fede, impone, poeticamente l’unione sponsale – sottolineata dal semantema «portare in dote» –, ma con tensione difensiva a vantaggio della fede, alla maniera «crociata», in accordo con il «santo atleta / […] a’ nemici crudo» (XII, 56-57), per provvedere «a la milizia ch’era in forse» (XII, 41). Nel canto XI, invece, l’unione sponsale era determinata da un affetto tale che lo «scalzarsi» «dietro a tanta pace» (XI, 80) scaturiva dallo sposalizio stesso, il quale, dotato di intrinseca impotenza, si rivelava potente per la sua sola amabilità. Il canto di san Domenico si svolge su un registro di dualità – come «intra lui e la Fede» (XII, 62) –, che è lo spazio di una fede predicante. Vi compare, ad esempio, la donna: non però come aspetto interiore («sposa») del personaggio («sposo») del canto XI, ma come «la donna che per lui l’assenso diede» (XII, 64), cioè come mediazione. Domenico sarà, nella biografia del canto, lui stesso un mediatore: apostolo. Gli stessi presagi sono offerti tramite seconde persone (cfr. XII, 58-60; 64-66): ed è la prova riflessa del carisma. Nel canto XI, invece, il protagonista è, per Dante, lui stesso rivelazione di sé: e ciò rientra nel quadro della semplicità, nel senso più profondo, del personaggio. Nel Francesco dantesco c’è l’esperienza come prova, l’uomo stesso come valore profetico; nel Domenico dantesco c’è, coerentemente, l’annuncio di profezia, la deduzione come prova, l’attestazione della «nutrice» (XII, 77).

L’esordio della «vita» dantesca di Domenico sottolinea l’interiorità del personaggio, evidenziandola, al contempo, in una tipologia di santità tradizionale. Ma l’eccezionalità, indicata nelle forme classiche, del santo non conchiude, a sua volta, l’intera rappresentazione di quell’«archimandrita» che fu un rivoluzionario, per dirlo con Ubertino da Casale, «nella riforma spirituale» del suo secolo[150]. Da ciò sembra derivare la necessità, nella biografia domenicana della Commedia, quasi di un costante intervento divino[151]: il poeta ne sviluppa la vita con una continuità nell’ordine storico-esistenziale, ma ne rileva anche due livelli, pur tra loro correlati provvidenzialmente: quello della santità personale che si evolve con una linearità quasi tipicamente scontata, e quello della «apostolicità» innovativa. Il secondo livello è, nel canto XII, tale per cui il protagonista, invece che essere un apostolo, solo individualmente, eccezionale nell’eloquenza, nella mortificazione, nella dottrina, diventa l’uomo ecclesialmente d’eccezione, cioè il fondatore-profeta di una rivoluzionaria concezione «apostolica»:

e ne li sterpi eretici percosse

l’impeto suo, più vivamente quivi

dove le resistenze eran più grosse (XII, 100-102).

Non mi pare che i commentatori abbiano colto, in tale pennellata, il cui esatto riferimento biografico è ravvisabile, puntualmente, nelle antiche fonti domenicane[152], altro che l’eroicità combattiva del personaggio, la sua dinamicità esteriore. In realtà, qui è il carisma storico di Domenico: predicare per amore, esclusivamente. Egli, dantescamente, è un «campione» da primato, un fondamentale «archimandrita», un «principe» (o «principio») nuovo non tanto per l’impetuosità della sua parola che non bada a ostacoli e non ha paura delle difficoltà, quanto per lo «splendore» per cui l’evangelizzazione procede dalla fedeltà assoluta al carisma, che è «luce» non solo di dottrina, ma soprattutto di amore. L’organizzazione, come pure tutte le dovute accortezze strategiche, non sono da lui considerate se non vicende; vicenda è predicare in facili, oppure in difficili, circostanze, con esiti favorevoli, oppure sfavorevoli. L’«impeto» del santo, delineato dall’Alighieri, non è dell’uomo agguerrito, ma, quasi virgilianamente, del «pio» eroe, fedele alla Provvidenza, Quel che segue, poi, è conseguenza di fedele amore, proprio da «amoroso drudo», e non tanto il frutto delle doti eccellenti:

Di lui si fecer poi diversi rivi

onde l’orto catolico si riga,

sì che i suoi arbuscelli stan più vivi (XII, 103-105).

Ecco dunque la conclusione della vicenda provvidenziale di Domenico: un esito che l’autore pone subito dopo l’indicazione dell’atto più irragionevole del «campione». Anche Domenico ha, in Dante, il suo necessario ardore serafico. In Francesco, tuttavia, l’irragionevolezza è all’origine: e determina una struttura esistenziale e storica diversa.

 

  1. Francesco: la semplicità del «pusillo»

La santità di Francesco è strana: è atipica. Essa si offre, nella Commedia, come virtù anomala, ma che si evolve, per la sua stessa ingenuità, quasi con necessità, stilnovisticamente, intrinseca: il «miracol» del «sole» (che nella Vita Nuova era della «donna-salute»), «venuto di cielo in terra», è un compimento inevitabile alla natura del protagonista.

Innanzitutto, la santità di Francesco non ammaestra. Correttamente dunque Dante ha posto, nel canto XI, l’insegnamento prima della biografa, e l’ha continuato, all’interno di essa, con lo strumento dell’allegoria, di una favolosa storia che è essa stessa segnalazione di virtù. Per di più, «il contenuto didascalico che è proprio dell’allegoria non ha affatto la forma dell’ammaestramento dottrinale rivolto alla coscienza, ma è un fatto reale […]», e, al contempo, tale «figura» è «altresì parte di un grande contesto storico e dogmatico»[153].

Soprattutto, la santità del protagonista, nel canto XI, non è preparata biograficamente, ma è determinata extratemporalmente. La nascita del «sole» (XI, 50) non è, qui, un sogno di determinate persone, come invece per le «profezie» del canto XII: essa è un dato che sta tra la storicità, significata dalla forma verbale («nacque»), e la metastoricità, simbolica, di «sole», così come «Ascesi» (XI, 53) è tra la concretezza topografica di «quella costa» (XI, 49) e la teologicità semantica di «Oriente» (XI, 54). Ora, costui che «nacque» entra, narrativamente di colpo, «in guerra». Soltanto una precisazione temporale: «non era ancor molto lontan dall’orto» (XI, 55). Il resto non importa, quasi che, di per se stesso, questo «sole» non potesse né non «far sentir la terra / de la sua gran virtute alcun confronto» (XI, 56-57), né non entrare «in guerra / del padre» (XI, 58-59). Il poeta non rammenta i problemi istituzionali affrontati dal suo personaggio, forse perché, tra l’altro, segnato da tale visione di semplicità, o necessità, metastorica: nel suo excursus si snodano, con tutta naturalezza storica, le conferme papali e la predicazione al Soldano, come provenienti, tutte, da «voglie» assolutamente efficienti, legate quasi a una determinazione extrabiografica.

La «forma di vita assolutamente nuova e originale»[154] di Francesco compare come un «miracol» del tutto semplice, nella sua grandiosa e sconvolgente novità: si tratta, niente di meno, che di «seguire Gesù Cristo in modo chiaro»[155], cioè di una cosa ovvia e, al contempo, nuova: come la vita. Da ciò, l’evolversi della biografia con l’immediatezza propria del vissuto, tanto che, «nonostante la nostra avversione per le allegorie, nel canto XI del Paradiso ci sentiamo afferrati dalla realtà del vivente»[156]. Anche l’intervento di Cristo per l’«ultimo sigillo» (XI, 107) ha, esso stesso, la genuina naturalezza delle cose straordinarie di cui ci si meraviglierebbe se non succedessero, e la morte è un semplice «muoversi» (XI, 116) dell’anima dal corpo: un movimento che «l’anima preclara / […] si volle» (XII, 115-116), tanto spontaneo quanto commisurato a quel provvidenziale destino che, dal nascere del sole in terra al suo «tornare al regno» (cfr. XI, 116), appare mirabile e innocente. (Nello Stilnovo, il movimento del cuore nobile verso la sua «salute» è altrettanto naturale, cioè ingenuo e necessario).

La dolcezza, che tutti percepiscono, è infusa nel canto anche grazie a questa semplicità profondamente francescana, tanto che lo stesso rimbrotto iniziale del poeta (cfr. XI, 1-9), benché «in nessun altro punto del poema forse l’antitesi tra la vera felicità e le stolte operazioni umane [sia] affermata con tanta violenza ed espressa in termini tanto drammatici e persino concitati»[157], non ha nulla dell’«aridità», innaturale, propria della violenza sprezzante; anzi, «si colora» di un «turbamento profondo», ma delicato insieme, perché nasce dall’intrinseca antinomia, quindi immediata e semplice, tra vita e vita.

Dante dichiara «mirabile» la «vita» di Francesco (XI, 95), tanto che meglio, egli dice, sarebbe esaltarla nella «gloria»[158]. Ciò sottende il convincimento che il segreto profondo del personaggio è appena traducibile in un excursus biografico. Non crediamo che, con siffatto stratagemma, l’Alighieri abbia voluto accantonare tutto il «molto altro» che c’era da dire di lui oltre la povertà, e che egli abbia voluto lasciare «in ombra», o non saputo mettere «in luce», tante espressioni del santo, come aveva fatto, invece, Bonaventura nelle sue Leggende[159]. La dichiarazione dantesca è relativa non solo al proprio limite di scrittore, ma alla stessa insondabilità della povertà francescana, se è vero che questa, come esperienza intima e totale, si connette all’intero vissuto, contenutisticamente molteplice, del personaggio. Ci sembra in effetti mal posto, perché fondato su elementi solo materiali della povertà, il rilievo secondo cui Dante non solo insiste unicamente sull’imitazione della povertà di Cristo da parte del protagonista, ma arriva addirittura a dimenticare tanti «eremiti innamorati della povertà»[160]. È proprio la forma della povertà ad essere, in Francesco, del tutto nuova e profetica rispetto alla pratica dei monaci antichi, degli eremiti, e dei monaci riformati dell’XI e del XII secolo.

Strano, a prima vista, è invece il ritorno dall’Egitto in Italia: per non stare a far niente di proficuo. Il compendio dantesco sembra sottendere, affettivamente, l’intuizione di una qualità del personaggio tutt’altro che ancorata alla logica dell’utilità. In effetti, in quale altra circostanza Francesco si mostrò più piccolo, quanto in questa «magnanima risolutezza»[161] della predicazione, che si risolse in un nulla di fatto storicamente ponderabile, e, subito, in questa disponibilità ai disegni della Provvidenza? Dopo che egli, con la sprovvedutezza agguerrita solo dell’«ardore» e della semplicità, «predicò Cristo e li altri che ‘l seguiro» (XI, 102), con la medesima semplicità obbedì:

redissi al frutto de l’italica erba (XI, 105).

Allora si compì il fatto cruciale: «nel crudo sasso» (XI, 106).

Il nucleo di questo avvenimento non sono le stimmate: è il ricevere. «[…] intra Tevere e Arno / da Cristo prese […]». Questo «prendere» del Francesco dantesco è povero e semplice: senza neppure estasi. Nelle fonti, l’episodio si annuncia con la lettura evangelica della passione e si conclude con il «forte stupore» dello stigmatizzato[162], del quale è semplicemente notata la «letizia» per l’«atteggiamento gentile» di Cristo. Il fraticello di Assisi, trovatosi con i «segni», cerca di nasconderli, ma, non potendolo completamente, si consiglia con alcuni fratelli: con la stessa fiducia e umiltà mostrata già con Innocenzo. Nell’«esperienza della passione», intima e senza scenografie contrarie allo spirito di umiltà e povertà della passione medesima, c’è tutta la mortificazione, c’è l’ascetismo e addirittura il desiderio del martirio. Ciò, anche nel Francesco dantesco[163]: con un rapporto anche formale e stilistico, poiché lo stesso è il periodo sintattico, che inizia con la «sete del martirio» e finisce con: «le sue membra due anni portarno» (XI, 100 e 108).

Il racconto bonaventuriano delle stigmate ricorda che il fondatore non ebbe il martirio della carne, ma dell’ardore; Dante, pur con tutta la riservatezza e il pudore tipici del canto francescano, sottolinea, con scultorea sinteticità, la fisicità del «sigillo», con il termine «membra». Le «alte grida» di XI, 32, con cui Cristo «disposò» la Chiesa «col sangue benedetto» (XI, 33, con somiglianza ad Atti degli Apostoli, XX, 28), sono state sempre riferite al momento della crocifissione, al «clamans voce magna»[164]. Notiamo tuttavia anche un altro riferimento, quello della Lettera agli Ebrei, 5, 7, in cui, se non c’è la crocifissione, c’è teologicamente ed esistenzialmente completo ugualmente, tutto il «patire» («ex iis, quae passus est»), dall’«obbedienza» al Padre alla «consumazione». Ebbene, in questo brano il «Figlio» è posto tutto al di dentro, temporalmente, della propria debolezza «carnale» («in diebus carnis suae»), in cui le «preghiere e le suppliche» al Padre, «che poteva liberarlo dalla morte», non sono soltanto un grido nell’istante mortale, ma un combattimento tra sé e se stesso, tra la «carne» del «figlio dell’uomo» e la «gloria» che doveva derivarne («propter hoc exaltatus est»). In questa situazione il Cristo pregò «cum clamore valido»: forse, dantescamente, «ad alte grida»? Noi abbiamo visto queste «grida» di XI, 32 in riferimento, perlomeno anche, alla Lettera agli Ebrei, e crediamo che questo Gesù della «provedenza, che governa il mondo» (XI, 28), sia la più esatta figura eristica che anticipa la figura francescana del prosieguo del canto. Il Francesco dantesco è fissato, all’inizio, nella definizione:

L’un fu tutto serafico in ardore (XI, 37).

Ma il senso dell’«ardore» è quello del Cristo che «disposò […] col sangue»: è un ardore che patisce, un ardore che gioisce perché soffre per amore. Solo per la «seraficità» idilliaca ci sembra di poter dire che «l’ardore serafico dell’esordio biografico non ha sviluppo narrativo»[165]; in realtà c’è molto di più, e c’è quello che doveva esserci[166], tenendo conto che, proprio nelle fonti antiche, l’«amore serafico» è un’espressione più frequentemente ricorrente in rapporto all’esperienza delle stigmate e alla meditazione sulla passione[167]. L’Assisiate, dice un biografo, «ad alta voce» pregava e partecipava alla «passione del Signore»[168]: felice la coincidenza delle «alte grida» del Cristo dantesco del canto XI. Se, poi, in questo canto mancano i rapimenti quali, solo per esemplificare, si ricordano nei primi momenti della nuova vita dell’Assisiate e nell’episodio di Greccio[169], è anche vero che tale nota emana, con vivezza, da vari punti del testo. Ne è informato il connubio ardente, non silvestre ma «sponsale», dei versi 76-81, cui si accosta la passione serafica, più comunitaria, per la «famiglia» (XI, 85-87), in un’estasi di «pace» (XI, 82-84). Ardente è la «voglia d’esto archimandrita» (XI, 99), la quale, anche qui, non è rivolta se non ad un Gesù reale: il «martirio», la povertà, il papa. Come i primi cristiani, Francesco, nella biografia dantesca, ritrova l’esperienza dell’ardore serafico come pura carità.

Il verso finale della «vita» del protagonista si distacca, sul piano lessicale, dalle fonti, non riportando il termine, pur così suggestivo, di «terra»[170]:

e al suo corpo non volle altra bara (XI, 117).

Il concetto può apparire complicato nell’espressione, ma è, come dice il Momigliano, «ideale»[171]: il verso fotografa la situazione reale di Gesù in croce, la cui nudità fu anche nel non poter neppure pensare ad «altra bara». Ma le somiglianze non si fermano qui.

A proposito degli ultimi momenti della vita del Fondatore, il Celano[172], facendo convergere le sue ultime azioni verso la rappresentazione di un Francesco «perfetto imitatore di Cristo», vi iscrive atti di povertà, esortazioni all’amore e alla stessa povertà, e gesti di agape fraterna[173], oltre al cantico a «sorella morte»[174]. Se l’atto formale dell’imitazione di Cristo è riposto, secondo il biografo, nell’amore per i fratelli[175], il canto dantesco sul Francesco morente si incentra sulla cura verso i discepoli, e ciò con connotazioni di umiltà, quali risplendono nell’ultimo discorso di Gesù nel Cenacolo. Di tutte le raccomandazioni di san Francesco, Dante, secondo alcuni, «non registra che l’esortazione alla povertà»[176]. In realtà, non ne resta fuori che il cantico a «sorella morte», essendo «le altre componenti» tutte interne all’esortazione ad amare «a fede» (XI, 114) «la donna sua cara» (XI, 113). Che cos’era infatti il pregare, fraternamente, i frati perché si amassero a vicenda, il benedirli uno per uno, e anche, in fondo, il cantare alla morte, come tramandano le fonti, se non una celebrazione di povertà radicale, una raccomandazione, con i fatti, di povertà?

La conformità a Cristo del Francesco dantesco è, come dice l’Auerbach[177], nella concezione generale e decisiva: che mostra, scopertamente anche se con il riserbo degno del «pusillo» di Assisi, l’ideologia dell’«alter Christus», propria delle fonti antiche[178]. Fuori da una visione globale, e approfondita insieme, l’«alter Christus» francescano, nel canto XI, è forse restringibile alle stigmate[179]; ma, isolatamente prese, neppure ad esse. L’identificazione morale con il Cristo si imposta, nel personaggio del canto XI, già con il «sole » e con l’«Oriente»[180], e si allarga nella stessa «paupertas»: nel motivo delle «nozze» c’è il fondamento degli altri, sia del «sol oriens», sia delle stigmate[181]. La donna-povertà, che davvero Francesco chiamava «sua signora»[182], incarna, nella passione esistenziale del santo e nella passione di Dante, la vita di Cristo «sotto gli occhi di tutti e rinnova anche l’ufficio di Cristo, come il buon pastore che il gregge deve seguire», e che Dante affianca alle parole di Tommaso (X, 94-96); essa, costituendo il filo conduttore del canto, è anche comprensiva, contenutisticamente, di «tutte le cose amare, [di] tutto quel che si può pensare di amarezza e di disprezzo per se stesso, insieme con l’amore che è più forte di ogni amarezza, più dolce di ogni dolcezza e che è la conoscenza di Cristo»[183].

«Manca – dice il Bosco – […] ogni accenno alla assidua e macerante preghiera, alla crudele astinenza e austerità e castità di vita […]; mancano le profezie, le visioni, le estasi, gli stessi miracoli, di cui son piene le fonti e l’iconografia, non esclusa la giottesca […]; lo strenuo guerriero non è in Dante anche il pacificatore di guerre, soccorritore di miserie, come invece fu nella realtà»[184]. Per fortuna: Dante non ha ripetuto un cliché. Ha dato le indicazioni, nell’essenzialità radicale, di tutto ciò che era ben noto e «iconografico». Ha tentato di «guardare in faccia» l’uomo nuovo, cosa che è, come osserva egregiamente Stanislao da Campagnola, «difficile»[185]. Era ancor giovinetto, quando quest’uomo di Assisi rinuncia alle cose più appetibili, si innamora di una vita di povertà amara come la morte, e poi l’ama sempre più «forte» (XI, 63). Ora, questa povertà, che «con Cristo pianse in su la croce» (XI, 72), riguarda forse solo il vestiario, è una questione solo di quattrini, oppure è anche la compassione per il povero? La povertà del canto XI non «pianse», forse, in quanto si identificava amorevolmente con il sofferente in croce? «Non a caso il primo frutto di questa vita di penitenza [di san Francesco] è vista nel servizio amoroso del prossimo, massime di coloro che sono da tutti abbandonati»[186]. La «sposa», cui si unì il Francesco della Commedia, è una donna soprattutto di amore e di partecipazione nei confronti del «povero» Cristo, e in questa donna che, «dove Maria rimase giuso, / ella con Cristo pianse» (XI, 71-72) sul patibolo dei disgraziati, è concentrato tutto il significato dell’affetto francescano, visto dall’Alighieri, per gli uomini, soprattutto i più poveri e abbandonati.

Quanto al «disprezzo di sé», Dante magnificamente lo scolpisce nell’atto pubblico in cui il protagonista celebra il suo sposalizio di fronte alla gente ancor piena di riserve per quella «sposa» (e il vescovo Guido? Certo, soccorse e difese il giovinetto, ma proprio senza nessuna perplessità?). Occorrono, poi, episodi di pia gratificazione se c’è, nel canto XI, l’umile audacia, pericolosamente frustrabile, del presentarsi dello straccione di Assisi ad Innocenzo?

Né il gravò viltà di cuor le ciglia (XI, 88).

Nel Francesco dantesco manca, secondo alcuni, soprattutto l’umiltà»[187]. Invece, è proprio l’umiltà a grandeggiare nel canto XI: umiltà di cuore, umiltà di vestimento. C’è senz’altro l’«umile capestro» (XI, 87), ma c’è anche il valore più profondo dell’umiltà: l’abbandono totale, senza presunzione di sé, alle disposizioni di Dio.

Lo si evince non solo dalla missione in Egitto – in cui l’attributo di superba (XI, 101), segnalato per la «presenza del Soldan», è forse in contrapposizione con la prerogativa, sottintesa, del protagonista[188] –, ma anche, ed essenzialmente, dall’assenza, nel resoconto dantesco, di ogni problematica relativa alle divergenze dei frati, che pur avevano preoccupato il Fondatore. Non solo: ma i frati stessi sono, nella biografia del canto, unicamente «giuste rede» (XI, 112). Se l’umiltà e la povertà non sono cieche di fronte alle contraddizioni degli uomini e alle loro prevaricazioni, hanno però, sempre, proposte di «raccomandazione», in positivo: e tutto in un contesto di tenerezza: «a’ frati suoi» (XI, 112). In punto di morte, il Francesco dantesco non si arma, neppure per la «donna sua più cara» (XI, 113), se non dell’umiltà caritatevole:

a’ frati suoi, sì com’ a giuste rede

raccomandò la donna sua più cara,

e comandò che l’amassero a fede (XI, 112-114).

Su questa umiltà affettuosa il protagonista ha costruito l’unità di «quella famiglia / che già legava l’umile capestro» (XI, 86-87), e che era ammirata, alle origini come sembra pure nel canto del Fiorentino, per la sua «comunione senza riserve o restrizioni», tipica di una «comunità di vita di carattere spiccatamente familiare»[189]: egli non addossa colpe, ma presenta responsabilità, con l’attenzione di un padre e di un fratello. In questo senso, il quadro anticipa il dito puntato contro il «peculio di nuova vivanda / […] fatto ghiotto» (XI, 124-125); ma lo anticipa quasi per contrasto: dove è nata l’altissima umiltà, là la rampogna è più pesante[190].

La definizione centrale di Francesco è, nel canto XI, una sola: «pusillo»: solo per questo egli ebbe la «mercede» (XI, 110),

ch’el meritò nel farsi suo pusillo (XI, 111).

Nelle «nozze», l’Assisiate è grande; è storico. Per la sua «sposa», egli è guerriero[191]; è cavaliere. Ma egli l’ama e non l’impone a nessuno: è una nota, questa, poco percepita dai critici. Sarà vero, forse, che «a Dante piaceva la povertà, ma negli altri»[192]; sta di fatto, però, che egli la fa amare dal suo protagonista in modo così perfetto, e insieme «povero», che non è necessario predicarla: basta solo farla «raccomandare» dal morente. E gli uomini, nel canto XI, se ne innamorano da soli. La «piccolezza» di Francesco è anche in questa fiducia, in questa semplicità, che è sorella della povertà stessa, è sua dimensione totale.

È un fatto storico che «la gente poverella crebbe» (XI, 94), e, in effetti, lo seguì gente di tutti i ceti, e sia chierici che laici, tanto che ciò, all’epoca, fu «un aspetto caratteristico dell’Ordine»[193]. Ma non appartiene alla storia il perché la gente crebbe «dietro a costui» (XI, 95). Allora si capisce perché Dante, proseguendo, dichiari:

[…] la cui mirabil vita

meglio in gloria del ciel si canterebbe (XI, 95-96).

Nella ineffabilità, proclamata da Dante, si ingigantisce la pochezza di Francesco: dove si può «cantare» di un tale «pusillo», se non in luogo estraneo alle diplomazie del mondo? e anche all’astuzia della parola? e all’inganno della sapienza? Al di sopra di tutte le qualità, per quanto interessanti, del Francesco storico, c’è, e rimane solitario, quest’unicum innalzato da Dante: il «suo farsi pusillo».

Senza l’appoggio del padre (cfr. XI, 58-63), senza l’appoggio del contesto religioso (cfr. XI, 70-72), senza l’appoggio di una regola, perché così, semplicemente, «‘l venerabile Bernardo / si scalzò prima, e dietro a tanta pace / corse e, correndo, li parve esser tardo» (XI, 79-81); senza l’appoggio curiale presso «Innocenzo» (XI, 92-93), senza l’appoggio politico, «ne la presenza del Soldan superba» (XI, 101), a costo di «stare indarno» (XI, 104), e senza, infine, neppure il potere di comandare, ma solo di «raccomandare» (cfr. XI, 113-114), il Francesco dantesco è e rimane, unicamente, un «pusillo ». Poi muore.

Quando a colui ch’a tanto ben sortillo

piacque di trarlo suso […] (XI, 109-110).

Se di questo eroe dantesco si è notata, più volte, la volontà energica e umile al contempo, ne segnaliamo, ancora fino alla morte, una caratteristica peculiare, che nel canto trova segnalazione nella ricorrente idea del «piacere a qualcuno». I discepoli si sono «scalzati» perché «la sposa piace» (XI, 84) loro: non perché lo volle l’anomalo eroe. Poi, nell’episodio del «primo sigillo», la sintassi dantesca fa trapelare che fu ad Innocenzo che piacque confermare il propositum vitae dell’eroe confidente. Tralasciando quanto già considerato, riscontriamo, alla fine, come la stessa dipartita sia un dono dato «in sorte » da Dio (che «sortillo […] a la mercede», XI, 109-110), e, ciò, perché a «colui», che fu munifico – a Dio –, «piacque» (XI, 110). È qui indicata, con poetica saggezza, tutta la teologia della grazia, specificamente insinuata attraverso la morte dell’uomo pusillo per eccellenza: colui cui la misericordia non si rifiuta, perché misericordioso e sottomesso egli stesso. Sottomesso e «minore». Non per questo il fondatore «archimandrita» trascura di comandare (cfr. XI, 114: «e comandò che l’amassero a fede»); ma non attraverso lo strumento del potere che non sia quello della preghiera fraterna, perché, cioè, la povertà, comandata, piaccia «a’ frati suoi» (XI, 112). Come il piacere che Dio ha nei confronti dell’uomo è un dono da accogliere con libertà di cuore, così il potere francescano è un comandare per amore cui risponde un obbedire, povero, per piacere a quell’amore; povero, per il quale si comanda. Ed è reciproca attenzione fraterna[194].

In questo finale, che sta tra il regno (XI, 116) più congruo al «pusillo» e la «bara» (XI, 117) del povero, l’elevazione del «pusillo», non è, in Dante, sospetta: è nella e per la morte. In tale morte, l’amore serafico si fa storia umana:

mover si volle, tornando al suo regno (XI, 116).

Il moto ascensionale, tipico della figurazione sacra, è un ascendere voluto, in contrasto con il corpo: alla povertà la «bara» del corpo e della nuda terra, all’anima il ritorno al regno. Il «grembo» (XI, 115) resta in terra e fa da contraddizione, ma, al contempo, ne è la conseguenza spirituale. Povertà e cielo si intrecciano.

Se, in vece, effettivamente la materia del Cantico di Frate Sole è del tutto ignorata[195] nella «vita» del Francesco dantesco, ciò dipende non solo dal fatto che «Dante non si proponeva di darci la biografia completa di S. Francesco, sibbene di scegliere da essa alcuni motivi per lui essenziali e significativi in rapporto al disegno provvidenziale su di lui […]»[196], ma anche perché l’autore, volendo elevare il personaggio, secondo il criterio generale di «tutte le biografe immortali del suo poema», al livello, come dice il Momigliano, «dei maggiori personaggi della storia cristiana», lo ha spogliato di ogni «particolare modesto», o, aggiungeremmo, comunemente svilito. Tuttavia, la «realtà quotidiana» si insinua continuamente nei temi prescelti dal poeta, e dominanti, sì che, davvero, in «ogni frase sentiamo alitare il puro spirito francescano»[197].

 

IL LUOGO NATALE DI FRANCESCO E DOMENICO

Intra Tupino e l’acqua che discende

del colle eletto dal beato Ubaldo,

fertile costa d’alto monte pende

[…]

Di questa costa […]

[…] nacque al mondo un sole,

come fa questo talvolta di Gange (XI, 43-45, 48-50).

In quella parte ove surge ad aprire

Zefiro dolce le novelle fronde

di che si vede Europa rivestire,

[…]

siede la fortunata Calaroga

[…]

dentro vi nacque l’amoroso drudo (XII, 46-48, 52, 55).

L’esordio biografico in ambedue i casi è, in una contemplazione che abbraccia l’universo territoriale, addolcito dal fascino paesaggistico che smorza la tensione morale, dalla quale nascono anche questi canti. Gli elementi che convergono in tale contemplazione non sono senza dipendenza dall’ispirazione della spiritualità e dei carismi dei protagonisti. La «fertile costa», che corrisponde allo «Zefiro dolce», servono ad inquadrare, a loro volta, il panorama geografico, ma sempre con sguardo rivolto ai personaggi.

La «Porta Sole» (XI, 47), «onde Perugia sente freddo e caldo» (XI, 46), ha tutto il sapore dantesco della concretezza toponomastica, ma ha anche identità di termine con il simbolo mediante cui è indicato il personaggio del canto: e, se il nome della «porta» non è di invenzione, e dunque non è che termine equivoco, di per sé, rispetto all’immagine poetica riferita a Francesco, interviene anch’esso ad evidenziare quali dati, oggettivi oltre che figurali, si siano affacciati alla memoria dell’autore. E tutta la sceneggiatura, con il realismo e con il simbolismo, tende a focalizzare Assisi: non solo,

ma Oriente, se proprio dir vuole (XI, 54).

Nel canto XII, «surge» lo Zefiro che apre le «novelle fronde». Questo particolare, riguardante non a caso una significativa stagione dell’anno, ripropone l’idea di «fertilità» della costa francescana. I natali di Francesco sono là, dove la costa

[…] frange

più sua rattezza (XI, 49-50).

I natali di Domenico sono là dove, per lo Zefiro,

si vede Europa rivestire (XII, 48).

Identiche colorazioni poetiche. Ma, contemporaneamente, mentre il paesaggio francescano è discendente, addolcito («perde», «frange»), quello domenicano contiene la «foga» (XII, 50) del sole che percorre il suo lungo cammino; contiene il «percuoter de l’onde» (XII, 49), che anticipa semanticamente la metafora che scolpisce e squadra l’azione del protagonista[198]:

quasi torrente ch’alta vena preme;

e ne li sterpi eretici percosse

l’impeto suo […] (XII, 99-101).

Se «di rietro» a Perugia

[…] piange

per grave giogo Nocera con Gualdo (XI, 47-48),

una nota di contrasto[199], benché obiettivamente diversa, è anche nel canto XII, in cui

lo sol talvolta ad ogne uom si nasconde (XI, 51).

A proposito della Castiglia di Domenico, Dante, menzionando lo stemma araldico del re, il

[…] grande scudo

in che soggiace il leone e soggioga (XII, 53-54),

tradisce forse, pur essendo egli abituato a tali perifrasi in casi del genere, una immagine del protagonista inserito nella realtà politica e civile dell’epoca. Nell’XI, invece, il poeta, a proposito del colle Ausciano, cioè il «colle eletto dal beato Ubaldo», ricorda l’eremitaggio di un uomo ritiratosi in umiltà e solitudine, nella sua giovinezza. E quasi tutti gli elementi del quadro geografico si mantengono entro l’intuizione di distacco dal mondo.

Più evidente, per i critici, è indubbiamente la simbologia, nel quadro geografico dell’XI, con figurazione trascendente, tanto che il Momigliano scrisse: «L’ubicazione di Assisi risplende come risplenderebbe quella di Nazaret a preludio della vita di Cristo; giova a rialzare, come scenario di fondo, il corso di quell’eroica vita»[200]. La «topografia» nel canto francescano trapassa nell’«esaltazione», come dice lo stesso critico, ma più precisamente trapassa nella trascendenza, nella quale l’autore colloca il personaggio con scrupoloso rigore. Il verso:

come fa questo talvolta di Gange (XI, 51)

non è una digressione soltanto geografica, un’annotazione riempitiva. Esso ha un intuitivo collegamento con la terzina seguente:

Però chi d’esso loco fa parole,

non dica Ascesi, che direbbe corto,

ma Orïente, se proprio dir vuole (XI, 52-54).

La posizione orientale, unita alla convinzione per cui il sole, a primavera, nascendo dal Gange, si riteneva «mandasse sulla terra influssi migliori»[201], si integra, poeticamente e concettualmente, con la stessa definizione di Assisi come «Oriente».

La descrizione geografica del Canto XII è, più che ridente, grandiosa, in virtù dell’ultima metà che accenna ad un’immensa «distesa rifiorente»[202], ed anche, nella terzina successiva, ad un’immensa distesa di mare e di cielo:

non molto lungi al percuoter de l’onde

dietro a le quali, per lunga foga,

lo sol talvolta ad ogne uom si nasconde (XII, 49-51).

Anche nel canto domenicano il trascendente, sebbene meno dispiegato, è innuito nella forza, per così dire, interiore della primavera. Se nel canto XI il sole che «sorge» – ed è anche lì di primavera –, prepara la biografia del «mite e soave Francesco»[203], nel XII il sole tramonta, ma a sorgere c’è, tuttavia, Zefiro: che è anch’esso elemento di rinascita.

Le figure di rinnovamento presenti nei due canti non hanno riscontro nelle altre perifrasi dantesche del genere. Neppure nel cielo di Venere (cfr. VIII, 58-69, IX, 25-28). La descrizione perifrastica esposta da Folchetto di Marsiglia (IX, 82-92) è, tra quelle del Paradiso, la più vicina, per spaziosità di orizzonti e per una qualche soavità paesaggistica, a quelle dei canti XI e XII; ma neppure il gran Mediterraneo, di XI, 82-87, ha offerto al poeta la motivazione sufficiente per introdurre, come invece nella vecchia Castiglia di Domenico, elementi significativi per l’idea del «rinascere», per il concetto di universalità, per la sensazione di epopea. Nel canto XII, così come nell’XI, la rinascita è da intendersi con pregnanza spirituale, in stretto collegamento con il prosieguo biografico. In particolare, le «novelle» conseguenze (XII, 47) del «surgere» di Zefiro richiamano immaginificamente la prima attribuzione del personaggio: «amoroso» (XII, 55). C’è pertanto anche qui l’ardore della carità che rinnova il mondo. Anche qui, paesaggio e vita, natura e spirito si unificano, sì che la poesia del territorio contiene, in tutti e due i canti del Paradiso, la poesia dell’uomo.

 

LA POVERTÀ NEL DOMENICO E NEL FRANCESCO DI DANTE

E a la sedia […]

[…]

non dispensare o due o tre per sei,

non la fortuna di prima vacante,

non decimas, quae sunt pauperum Dei,

addimandò, ma contro al mondo errante

[…] (XII, 88, 91-94).

Dal punto di vista essenziale e religioso, il valore di questi versi è nel fissare sia una condizione fondamentale dell’apostolicità domenicana, sia una pregiudiziale universale e perpetua, per il poeta fiorentino, dell’azione degli uomini di Chiesa. Riferita al protagonista del canto, detto presupposto, come tale e nel suo significato generale, ha fondamento storico. Basti ricordare che Onorio III affermava dei Domenicani che, «dimentichi di ogni personale tornaconto e solleciti unicamente della causa di Cristo, si sono dati all’evangelizzazione della parola di Dio […], nell’abiezione di una volontaria povertà»[204]; Ubertino da Casale definiva il Fondatore dei Domenicani come un riformatore che «escluse più radicalmente da sé e dalla sua Religione le cose temporali», avendo Domenico scorto nell’«avidità e abbondanza delle cose temporali» la causa delle «varie forme di vanità»[205].

Dante si trova, nel ricomporre l’immagine primitiva del carisma domenicano, condizionato già da quella successiva, ormai consolidata nel ‘300, che, per usare un’espressione di Gregorio IX, l’identificava con la «battaglia ingaggiata contro il male e contro l’errore»[206], e che trascurava tuttavia alcune dinamiche storiche e spirituali dell’originario processo dell’Ordine. Da ciò, la rappresentazione dantesca di un Domenico quasi guerriero, decisamente preoccupato a «percuotere» (cfr. XII, 100). Ma, in effetti, anche la povertà dei beni, nello svolgimento dell’attività apostolica, praticata del resto anche dagli euriciani, dai catari e dai valdesi, fu chiaramente perseguita da Domenico, e fino al limite della mendicità stessa, nonostante la tendenza diversa delle autorità romane – a quell’epoca e nella considerazione della vita di predicazione –, non escluso Innocenzo III[207], e malgrado l’avversione dei monaci ad un tenore di vita «mendicante» che, a loro giudizio, faceva «vergogna» agli uomini impegnati nel ministero sacerdotale[208].

Tuttavia, il divario tra le prime effettive richieste di san Domenico al pontefice e la sintesi che ne fa Dante – benché il poeta guardi più alle dinamiche spirituali di fondo che ai dati effettuali e contingenti – tradisce, proprio nella sua scelta compendiaria che oblitera alcuni fatti raccogliendo solo i valori generali, un intento ideologico. Anche nel canto XI gioca la stessa preoccupazione, ma in tensione opposta al pauperismo, emergente invece nel canto XII. Qui, l’Alighieri si lascia prendere la mano dall’assillo della «paupertas», affermando qualcosa che non sarebbe indispensabile affermare; là, invece, tralascia proprio alcuni dati che agevolmente, e senza forzare le fonti agiografiche e storiche, lo potrebbero confortare nella sua tesi politica e religiosa, traendone vantaggio e avallo. Quanto a Domenico, ciò che in realtà egli chiese al papa all’inizio è proprio il contrario di quanto iscritto nel canto XII a proposito dei beni temporali. In questo campo, egli domandò la «conferma» delle decime diocesane già precedentemente godute, anche se tale forma di introito manteneva, è vero, i beneficiari «nella categoria dei poveri» – dei poveri secondo il Vangelo»[209]. Si trattava di un vero e proprio «privilegio» pontificio, anche se per necessità nello spirito sempre dell’umiltà e della povertà evangelica, in ordine all’adempimento sereno di un «officio apostolico» economicamente protetto. Era, sì, contemplata, con una novità all’epoca sorprendente, la «povertà individuale […] almeno durante i viaggi apostolici»[210]; ma il titulus pontificio dell’8 ottobre 1214 – e cioè all’inizio – garantiva i beni posseduti dai predicatori domenicani a Prouille; la «conferma» definitiva del 22 dicembre 1216, con la Religiosam vitam di Onorio III, poi, assicurava il diritto, mediante una serie di immunità e privilegi, anche di quelli di Tolosa, per quanto vincolati alla chiesa di Saint-Romain in maniera individua[211]. Benché Domenico abbia sempre saputo vivere, indubbiamente, accanto ai poveri, come Francesco[212], istituzionalmente adotta la mendicità conventuale influenzato, quasi di certo, dall’amico di Assisi, e solo dopo l’esempio di lui[213].

Orbene, il canto in cui Dante si sarebbe potuto spingere fino a posizioni antitetiche a quelle, sia pur equilibratamente, dei conventuali[214] e della Sede romana[215] era proprio, per eccellenza, il canto XI[216]. Invece no. Non poteva, e non lo fece. Onestamente. Per intuizione anche poetica.

Tanto più se Dante dipese, per le «mistiche nozze» di Francesco e di madonna Povertà, dall’Arbor vitae crucifixae di Ubertino da Casale[217], è significativo il fatto che egli non lo seguì nel contraddittorio tra i «pensieri» del san Francesco di Ubertino e le idee del papato[218], e inoltre che egli non introduca un difensore come Jacopone da Todi, al quale, per giunta, «si poteva sentire vicino per la comune avversione a Bonifacio VIII, né [menzioni] i privilegi concessi da Celestino V agli spirituali […]»[219]. Non basta a spiegare questi ultimi due vuoti, nel canto XI, la posizione mediana dell’autore, contrario sia agli «spirituali» sia ai «conventuali»:

ma non fia da Casal né d’Acquasparta,

là onde vegnon tali a la scrittura,

ch’uno la fugge e altro la coarta (XI, 124-126).

E neppure, praticamente, tale lacuna è importante: il poeta avrebbe pur sempre potuto raccogliere facili occasioni polemiche.

Se è vero, per un aspetto, che la «biografia poetica […] [del canto XI è] dominata da un’unica e vigorosa tonalità pauperistica[220], è anche vero che tanti elementi cardinali puntualizzano la natura di siffatta tonalità. Già il Momigliano si rammaricava che molti studiosi non avessero inteso come, anche nel brano più «feroce» (per usare un aggettivo dantesco, XI, 70, che appartiene alla terzina cui ci riferiamo), la Povertà fosse «una persona»[221]. La coerenza interna della simbologia di questa terzina, comunque, non risolve il problema:

né valse esser costante né feroce,

sì che, dove Maria rimase giuso,

ella con Cristo pianse in su la croce (XI, 70-72).

Rimane l’interrogativo se tale personificazione sia pericolosamente «pauperistica», e cioè se a prevalere su Maria sia, per Dante, la povertà in quanto condizione materiale.

Per il momento, tuttavia, tentiamo ancora una volta una sintesi della «storia» dantesca di Francesco e Povertà, che del resto è aliena da qualunque «tratto particolare che possa servire alla vivacità aneddotica»[222]. Un giorno si mette in urto con il padre per una donna assai poco attraente, dall’apparenza senza età e, per di più, vedova: abbandonata, sembra, da Dio e dagli uomini. Egli le si unisce, solennemente, perché la trova bella; e gli sembra sempre più bella. Ma, in fondo, chi poteva accettare, prima, una donna buona, sacrificatasi per il marito fin sul suo patibolo, ma che non era carina? Certo, ella era stata trascurata solo per colpa della gente, troppo vile e appagata per indagare sulla natura di lei. Ma non importa, ormai. Perché recriminare e piangere sul passato, quando è già accaduto un fatto meraviglioso? Che cosa? La donna adesso appare bella anche ad altri, sono molti, adesso, che la vogliono. E anche loro sono tutti contenti. Il giovincello poi chiede un consenso ufficiale alle sue nozze, e lo riceve: così, semplicemente; anzi, due volte. Due volte: sembra che questa donna non faccia più paura neppure al capo di quel «Laterano» che andava in rovina proprio a causa del rifiuto nei confronti di lei. Dopo un po’, quest’uomo di Assisi muore. Solo due altre note nella sua «vita»: una sete del martirio e, dopo il ritorno dall’Egitto, le stimmate. E che cosa sono le stimmate? Semplice: una cosa che Francesco portò per due anni. Prima di morire, però una raccomandazione importante: sul suo primo amore. È tanto strano? Aveva visto la sua donna, da giovanetto, così avvilita da sembrar brutta, l’aveva amata, l’aveva fatta amare. Vorrebbe che l’amassero sempre: ma senza che egli debba ricorrere a mezzi violenti. Del resto, non è così bella, la povertà? Un’ultima cosa, badate: che altro potrebbe fare costui, se è pusillo?

Tutto qui. Il pauperismo c’è. Ma qual è il pauperismo del Francesco dantesco? Che cosa c’è, nel «racconto nudo e sovrano»[223] sulla povertà di Francesco, per Dante Alighieri?

Nell’esiguità della «vita» dantesca dell’Assisiate, «figura già da tempo ferma e conclusa nella coscienza»[224] contemporanea, «la scelta sicura dei momenti culminanti»[225] riempie felicemente lo spazio, mancante per altri aspetti biografici, senza alcun inutile «panegirico»[226]. Angelo Marchese, ipotizzate «suggestioni pauperistiche e gioachimite» nel canto XI, riabilita, con giusta osservazione, l’autore notando che Dante «si appella direttamente all’esempio dei grandi santi, recuperando nel loro nome il più genuino significato evangelico dei movimenti eterodossi»[227]. La giustificazione, però, è da vedere anche, più intrinsecamente, nell’ispirazione scaturita dal personaggio concepito.

Riguardo alla sequela, da parte del popolo cristiano, della povertà, l’Alighieri usa espressioni simili che per indicare la sequela di Cristo da parte dello stesso popolo. Alla povertà, «dispetta e scura» (XI, 65), «la porta del piacer nessun diserra» (XI, 60). Dietro a Cristo, l’esercito è «tardo, sospeccioso e raro» (XII, 39). Ma mentre la forma verbale di «diserra» è in proposizione negativa, concettualmente («nessun diserra» = alcuno non disserra), ed escludente l’attitudine contraria di ogni singolo, la forma verbale di «muoversi» è in proposizione affermativa, ed include un qualche «movimento»: non lo esclude, cioè, totalmente. Ciò fa supporre che l’autore attribuisca una maggiore criticità alla sequela della povertà che non a quella, più generale, della «insegna» o dottrina cristiana. Con ciò, identificando nell’abbandono della povertà, o nella pigrizia nel seguirla, il problema più grave della Chiesa, tradisce, forse, quanto la povertà costituisse per lui «la base stessa del suo pensiero politico-religioso»[228]. Ma ciò è vero per un aspetto: per la disposizione costante, cioè, intellettiva ed emotiva, dell’anima dell’autore. Non lo è invece per un altro aspetto: per la individua ispirazione che scaturisce dal singolo personaggio: che è un personaggio di chiara, e totale, povertà. Pensiamo che Dante abbia sentito in modo corretto questa povertà di Francesco.

Il tema delle «nozze», anticipato già nell’amore tra Cristo e la Chiesa, la drammaticità della cui unione è ripresa in quella dei due «amanti» Francesco e Povertà[229], raggiunse il suo culmine nel momento in cui lo sposo-Francesco ripudia l’immagine del padre naturale. La donna-Povertà si erge a inimicizia, per il suo valore stesso che è, ovviamente, degno di essere anteposto a tutto il mondo. La storia di «scurità», e al contempo di virtuosità, della donna di Gesù, la stessa donna-Povertà, culmina, dopo un’aneddotica di vivace teatralità, nella immaginifica contesa tra la madre e la sposa. La sposa vince sulla madre.

Questa, privata del primo marito,

millecent’anni e più dispetta e scura

fino a costui si stette sanza invito;

né valse udir che la trovò sicura

con Amiclate, al suon de la sua voce,

colui ch’a tutto ‘1 mondo fé paura;

né valse esser costante né feroce,

sì che, dove Maria rimase giuso,

ella con Cristo pianse in su la croce (XI, 64-72).

Maria è la madre: è in croce, ma solo con il cuore. Gesù, invece, con il corpo: nudo, «esinanito» (factus oboediens!). Ora, la povertà non è per tal «marito» una creatura, per quanto necessaria (Maria, sotto l’aspetto di creatura, corrisponde al «Bernardone» di Francesco). La sua donna-Povertà è, per Gesù, la propria stessa condizione di «figlio dell’uomo». E, quindi, salì sulla croce[230]. Come contro il «padre» dantesco dell’Assisiate, la Povertà è vincitrice non per un capriccio dello «sposo» di Assisi e del «marito» del Golgata, un capriccio tale, cui derivi, per l’attaccamento ad una condizione, materiale, di penuria, la presunzione di attaccare bellicosamente le altre funzioni, umane e/o ecclesiali; è vincitrice perché è la condizione stessa, interiore ed esteriore, della cristicità. La stessa dialettica Amiclate-Cesare, la quale indubbiamente pone l’accento storico sulla indigenza temporale del pescatore Amiclate, non trascura di insinuare in Cesare, ossia nel polo antagonista alla povertà, la tracotanza (attraverso, magari, le scorrerie dei soldati nel territorio della dimora del pescatore). Cesare «a tutto ‘1 mondo fé paura».

La povertà dantesca del canto XI è, nel suo significato culminante, la forma di essere del Cristo, e il protagonista del canto è il «grande della povertà»[231] intesa come tenore di vita – modello, dantescamente, anche per la Chiesa –, ma radicalmente come dimensione di spirito. È ben vero che «Dante risente delle controversie sulla povertà, nell’ordine francescano e nella cristianità»[232]; ma non nel canto XI. Certo, l’istanza di fondo si mantiene, nella tensione dell’autore, anche quando egli ha di fronte l’uomo di Assisi. Ma, ancora una volta, vediamo cosa fa fare al suo protagonista, quanto a povertà: innamorarsi. E allora, via: «calzasi Egidio, scalzasi Silvestro»:

dietro a lo sposo sì la sposa piace (XI, 84).

E il grande contestatore e fustigatore della Chiesa che cosa fa fare, in questo canto, al proprio paladino? a colui attraverso il quale potrebbe, se volesse, contestare e fustigare? Guardare dolcemente la sposa:

La lor concordia e i lor lieti sembianti,

amore e maraviglia e dolce sguardo

facieno esser cagione di pensier santi;

tanto che il venerabile Bernardo

si scalzò prima […] (XI, 76-80).

E corrono. E, «correndo, li parve esser tardo» (XI, 81): prima Bernardo e poi tutti. Ma dove corrono? Dietro a pauperismi più o meno evangelici? a seduzioni più o meno compiaciute? Ma no: «dietro a tanta pace» (XI, 80), «dietro a lo sposo», a Francesco. E al «primo» sposo. Per il Dante dell’XI, non c’è la Povertà senza il suo «primo marito», così come, abbiamo già visto, senza «Innocenzo».

Intendiamoci: ciò non ha niente a che vedere con un Francesco «morbido e idillico» che l’Alighieri non anticipa affatto[233]. Ciò significa, invece, che il Francesco dantesco è l’uomo del servizio di Dio[234]: servizio chiaro, anche nella povertà. Nella fedeltà a tale «donna» e nell’obbedienza al suo «primo marito». [Francesco di Ciaccia]

 

[1] N. Sapegno, La letteratura italiana. Storia e testi, Milano-Napoli 1962, p. 921, nota ai vs. 28-42 del Paradiso. Cf. F. Montanari, Il mondo di Dante, Roma 1966, p. 235: «lo scambio di cortesia […] serve a Dante di argomento satirico contro i paradossi delle passioni umane […]. Ma l’amarezza della satira e dell’invettiva non toglie a Dante di tornare costantemente alla contemplazione dei più alti argomenti».

[2] Per la lezione del testo dantesco, seguiamo U. Bosco e G. Reggio, introduzione e commento a La Divina Commedia. Paradiso, Firenze 1979, pp. 172-206. La referenza è la stessa per la detta «introduzione». Sulle ragioni della «reciproca cortesia» nei due canti, ibidem, p. 172.

[3] La mirabile visione, XXXIX, in Prose, II, sez. II, Milano 1971, p. 1347.

[4] Cf. anche soltanto D. Alighieri, Vita Nuova, cap. II, e passim.

[5] Cf. il breve cenno nel nostro art. «Madonna»Povertà e Francesco nel canto XI del Paradiso, in «Studi Francescani», 1-2 (1982) pp. 137-142.

[6] Non mi sento, pur consapevole di poter facilmente sbagliare, di condividere l’asserto del competentissimo Stanislao da Campagnola, secondo cui «i due elogi poetici [di Francesco e di Domenico] non sono per Dante che larghissimi preludi alle polemiche contro francescani e domenicani, nel senso che tali «polemiche […] coloriscono di sé anche le biografie dei loro fondatori» (in Fonti Francescane, sigla FF, Introduzione alla sez. II, Assisi 1978, p. 383). Al contrario, crediamo che siano gli elogi poetici a inquadrare le polemiche finali, per quanto esse rispondano perfettamente alle severe intenzioni morali di Dante. Le due «vite» sono ispirate, sì, dagli aspetti fondamentali secondo la concezione etica del Fiorentino, ma in perfetta sintonia con la reale biografia dei personaggi: le quali «vite», nonostante la selezione operata dalla passione dantesca, sono esse a fondare, poeticamente e teoricamente, i contenuti polemici. Noteremo inoltre come, qui, la formulazione delle accuse si sviluppi con molta minor violenza che non altrove, come ad esempio in Paradiso, XXI, che ha punte di sarcasmo nei versi 131-135. Cf. anche Paradiso, IX, 136-142. Nel rimbrotto finale, di tre terzine, del canto XI, l’accusa più forte è che le «pecore remote e vagabunde» sono la quasi totalità; in quello, di quattro terzine, di cui l’ultima puramente «storica», del XII, si ripete il concetto dell’esiguità dei frati fedeli alla Regola. I versi delle altre terzine, sia dell’XI sia del XII, non contengono denunce così particolareggiate e determinate da far pensare ad una loro causazione sul pensiero contenuto nelle biografie. È vero che proprio le circostanziate lodi dei fondatori potrebbero, all’origine, essere ideate in vista di escluderne, nel finale, i membri dei due Ordini; e ciò, dal punto di vista logico del giudizio di Dante, è indubbio. Ma una polemica intrinseca, poeticamente, alla costruzione delle due biografie è improponibile, sia per la loro sostanziale aderenza alle fonti, sia per la loro genuinità estetica, che implica una adesione interiore alla verità dei personaggi più che una nascosta preoccupazione per una tesi personale, avulsa da quella verità, da difendere.

[7] N. Sapegno, op. cit., p. 921, nota al vs. 36. Le due rappresentazioni ricalcano i rispettivi dati biografici, ma seguono anche, concettualmente, la Summa theologica, I, q. 63, art. 7, sulla carità del «serafino» e la scienza del «cherubino».

[8] Auspicato, 17 settembre 1882.

[9] Il termine si trova anche in Inferno, I, 124, e non denota una funzione guerriera, ma soltanto, come anche nel Paradiso, una efficacia, sul piano delle realizzazioni, assoluta. Esso tuttavia dice riferimento al comandare e all’organizzare, in rapporto dunque ad una istituzione di grande solidità ed ampiezza.

[10] Questa è la qualità più appariscente, per i commentatori, del Domenico dantesco. Cf. ad esempio M. Dazzi Vasta, introduzione a La Divina Commedia. Paradiso, Torino 1966, p. 140, che parla di «energia battagliera in san Domenico» e di «spada rigida e affilata». A. Marchese, Guida alla Divina Commedia. Paradiso, Torino, rist. 1982, p. 113, individua anche in XII, 71-86 e 103-105, immagini dinamico-guerresche.

[11] H. Vicaire, Storia di San Domenico, tr. A. Ferrua, Alba 1959, p. 534.

[12] Cf. Leggenda dei tre compagni, 4. Cf. anche R. Manselli, San Francesco, Roma 19812, p. 53, e il nostro art. La «festa» in san Francesco d’Assisi, in «Communio», 60 (1982) pp. 92-93.

[13] P. Millefiorini, Il San Francesco di Dante, ne «La Civiltà Cattolica», IV, 3175 (1982) pp. 28-29.

[14] M. P. Millefiorini, loc. cit., p. 29, che cita N. Sapegno, commento al canto XI del Paradiso, nota al vs. 28.

[15] E. Auerbach, Studi su Dante, Milano 19672, p. 231.

[16] Idem, ibidem, p. 232. L’autore prosegue: «la forte e travolgente concretezza personale [della vita del canto XI] non ‘vaneggiava’ mai ma si riversava tutta nel suo ufficio».

[17] U. Bosco e G. Reggio, introduzione, cit., pp. 179-180.

[18] E. Auerbach, op. cit., p. 231.

[19] U. Cosmo, L’ultima ascesa, Bari 1936, p. 150.

[20] Stanislao da Campagnola, Introduzione, cit., p. 382. Tuttavia non concordiamo con l’illazione dell’illustre critico, secondo cui Dante non ha «avvertito l’eminenza della personalità e dell’operato di Francesco rispetto a Domenico», né con quella di A. Marchese, op. cit., p. 111, secondo cui il canto XII «ci fa intuire […] come Dante non sia riuscito ad aderire spiritualmente ai dati agiografici della tradizione domenicana e a ricondurli al suo discorso ecclesiologico.

[21] Cf. H. Vicaire, op. cit., pp. 285-290.

[22] Cf. la bolla Quoniam abundavit, del 13 dicembre 1219, tipo IV, forma I, pervenuta a Wiirzburg: «[…] ordinem Praedicatorum, sicut credimus, Dominus suscitavit».

[23] Ad esempio Giordano di Sassonia, Libellus de principiis ordinis praedicatorum, ed. Scheeben, Roma 1935, n. 2: «[…] dispensario divina providit […]».

[24] La cultura, in Storia d’Italia, Einaudi, Torino 1974, vol. II, t. II, pp. 1145-1146.

[25] G. Poletto, Digressioni dantesche, Venezia 1895, IV, 3, parla dei francescani come «uomini di virtù e legislatori di popoli».

[26] Per le critiche mosse dai Premostratensi, cf. L. Lemmens, Testimonia minora saeculi XIII de S. Francisco Assisiensi, ed. Quaracchi, 1926, p. 18.

[27] Usiamo termini cari all’Assisiate. Per l’aggettivazione di «Assisi», seguiamo la lezione del TCI, Umbria, Milano 19664, pp. 190 ss.

[28] R. Renucci, op. cit., p. 1145.

[29] Bucardo di Ursberg, citato da K. Esser, Origini e inizi del movimento e dell’ordine francescano, Milano 1975, p. 227 (sigla: Origini). Sulle ragioni dell’espansione francescana, ibidem, p. 52.

[30] L’interpretazione comune, e anche corretta nel senso più immediato, quella di «guerra civile» tra i «buoni cristiani» e i «cristiani eretici»: D. Provenzal, commento a La Divina Commedia. Paradiso, Milano 197819, p. 732, nota ai vs. 106-111; lo Steiner e il Sapegno si richiamano al Landino. Il Nardi, citato da U. Bosco e G. Reggio, commento, cit., p. 202, intende nell’espressione dantesca anche la «guerra» contro il clero corrotto mossa da san Francesco. Per il «predicatore» domenicano come «intellettuale politico», cf. R. Antonelli, in Letteratura italiana, Einaudi, Torino 1982, vol. I, p. 694.

[31] F. Petrarca, De vita solitaria, II, e A. Bartarelli, Interpretazione petrarchesca della figura di S. Francesco, in «Studi Francescani», 1-2 (1982) pp. 173-180.

[32] Citati da U. Bosco, Dante vicino. Contributi e letture, Caltanissetta-Roma 1966, pp. 333s. L’elemento eroico si ritrova già in Bonaventura (Leggenda maggiore, XIII, 10), «perché era in Francesco»: U. Bosco e G. Reggio, introduzione, cit., p. 176.

[33] Inoltre, contro la drammatizzazione dell’Auerbach, osserviamo che la «guerra» di Francesco è solo per la donna-povertà, quindi in una dinamica cavalleresca. Sul «cavalleresco innamoramento», cf. I. Felder, S. Francesco cavaliere di Cristo, Milano 1949, pp. 115-129.

[34] U. Bosco e G. Reggio, introduzione, cit., p. 173, con riferimenti anche al Nuovo Testamento. Cf. Paradiso, XXIX, 113-114.

[35] «Così in lui [Dante] s’intrecciano le due idee d’amore e di sapienza»: La mirabile visione, XXXIX, cit., pp. 1346-1347.

[36] Brevi biografie di San Francesco, tr. e note di F. Olgiati, in FF, pp. 1949-1950. Per le fonti originali, ibidem, pp. 1947-1948, note 1 e 2.

[37] Una metodologia interpretativa del genere, denunciabile di soggettivismo proiettivo, è, a parte il rischio di ogni ermeneutica, giustificata dal fatto che la poesia è comunicazione di massima concentrazione, tanto maggiore quanto più profonda è l’intuizione. Anche senza ermetismo, si deve ritenere che la poesia più genuina non può compiersi, nella mente dell’autore, senza che questi abbia penetrato a fondo, con esperienza interiore e conoscenza, l’oggetto trattato. Dante è espositivo, ma non per questo non tradisce, attraverso lessemi, semantemi e sintassi, la complessità di quella conoscenza spirituale che da essi è incarnata.

[38] In una elaborazione modesta come la presente, in cui non si accostano questioni storiche, ci piace tuttavia evidenziare l’esatta spiegazione di P. Zerbi, S. Francesco d’Assisi e la Chiesa Romana, in AA.VV., San Francesco d’Assisi, Milano 1982, p. 79, secondo cui il «fine senso giuridico di Innocenzo III (noto come un «Salomone») non poteva permettergli di «stendere una bolla per approvare dei passi del Vangelo», in cui certamente consisteva «la prima regola di Francesco» (Cf. anche M. Maccarone, S. Francesco e la Chiesa di Innocenzo III, in AA.VV., Approccio storico-critico alle fonti francescane, Roma 1979, p. 42). L’osservazione decisiva dell’autore è però la seguente: è «da ritenere che lo stesso richiedente non volesse un’approvazione scritta». Il testo dantesco sembra sottendere questa inclinazione del personaggio. Dante pone l’accesso di Francesco a papa Innocenzo nel momento originario della sua esperienza di conversione (Sulla questione storica, se l’Assisiate abbia avuto un solo incontro, oppure due, con Innocenzo, cf. P. Zerbi, op. cit., pp. 80-81, e p. 99, nota 25, righe 14-17; R. Manselli, op. cit., pp. 113 ss). Anche se, infatti, «quella famiglia / che già legava l’umile capestro» (XI, 86-87) era già realizzata – così nel testo come nella storia –, tuttavia tra le prime «nozze» e l’«aprirsi» al papa c’è, ancora, la scelta originaria della povertà da parte del protagonista, al quale, cioè, non «gravò viltà di cuor le ciglia». La costituzione di una «famiglia» risulta, sintatticamente, solo una conseguenza (cf. XI, 79) ed esteticamente solo un’amplificazione delle primitive «nozze». Francesco dunque, quando si presentò al papa, era ancora, secondo l’Alighieri, nella fase dello sposalizio personale.

[39] H. Vicaire, op. cit., pp. 143-145, e note 30-36, che ne parla entro il quadro storico domenicano. Per altre osservazioni, M. Maccarone, op. cit., p. 38.

[40] Op. cit., pp. 38-39, nota 5.

[41] Tommaso da Celano, Vita seconda, 147, tr. S. Colombarini, in FF, pp. 670-671; Bonaventura, Leggenda maggiore, VI, 8, tr. S. Olgiati, in FF, pp. 886-887.

[42] Ci è piaciuto, essendo il nostro studio semplice ed incolto, e condotto, in prima stesura, senza supporti critici, trovare riscontro di questa spontanea nostra osservazione in M. Maccarone, op. cit., p. 41, righe 33-34.

[43] Cf. P. Zerbi, op. cit., p. 77; anche pp. 75-76. Sull’esigenza di una universalità ecclesiale che spinse san Francesco ad accedere alla Curia pontificia nel 1210, M. Maccarone, op. cit., pp. 40-41. Sul suo pellegrinaggio «ad limina Sancti Petri» nel 1205-1206, ibidem, pp. 32-36.

[44] K. Esser, Origini, cit., pp. 184-189.

[45] Ci è parso rinvenire una sottesa intuizione, in tal senso, in M. Maccarone, op. cit., p. 41, righe 19-20. Le frasi: «[…] non semplicemente una conferma che desse una garanzia; non voleva una Bolla», hanno senso, rispetto a quel che precede: «voleva appunto avere una conferma» (la sottolineatura è nel testo), se significano che Francesco voleva una conferma che desse, addirittura, solo una conferma non giuridica: quindi, una «conferma» semplicemente paterna, che è il massimo, dunque, dell’attesa del richiedente. Cf. tuttavia F. Fornari, in Francesco un pazzo da «slegare», Assisi 1983, pp. 283-298.

[46] Ne abbiamo fatto cenno in una riflessione, S. Chiara «domina» e Jacopa dei Settesoli «fratello» di S. Francesco, in «Studi Francescani», 34 (1982) p. 329, righe 21-24.

[47] Cf. Bonaventura, Leggenda maggiore, II, 4. Leggenda dei tre compagni, 20.

[48] Leggenda dei tre compagni, 20.

[49] Un veloce cenno nel nostro art. L’elemosina come socialità radicale in Francesco d’Assisi, in «Studi e Ricerche Francescane», 1-4 (1982) p. 167.

[50] La «Sposa» ha un altro compito, invece. Cf. un cenno in S. Chiara «domina»…, loc. cit., p. 331, ultimo capoverso. B. Fornari, in Francesco un pazzo da «slegare», cit., pp. 117-133; G. Piana, ibidem, pp. 134-143.

[51] P. Zerbi, op. cit., p. 80; cfr. p. 79; R. Manselli, op. cit., pp. 125s e 284. Per le preoccupazioni di san Francesco sul piano «ecclesiastico, direi di diritto canonico», cf. M. Maccarone, op. cit., p. 36. Qui rimandiamo allo stesso, Studi su Innocenzo III, Padova 1972, pp. 304s, anche per l’obbedienza al papa imposta nella Regola.

[52] Tommaso da Celano, Vita prima, 100-101. Leggenda dei tre compagni, 61 e 67.

[53] Leggenda perugina, 114; Specchio di perfezione, 68. Ma anche Giovanni di San Paolo non dovette aver capito subito, a fondo, il proposito francescano. Cf. P. Zerbi, op. cit., p. 81. Per le prospettive «concordi-discordi» di Francesco e di Ugolino, cf. lo stesso, op. cit., pp. 92-94, il quale conclude rifiutando l’impossibilità di collaborazione tra Chiesa spirituale e Chiesa istituzionale, «[…], viva e mobile la prima, cristallizzata la seconda» (ibidem, p. 93, righe 24-27). Del resto, se la «Chiesa istituzionale» fosse quella organizzazione retriva e ottusa quale «un vecchio motivo» storiografico (come riferisce lo Zerbi contestandolo, ibidem, p. 93, righe 27-28) intende sostenere, non si spiegherebbero le esperienze innovatrici operate entro la Chiesa istituzionale. Che la funzione organizzatrice sia, costitutivamente, prudente, ciò fa parte della necessità del corpo sociale, e se, per un verso, essa inibisce lo sviluppo, per altro verso lo garantisce e addirittura lo promuove. Le innovazioni «spirituali», in realtà, non avvengono nonostante la Chiesa istituzionale, ma accanto e per la Chiesa medesima, oltre che in essa, malgrado le contingenti incomprensioni e i relativi errori.

[54] Specchio di perfezione, 43.

[55] Cf. A. Clareno, Cronaca delle sette tribolazioni, in FF, pp. 1754-1755. M. Maccarone sottolinea la reciproca «fiducia» tra Francesco e Innocenzo: op. cit., pp. 41-43. Il rilievo è molto acuto; ma per la questione dell’«approvazione», soltanto orale, della «forma fraternitatis», completare opportunamente con H. Vicaire, op. cit., p. 295, righe 4-5. Da notare infatti che anche per Domenico si verificò, in un primo momento, la sola «approvazione orale» (H. Vicaire, op. cit., p. 43, righe 11-19), e ciò in tempi più avanzati e nonostante l’assunzione da parte di Domenico di una regola preesistente (cf. H. Vicaire, op. cit., pp. 317-318).

[56] Regola bollata, XII, 4; Testamento, 39; Tommaso da Celano, Vita prima, 74-75 e Vita seconda, 25; Leggenda dei tre compagni, 61-67; Anonimo perugino, 42-45. L’insistenza del fondatore, e delle fonti, indica una preoccupazione che non è solo burocratica.

[57] A. Clareno, op. cit., I, 2-3, in FF, pp. 1768-1771.

[58] Tommaso da Celano, Vita seconda, 141.

[59] O. Schmucki, Gli scritti legislativi di San Francesco, in AA.VV., Approccio storico-critico alle fonti francescane, cit., p. 79.

[60] H. Vicaire, op. cit., pp. 291-293, soprattutto p. 293, righe 21-24.

[61] Idem, ibidem, p. 293.

[62] Notiamo, per esempio, che, solo tra il febbraio 1218, quindi in data già piuttosto avanzata, e il 7 dicembre 1221, san Domenico ottenne ben 31 bolle di raccomandazione.

[63] Trascuriamo la dipendenza di Dante, in questi due canti, da Gioachino da Fiore, che aveva «profetizzato» la nascita di due nuovi Ordini e di «duo viri»: U. Bosco e G. Reggio, commento, cit., p. 172, che ricordano però come i due santi «provvidenziali» siano stati associati anche nella bolla di canonizzazione di san Domenico, nel 1234. L’eredità gioachimita in Dante, sotto questo riguardo preciso, è solo una coscienziosa avvertenza, oramai.

[64] Anche se l’episodio della «missione» in Egitto (giugno 1219) viene ricordato dopo la conferma ufficiale dell’Ordine (29 novembre 1223), Dante non si riferisce alle precedenti bolle di Onorio, Cum dilecti filii, 11 giugno 1219, e Pro dilectis filiis, 20 maggio 1220: anche esse, del resto, non sarebbero anteriori alla partenza in Egitto. Il punto di vista dantesco però non è cronologico, ma ideale; tuttavia l’inversione cronologica è c’è anche in Bonaventura: A. Momigliano, commento a La Divina Commedia. Paradiso, Firenze 1980, p. 643, nota ai vs. 100-105, e anche Bonaventura espone con criterio tematico (Leggenda maggiore, IV, 11 e IX, 5 ss). Per una nostra ipotesi interpretativa, cfr. sotto.

[65] D. Alighieri, De Monarchia, III, 1. Tale convincimento, per quanto riguarda Francesco d’Assisi, non ha bisogno di prova.

[66] Loc. cit., p. 28, righe 16-18. Cf. però anche ibidem, pp. 27-30.

[67] Stanislao da Campagnola, Introduzione, cit., in FF, p. 388, che si richiama a Bonaventura, Leggenda maggiore, IV, 11 e XII, 12.

[68] A. Momigliano, commento, cit., p. 644, nota ai vs. 106-108.

[69] H. Vicaire, op. cit., p. 153, che cita il Bourbon: «Fu questo il germe creatore della Istituzione dei Predicatori. Io stesso l’ho sentito affermare dai primi frati che si trovavano in quella regione [di Montpellier] insieme al beato Domenico».

[70] Egli lo afferma limitatamente ad un’area geografica francese: op. cit., p. 134.

[71] A. Momigliano, commento, cit., p. 636, nota ai vs. 28-36.

[72] F. Flora, Storia delta letteratura italiana, I, Milano 19599, p. 185. Egli dice ancora che «il linguaggio dei sacri panegirici […] si fa parola».

[73] Dante e la Chiesa del suo tempo, in Dante e Roma, Firenze 1965, pp. 97 ss.

[74] Loc. cit., pp. 28-29, che cita utilmente diversi passi della Commedia.

[75] U. Bosco e G. Reggio, introduzione, cit., p. 172. L’autore offre diverse prove di questo fatto.

[76] Testamento, 12, in FF, p. 131.

[77] Ibidem, 11; cfr., sempre di Francesco d’Assisi, la lettera A tutti i fedeli, VI, 33.

[78] Il «fare» e il «dire» di XII, 44 sono letti generalmente dai commentatori in senso cumulativo, e non disgiuntivo. Quest’ultima lettura si trova per, ad esempio, in C. Steiner, commento a La Divina Commedia. Paradiso, Torino 1966, p. 160, nota al v. 44.

[79] Frate Giovanni, Liber exemplorum, 110.

[80] Chronica minor Erphordiensis, in FF, p. 2145. Tommaso da Celano, Vita prima, 33; Onorio III, Cum dilecti filii, 11 giugno 1218, in FF, p. 2178: per la data della bolla, ibidem, p. 2178.

[81] Per san Francesco, cf. ad esempio K. Esser, Origini, cit., p. 214, che cita Testimonia minora, 82. Per san Domenico, H. Vicaire, op. cit., pp. 241 e 253.

[82] Belle pagine, su san Domenico, in H. Vicaire, op. cit., pp. 246 e 251.

[83] H. Vicaire, op. cit., p. 247, che, riferendo un brano del Giordano, parla, a riga 35, dello «zelo ardente» del fondatore.

[84] Idem, ibidem, p. 475.

[85] Idem, ibidem, pp. 261, 267, e passim.

[86] R. Manselli, La religione popolare nel Medioevo, sec. XI-XV, Torino 1974, p. 121.

[87] K. Esser, Origini, cit., p. 218.

[88] Tommaso da Celano, Vita prima, 29. Sugli «studi» nell’Ordine francescano, cf. C. Bologna, in Letteratura italiana, Einaudi, Torino 1982, voi. I, pp. 729-797, edito dopo la nostra stesura.

[89] Leggenda dei tre compagni, 36; Regola non bollata, XVII, 12.

[90] Francesco predicò, mi pare, a San Giorgio in Assisi: Tommaso da Celano, Vita prima, 23; ad Alessandria, a Terni e a Imola: Idem, Vita seconda, rispettivamente 78-79, 141, 147; a Bologna: Tommaso da Spalato, in FF, p. 1932; ad Assisi, Perugia, Poggio Bustone e Rocca di Brizio: Leggenda perugina, rispettivamente 18 e 39, 35, 40, 89; a Montefeltro: I Fioretti, «Della prima considerazione delle sacre sante Istimate»; a Gaeta e a Greccio: Bonaventura, Leggenda minore, V, rispettivamente lezione IV e V.

[91] In ciò egli segue «assai da vicino» Bonaventura: U. Bosco e G. Reggio, commento, cit., p. 189, nota al vs. 100. Secondo la ricostruzione di G. Basetti, Per un dialogo cristiano musulmano, Milano 1969, pp. 313-318, 365, 369, 373-387, il punto di vista dantesco risulta perfettamente aderente non solo alla lettera delle fonti, ma anche allo spirito del «serafico in ardore». Bonaventura lo sostiene anche per i precedenti tentativi, frustri, di Francesco: Leggenda minore, V, lezione VII. È in questo senso, anche, che ci par vero il giudizio di Bosco e Reggio, secondo cui il «serafico» di Dante è un ardente «combattente»: commento, cit., p. 188, nota al vs. 91. Se Domenico era disposto anch’egli al martirio, non si muoveva, tuttavia, intenzionalmente per morir martire, ma per predicare. Cf. H. Vicaire, op. cit., pp. 244-245, e il nostro art. Francesco e Domenico: le due «colonne» secondo Caterina da Siena, in «Idea», 3 (1983) p. 66.

[92] Bonaventura, Leggenda maggiore, XII, 1.

[93] Gregorio IX, Mira circa nos, 3, del 19 luglio 1228, proprio al riguardo della predicazione di san Francesco.

[94] La sua prima «predicazione» sarebbe stata il «fare penitenza» con i lebbrosi. K. Esser, Origini, cit., pp. 196-197.

[95] Rispettivamente, Leggenda dei tre compagni, 25, e L. Lemmens, op. cit., p. 10.

[96] G. Miccoli, La storia religiosa, in Storia d’Italia, cit., vol. II, t. I, p. 738; K. Esser, Origini, cit., pp. 60-65. Sulla predicazione francescana e domenicana contemporanea a Dante, una descrizione compendiaria in P. Antonelli, La vita quotidiana a Firenze ai tempi di Dante, tr. G. Cafiero, Milano 1983, pp. 224-225.

[97] Sulla predicazione «ambulante», ad esempio di Roberto di Arbrissel, cf. F. Kempf, Il cambiamento dell’Occidente cristiano durante la riforma gregoriana, in Storia della Chiesa, dir. H. Jedin, vol. IV, Milano 1975, p. 589: «passeggera e isolata» era tuttavia simile prassi. G. G. Mersseman, L’eremitismo e la predicazione itinerante, in AA.VV., L’eremitismo in occidente nei secoli XI e XII, Milano 1965, pp. 164-179.

[98] Per la Cum dilecti filii di Onorio III, che assicurava l’episcopato francese sulla cattolicità dei frati minori, cf. P. Zerbi, op. cit., p. 84.

[99] Testamento, 9. Perciò i francescani preferivano predicare in chiese altrui: K. Esser, Origini, cit., p. 215. Sulle caratteristiche della predicazione francescana, I. Felder, op. cit., p. 84, e lo stesso, L’ideale di S. Francesco d’Assisi, Firenze 19443, cap. 15 e 16.

[100] La «festa» in San Francesco d’Assisi, loc. cit., p. 97; cf. anche p. 96, soprattutto riga 24.

[101] Stilnovisticamente, esso è un «miracolo di salute», elevato dal significato della Vita Nuova a quello, di mediazione salvifica soprannaturale, della Commedia («I’ son Beatrice che ti faccio andare»; Inferno, II, 70).

[102] Abbiamo notato questo teologale atteggiamento francescano ne La «festa» in San Francesco d’Assisi, loc. cit., p. 93, righe 7, 16, 24; p. 96, riga 7; p. 97, righe 2-9; p. 99, righe 32-33.

[103] Ad esempio, Omero, Iliade, I, 333-334.

[104] R. Renucci, op. cit., p. 1146. R. Antonelli, in op. cit., pp. 681-728.

[105] Cf. la lettera A frate Antonio, in FF, p. 172. Ci sembra penetrante Bonaventura, Epistola de tribus quaestionibus, in FF, p. 2170, anche se l’argomentazione bonaventuriana è legata a «questioni» di ordine legislativo. Sul problema specifico, cf. K. Esser, Origini, cit., pp. 50-51. Per la stessa problematica all’inizio della riforma cappuccina, C. Urbanelli, Storia dei Cappuccini delle Marche, parte I, vol. II, Ancona 1978, pp. 446-451.

[106] H. Vicaire, op. cit., p. 551.

[107] Rispettivamente, Leggenda dei tre compagni, 54, e H. Vicaire, op. cit., p. 551. Per l’importanza della «parola» in san Francesco, che non soltanto fu un poeta, ma anche uno scrittore «geloso» del valore di ogni parola, occorrerebbe uno studio specifico.

[108] H. Vicaire, op. cit., p. 240. Le prime costituzioni dell’Ordine (II, 31, par. 3) impongono che un frate, se ha successo nella predicazione e nello studio, vi si dedichi con la «maggior libertà». Sulla dottrina, per i Domenicani, cf. H. Vicaire, op. cit., p. 458.

[109] Per questo titolo domenicano, ricordato già all’epoca dal vescovo Folco, H. Vicaire, op. cit., pp. 178-179.

[110] Con riferimento a Matteo 23, 10. Regola non bollata, XII, 37; Leggenda perugina, 65; Specchio di perfezione, 122.

[111] A. Clareno, op. cit., I, 7, in FF, pp. 1778-1779. Con lo stesso valore, anche Chiara è ricordata come «maestra»: Leggenda di Santa Chiara, 45; Innocenzo IV, Gloriosus Deus, 13, del 18 ottobre 1253.

[112] H. Vicaire, op. cit., pp. 179-180.

[113] A. Marchese, op. cit., p. 112.

[114] H. Vicaire, op. cit., p. 185.

[115] Cf. idem, ibidem, p. 240.

[116] D. Alighieri, Convivio, III, XI, 10.

[117] H. Vicaire, op. cit., p. 240. Per rendersi conto dell’obiettività poetica di Dante, in questo settore, si leggano gli inizi della predicazione domenicana: H. Vicaire, op. cit., pp. 150-152 e 154. Per la citazione seguente, ibidem, p. 151, riga 1.

[118] H. Vicaire, op. cit., p. 549.

[119] K. Esser, Origini, cit., p. 293; Costantino da Orvieto, Legenda S. Dominici, ed. Scheeben, Roma 1935, n. 25, racconta, dando forma concreta all’esperienza interiore, la visione di Domenico, cui Pietro apostolo consegna il bastone e il libro.

[120] H. Vicaire, op. cit., p. 266.

[121] Processus Bononiensis, 26, in H. Vicaire, op. cit., p. 349.

[122] H. Vicaire, op. cit., p. 348, e nota 115.

[123] Idem, ibidem, p. 343.

[124] Idem, ibidem, p. 210.

[125] Idem, ibidem, p. 358.

[126] Idem, ibidem, p. 409.

[127] Idem, ibidem, p. 216.

[128] Perciò Domenico ebbe a titolo originalissimo, per sé e per i suoi, quell’appellativo di «predicatore» (H. Vicaire, op. cit., p. 174), che pur era, all’epoca, comune (Gerardo di Frachet, Vitae Fratrum Ordinis Praedicatorum necnon cronica Ordinis ab anno 1203 usque 1254, Lovanio 1896, p. 183); quello di Domenico fu compreso sempre più chiaramente come «ministero utile» (Onorio III, Si personas religiosas, tipo I, forma 1, dell’11 febbraio 1218), «necessario» (Onorio III, Dilecti filii, 8 dicembre 1219) e «più che necessario» (Onorio III, Cum qui recipit, tipo III, forma 1, dell’11 novembre 1219).

[129] M. Dazzi Vasta, introduzione, cit., p. 140, parla di «spada rigida e affilata».

[130] H. Vicaire, op. cit., p. 334, e nota 47.

[131] A. Momigliano, commento, cit., p. 648, nota ai vs. 34-35.

[132] Ad esempio U. Bosco e G. Reggio, commento, cit., p. 198, nota al vs. 65, che cita alcune fonti antiche, fra cui il Giordano. A. Momigliano, commento, cit., p. 650, nota ai vs. 65-66. Di un san Colombario (540 ca.), ad esempio, gli agiografi parlano di un «astro levarsi (dal seno della madre) e radioso illuminare il Cielo»: E. Martin, Vita di S. Colombano, Bobbio 1923, p. 13.

[133] H. Vicaire, op. cit., p. 50. Altri esempi di questi «episodi» domenicani, con riflessioni opportune, ibidem, pp. 50-51, e per alcuni parallelismi agiografici, ibidem, p. 50, nota 114. H. Vicaire, che cita il Giordano, parla anche della «luna» scorta sulla fronte del «bimbo» da parte della mamma: ibidem, p. 51, e nota 116.

[134] Sulla «simmetria» dei due canti, cfr. ad esempio U. Bosco e G. Reggio, introduzione, cit., p. 172.

[135] H. Vicaire, op. cit., p. 341 e nota 81.

[136] P. Antonetti, op. cit., p. 214.

[137] A. Marchese, op. cit., p. 112.

[138] F. Flora, op. cit., p. 185.

[139] Che è però già nelle fonti antiche domenicane: cfr. U. Bosco e G. Reggio, commento, cit., p. 199, nota ai vs. 79 e 80-81. Anzi, l’uso della figura etimologica inscrive Domenico in una visione, sia pure indirettamente, stilnovistica, per il ricorso fatto dal poeta in altre circostanze qualificate in tal senso: ibidem, p. 198, nota ai vs. 67-69.

[140] P. Antonetti, op. cit., p. 225, righe 8-10.

[141] Per il canto XII, sotto questo aspetto, cfr. A. Momigliano, commento, cit., p. 652, nota ai vs. 95-96, che inoltre ricorda lo «stile degli scrittori sacri».

[142] Notate, in particolare, la precisione per cui la profezia è «viva virtute» in Domenico, non già in sua madre, ed è questa «virtute» la causa che fece «lei» profeta.

[143] A. Momigliano afferma di questa terzina: essa «suona piuttosto fredda al nostro gusto: né valgono a giustificarla poeticamente gli esempi di simili sacre etimologie portati dai commentatori. È, nel complesso della biografia, una piccolezza […]». Non riteniamo che ci aiuti a capire il brano qualche parallelismo agiografico, anche se materialmente il poeta ne sia stato debitore. L’ispirazione non è posta in essere dal bagaglio culturale, oggettivamente preso: la dinamica per cui l’artista vi ricorra, o non vi ricorra, è intrinseca al vissuto circa il determinato oggetto di intuizione. Le nozioni acquisite sono uno strumento per estrinsecare il vissuto, e non il fondamento dell’idea intimamente sperimentata.

[144] U. Bosco e G. Reggio, commento, cit., p. 199, nota ai vs. 71-72, notano l’uso di «agricola» nel Vangelo, e, riferito a san Domenico, in Guittone, XXXVI, 17.

[145] A parte le divergenti interpretazioni di tale «primo consiglio» verso cui «il primo amore» del giovane Domenico «fu manifesto» {XII, 74) (cfr. U. Bosco e G. Reggio, commento, cit., p. 199, nota ai vs. 74-75), riteniamo che Dante abbia insistito ideologicamente sulla povertà di Domenico. Per la precisa circostanza di XII, 74-75, glielo consentiva, tuttavia, la base biografica. Per gli episodi, convincenti, della «vendita» delle poche cose che il giovane Domenico possedeva, a Palencia, per distribuirne il ricavato ai poveri, cfr. H. Vicaire, op. cit., p. 63 e nota 70, p. 64 e nota 73.

[146] Qui risparmiamo al lettore le notizie al riguardo sulle esperienze del santo, che probabilmente alcuni commentatori non hanno letto. Ricordiamo solo, come fonti antiche, quelle di Costantino d’Orvieto, di Pietro Ferrand, e i Processus di canonizzazione tenuti sia a Bologna sia a Tolosa.

[147] Lo fanno notare con esattezza U. Bosco e G. Reggio, commento, cit., p. 200, nota al vs. 83.

[148] Un cenno in Francesco e Domenico: due colonne secondo Caterina da Siena, loc. cit., p. 70; cfr. H. Vicaire, op. cit., p. 69, e passim. Circa l’antonomasia («Ostiense», «Taddeo»), notiamo che essa è ripresa, nello stesso canto, anche a proposito degli interpreti della Regola francescana (XII, 124). Essa non ci sembra affatto una figura retorica che dimostri una pretesa insufficiente ispirazione poetica.

[149] Poesie e Prose, II, Torino, rist. 1981, p. 93.

[150] Arbor vitae crucifixae, V, 3, tr. it. F. Olgiati in FF, p. 1689.

[151] Si noti la ripresa discorsiva di XI, 73-75: essa ha la stessa funzione, per la necessità del trapasso narrativo, di XII, 70-72. Ma, mentre con Francesco (sempre in connubio con la Povertà), l’Alighieri continua con il personaggio affidandogli la continuità della funzione logica di soggetto, con Domenico egli passa la medesima funzione al Cristo: il Signore sceglie, lui, Domenico.

[152] Ad esempio, Costantino d’Orvieto, op. cit., n. 62. Abbiamo ricordato un episodio del genere, in una dinamica di altra natura, in Francesco e Domenico: le due «colonne» secondo Caterina da Siena, loc. cit., p. 66. Ci sembra che, anche per la complessità e, parzialmente, la contraddittorietà del protagonista del canto XII, la «vita» domenicana di Dante doveva acquistare una forma da «panegirico», tale che «le immagini (XII, vv. 3745; 55-57; 99-102) e il ritmo concitato (XII, vv. 49-51; 91-96) conferiscono all’orazione movimento e calore di gagliardia umana»: N. Sapegno, op. cit., p. 936, nota ai vs. 57 ss.

[153] E. Auerbach, op. cit., p. 232; cfr. ibidem, p. 223, sulla «cornice» didascalica.

[154] Quale era nella convinzione degli stessi storici antichi, come risulta anche dal Chronicon Normanniae, in K. Esser, Origini, cit., p. 52.

[155] Per usare un’espressione di Giacomo da Vitry, in K. Esser, Origini, cit., p. 53; cfr. ibidem, p. 54, con ricca bibliografia.

[156] E. Auerbach, op. cit., p. 235. La sottolineatura è nostra.

[157] N. Sapegno, op. cit., p. 917, nota ai vs. 1-12. Stessa referenza per le citazioni, non per il pensiero, successive.

[158] Per le diverse interpretazioni, cfr. U. Bosco e G. Reggio, commento, cit., p. 189, nota al vs. 96. Non ci avviciniamo a quella del Sapegno, ivi indicata.

[159] Cfr. U. Bosco e G. Reggio, introduzione, cit., p. 173. Cfr. anche Stanislao da Campagnola, Introduzione, cit., p. 389.

[160] U. Bosco, Dante vicino. Contributi e letture, cit., pp. 334s, che cita E. Auerbach, Letture dantesche, a cura di G. Getto, III, p. 224.

[161] U. Bosco e G. Reggio, introduzione, cit., p. 175.

[162] Bonaventura, Leggenda maggiore, XIII, 3. Stessa referenza per tutto l’episodio.

[163] Egregiamente lo avverte E. Auerbach, op. cit., p. 233.

[164] Matteo XXVII, 50; Marco XV, 37; Luca XXIII, 46. Cfr. ad esempio U. Bosco e G. Reggio, commento, cit., p. 183, e C. Steiner, commento a La Divina Commedia. Paradiso, Torino 1966, p. 144.

[165] S. da Campagnola, Introduzione, cit., pp. 383-384.

[166] L’«ardore» di tal genere trapassa bene nella narrazione dantesca delle prime gesta del personaggio, nel suo combattimento per ottenere la «donna». A noi sembra che E. Auerbach, op. cit., p. 228, il quale ha insistito sulla crudezza di questo racconto, stilisticamente dalle «rime dure», di strana «festa» nuziale, non abbia colto la integrante dolcezza della stessa «guerra», e anche della «festa», di cui invece I. Felder, idilliacamente ma in maniera corretta, ha avvertito la bellezza «sponsale»: S. Francesco cavaliere di Cristo, Milano 1949, p. 57. Una riflessione del genere investe il rapporto dalla parte dell’«innamorato», e corrisponde alle prime esperienze della «conversione». Cfr. Francesco d’Assisi, Testamento, 3. Sull’argomento, cfr. il contesto psicologico ne La «festa» in San Francesco d’Assisi, loc. cit., p. 96.

[167] Cfr. Bonaventura, Leggenda maggiore, XIII, 3 e XIV, 1.

[168] Bonaventura, Leggenda maggiore, X, 4.

[169] Che l’episodio di Greccio, condotto alle sue ragioni teologiche e morali, manchi del tutto, è ciò, ci sembra, un limite dell’interpretazione dantesca.

[170] L’espressione: morire in «terra» sarà suggestiva per molti. Cfr. il nostro art., per un poeta singolo, Umiltà e morte nel «Frate Francesco» carducciano, ne «L’Italia Francescana», 5 (1982) p. 565.

[171] Commento, cit., p. 645, nota al vs. 115. Il critico rileva come Dante abbia ridotto all’essenziale «ideale» «una pagina della Vita di S. Bonaventura».

[172] Vita seconda, 215-216.

[173] Cfr. anche Leggenda perugina, 117.

[174] Cfr. anche Leggenda perugina, 100.

[175] Con intenzionali parallelismi evangelici, nel caso specifico con l’ultima cena di Gesù.

[176] U. Bosco e G. Reggio, introduzione, cit., p. 175.

[177] Op. cit., p. 226.

[178] Alcuni critici non lo vedono. In base ai dati materiali del canto, forse hanno ragione. Cfr. U. Bosco, Dante vicino, cit., p. 334.

[179] U. Bosco, Dante vicino, cit., pp. 334s.

[180] E. Auerbach, op. cit., pp. 226-227.

[181] Idem, ibidem, pp. 232-233.

[182] Jacopo da Voragine, in «Analecta Franciscana», X, 684. Cfr. Francesco d’Assisi, Piccolo Testamento, 4; Bonaventura, Leggenda maggiore, VII, 6: «sua signora (la povertà), come egli stesso di volta in volta la chiamava », cioè anche o «madre» o «sposa». Precisazioni in FF, p. 894, nota 55 di F. Olgiati.

[183] E. Auerbach, op. cit., p. 232. Stessa referenza per la cit. precedente.

[184] U. Bosco e G. Reggio, introduzione, cit., p. 176 e U. Bosco, Dante vicino, cit., p. 334.

[185] Introduzione, cit., p. 390.

[186] K. Esser, Origini, cit., p. 201.

[187] U. Bosco, Dante vicino, cit., p. 334.

[188] Per le interpretazioni, cfr. ad esempio A. Momigliano, commento cit., p. 643, nota al vs. 101; U. Bosco e G. Reggio, commento, cit., p. 190, nota al vs. 101.

[189] Leggenda s. Francisci Monacensis, n. 54, in K. Esser, Origini, cit., p. 50.

[190] Indipendentemente dall’oggetto, che nel canto XI è contro i Domenicani.

[191] Cfr. U. Bosco e G. Reggio, commento, cit., p. 186, nota ai vs. 58-59 e p. 188, nota al vs. 91.

[192] G. Papini, Dante vivo, Firenze 1933, citato da P. Millefiorini, loc. cit., p. 19.

[193] K. Esser, riferendosi al Celano, Vita prima, 193, e citando il Chronicon Montis Sereni, in Origini, cit., p. 50.

[194] Se anche il Testamento, secondo l’autorevole Gregorio XIV (Quo elongati, 28 settembre 1230, in FF, pp. 216s), non aveva valore giuridicamente vincolante, in quanto l’autore «non poteva, senza il consenso dei frati e principalmente dei ministri […], obbligare, non possiamo non negare la natura di preghiera, nello spirito di minorità, dell’ultima raccomandazione del pusillo.

[195] U. Bosco, Dante vicino, cit., p. 334. Cfr. anche P. Millefiorini, loc. cit., p. 18.

[196] B. Nardis, Lectura Dantis romana, «Il canto XI del Paradiso», Torino 1965, p. 17.

[197] L. Pietrobono, commento a La Divina Commedia. Paradiso, Torino 1956, p. 130.

[198] L’osservazione è anche di U. Bosco e G. Reggio, commento, cit., p. 197, nota ai vs. 55-57.

[199] Per le interpretazioni, cfr. U. Bosco e G. Reggio, commento, cit., p. 184, nota ai vs. 47-48.

[200] Commento, cit., p. 637, nota ai vs. 43-54. Per la cit. successiva, ibidem, p. 638.

[201] U. Bosco e G. Reggio, commento, cit., p. 185, nota al vs. 51.

[202] A. Momigliano, commento, cit., p. 649, nota ai vs. 46-48.

[203] Idem, ibidem, p. 649, nota ai vs. 49-51.

[204] Bolla Quoniam abundavit, tipo IV, forma I, del 13 dicembre 1219, pervenuta a Würzburg; cfr. anche la bolla, di uguale arenga e forma, del 6 maggio 1220, pervenuta a Barcellona.

[205] Op. cit., V, 3, in FF, p. 1688.

[206] H. Vicaire, op. cit., p. 418.

[207] Con le lettere del 7 maggio 1199 e del 5 luglio 1205, Innocenzo III si dà cura perché il clero non sia «costretto» all’«obbrobrio» della mendicità. Si capisce comunque come un conto fosse l’indigenza coatta, e un conto la povertà libera e scelta. Innocenzo III, e poi Onorio III, lo capirono. Resta però che la stessa povertà materiale, come valore religioso e morale, era trascurata un po’ dai monaci e dai canonici regolari dell’epoca.

[208] Cfr. Statuta capitulorum generalium Ordinis Cisterciensium 1116-1787, 7 vol., III, 155, ed. Canivez, Lovanio 1933. Per le nuove aspirazioni alla povertà, anche se non mendicante, nel monachesimo dal sec. XI, cfr. F. Kempf, Il cambiamento interno dell’Occidente cristiano durante la riforma gregoriana, in Storia della Chiesa, dir. H. Jedin, vol. IV, Milano 1975, pp. 584 ss; R. Manselli, Evangelismo e povertà, in AA.VV., Povertà e ricchezza nei secoli XI e XII, Todi 1969, pp. 9-41.

[209] Per la cit. e per tutto il contesto, spiegato e motivato, cfr. H. Vicaire, op. cit., p. 294.

[210] Idem, ibidem, p. 294. Stessa referenza per le notizie successive.

[211] In rapporto, cioè, ad una realtà ecclesiastica costituita e perciò regolata secondo i criteri giuridici vigenti, con alcune amplificazioni «ad personam»: cfr. idem, ibidem, pp. 328-329.

[212] Cfr. Costantino d’Orvieto, op. cit., n. 104.

[213] H. Vicaire, op. cit., p. 294. Cfr. un cenno in Francesco e Domenico: le due «colonne» secondo Caterina da Siena, loc. cit., pp. 69-70, e nota 42. P. di Giovanni Olivi, Lectura super Lucam, in FF, pp. 1271-1272. L’«impostazione pauperistica» di san Domenico è ricordata da R. Manselli, San Francesco, cit., p. 135, riga 28.

[214] U. Bosco, Dante vicino, cit., p. 335.

[215] Giovanni XXII, Gloriosam Ecclesiam, 23 gennaio 1318.

[216] Cfr. P. Millefiorini, loc. cit., p. 24.

[217] S. da Campagnola, Introduzione, cit., p. 383; cfr. U. Cosmo, in «Giornale dantesco», VI (1898) pp. 49-82, e F. Olgiati, in FF, p. 1687, nota 3.

[218] V, 3, in FF, pp. 1698-1699.

[219] P. Millefiorini, loc. cit., p. 27, nota 30, in fine.

[220] S. da Campagnola, Introduzione, cit., pp. 381-382. Cfr. anche S. Pasquazi, San Francesco in Dante, in AA.VV., Studi in onore di Alberto Chiari, Brescia 1973, pp. 939-970. Il competente Stanislao da Campagnola rileva alcuni elementi forti di tale «biografia»: Bonaventura e il Celano non fanno della Povertà la «sposa di Cristo», e, se Dante eredita dall’Arbor vitae, ne trasforma il «graditissimo valletto», quale è la Povertà in Ubertino, in «sposa di Cristo». Il Sacrum Commercium, poi, non conclude in celebrazione nuziale il «rapporto Madonna Povertà e Francesco»: Introduzione, cit., p. 387.

[221] «Il che hanno dimenticato coloro che hanno creduto incompatibile il confronto fra Maria, persona reale, e la Povertà […], pura astrazione»: commento, cit., p. 641, nota ai vs. 70-72.

[222] E. Auerbach, op. cit., p. 223.

[223] A. Momigliano, commento, cit., p. 638, nota ai vs. 55-57. Interessante tutta la nota.

[224] E. Auerbach, op. cit., p. 231.

[225] A. Momigliano, commento, cit., p. 638, nota ai vs. 55-57.

[226] Il Sapegno definisce il canto XI un «panegirico» dallo schema oratorio, negandogli la natura di «biografia poetica»: op. cit., p. 917, nota ai vs. 1-12.

[227] Op. cit., p. 108.

[228] U. Bosco e G. Reggio, commento, cit., p. 179.

[229] Noi non riscontriamo il divario segnalato dall’Auerbach, op. cit., p. 227.

[230] Cfr. l’utile riflessione di N. Tommaseo, op. cit., p. 93.

[231] A. Momigliano, commento, cit., p. 639, nota ai vs. 58-63. Per un aspetto della povertà francescana, cfr. L’elemosina come socialità radicale in Francesco d’Assisi, loc. cit., pp. 156-171.

[232] S. da Campagnola, Introduzione, cit., p. 383.

[233] Giustamente lo avverte il Momigliano: commento, cit., p. 636, nota ai vs. 37-39.

[234] È questo, in fondo, il senso anche del Cantico francescano. Cfr. il nostro art. Dalla parte delle creature, «cum grande umiltate», in «Frate Francesco», 34 (1982) pp. 230-240, soprattutto p. 236.

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