1985, IF, “Un’altra legge nelle mie membra”

“Un’altra legge nelle mie membra”, il Renzo manzoniano, in «L’Italia Francescana», n. 4 (1985) pp. 452-458.

Testo dell’Articolo

Sulle valenze autobiografiche dei personaggi manzoniani, in cui la critica, ora nell’uno ora nell’altro — o in tutti quanti a livelli diversi (C. Dossi) —, ha rilevato una qualche proiezione psicologica, non è apparsa, finora, una adeguata considerazione sulla rispondenza «manzoniana» di uno dei protagonisti più distanti, sociologicamente e culturalmente, dall’autore.

Noi crediamo che il travagliato convertito, non già «timoroso di non saper convincere se stesso» (A. Moravia), ma conquiso della propria debolezza fino a sentirne, penosamente, impossibile il perdono, si sia immedesimato in Renzo sotto l’aspetto della conflittualità, diciamo, comune, tra «carne» e «spirito» (Rm 7, 15-23), nella vita di fede quotidiana. Una delle traversie interiori del pover’uomo — epiteto rettamente usato dal Turoldo anche per Francesco d’Assisi, e da noi per Pio da Pietrelcina — fu il timore di ricadere nella «bestemmia» contro Dio e la Chiesa di Cristo. Su tali disturbi mentali, alla fine della vita, alcune biografie ci hanno impietosamente ragguagliato, senza comprendere tuttavia la dinamica di fondo: nella quale rientra — è inutile dirlo — il fenomeno nevrotico, ma anche la premura dell’amore di Dio, e, forse, una volgar forma (ma che sappiamo, noi, se anche «mistica?») di notte oscura.

Alberto Moravia, a parte la sua «costruzione [critica] astratta, anacronistica e falsa» (S. Pasquazi), ha colto bene la «simpatia» con cui il gran Lombardo ha trattato anche le umanissime arrabbiature del piccolo Renzo; ma non ha centrato, a nostro avviso, l’angolatura esistenziale.

Turlupinato dal proprio parroco (mai possibile!), impedito in un sogno d’amore — che nulla affatto sminuito dall’autore (qualunque cosa dicano critici estroversi), è scandagliato anzi con delicatezza di sentimento —, il giovanotto non ci vede più: «Le prometto che fo uno sproposito […]» (cap. II). Così al parroco; quanto a don Rodrigo, vorrebbe «afferrarlo per il collo, e… […]», poi ci ripensa: più prudente ammazzarlo con «lo schioppo». «— E Lucia? — ».

Con don Abbondio, il giovane si fa dolce, e quattro volte confessa: «Posso aver fallato». Pur giustificatamente attivata, la violenza è qui sopraffatta dalla semplice considerazione della angheria subita da chi, per paura, è ingiusto. Scusandosi col dire: «[…] pensi se nel mio caso…», Renzo include, sentimentalmente, la scusante per il suo oppressore: con «simpatia» schopenhaueriana, sufficiente per vestire i panni del prossimo, e capirne il male. È perdono reciproco. L’Abbondio manzoniano è meno generoso: mentre Renzo lo compatisce senza tener in conto, sotto questo aspetto, l’omissione di atti d’ufficio, il curato addebita l’origine della propria disgrazia alla voglia del giovane di sposarsi (che è, invece, legittima).

Con don Rodrigo, le scusanti non appaiono. (Non gliele concede neppure lo scrittore, se non a livello di contesto sociologico che, però, non basta a sollevare le coscienze, per dirla con il Momigliano, dalle proprie responsabilità). Con più aderenza alla dinamica dell’irascibilità imprudente, ma a scapito della psicologia dell’amore lungimirante, in Fermo e Lucia il giovane si dirige di fatto verso il palazzo del signorotto. Trattenne comunque Renzo dall’effettuare il proposito omicida il pensiero «di Dio, della Madonna, de’ santi», il ricordo della gioia «tante volte provata di trovarsi senza delitti», al punto che la smarrita mente ebbe orrore delle proprie fantasie (cap. II).

Qui l’autore invera, narrativamente (esplicitamente, poi, nella «vita» di Federigo), l’efficacia dell’educazione religiosa ricevuta: intesa non già come congerie di riti formali — in cui qualche critico ha, stranamente, conchiuso la religiosità de I promessi sposi (G. Papini; G. De Luca) —, né come trasmissione propagandistica («realismo cattolico» del Manzoni moraviano), ma come esperienza della realtà del popolo di Dio (V. Paladino). Qui, inoltre, l’autore sottende quel senso della «comunione dei santi», essenziale per comprendere, anche solo poco poco, il suo romanzo (C. Bo; C. Angelini): la «comunione» opererà in Lucia nel castello; opera anche in Renzo, in continuazione.

Ma le circostanze rinnovellano antico dolore. Al racconto di Lucia circa la sfacciataggine di Rodrigo, Renzo diventa una belva: «Questa è l’ultima che fa quell’assassino», e, muovendosi verso la casa dell’avvocato, è ritratto dal Manzoni in uno stupendo spaccato di psicologia comportamentale. Il risolvimento della collera è mediato dall’amore per Lucia e di Lucia per lui: pur nobilissimo e tenero, esso è, ancora, di natura egoica, per cui la «legge delle membra» ha sempre molto spazio. Il contraddittorio sulla «giustizia umana-giustizia divina» — su cui ha scritto acute pagine E. Raimondi — riproporrà, dopo il fallimento della missione volontaria di Cristoforo da don Rodrigo (cap. VII), il conflitto irrisolto, tanto che Renzo si placa, sì, ancor presente il frate, ma, al di là di un margine di convinzione, è intuibile che ciò avvenga un po’ per rispetto, un po’ per convenienza, nella subconscia, quanto meno, avvertenza che il cappuccino sarà loro di aiuto nello sbrogliare quel pasticcio. Allontanatosi il frate, il giovane, dopo il burrascoso dialogo con la ragazza, non cede nell’ira se non alla promessa di Lucia di partecipare all’irruzione in canonica. Il comportamento è, qui, tutto umano, tutto legato alla logica terrestre, comprensibile, sì (ed è l’unico aspetto esaltato da alcuni critici), ma lontana dal messaggio essenziale del Manzoni (nel cui mancamento il Moravia ha fatto consistere la validità del romanzo).

Ma le cose non stanno affatto in questi termini. Anche se alcuni pensatori — di cui ci risparmiamo indicare le generalità — hanno accusato il Lombardo di aver svilito gli «umili», visti come gente inferiore, senza ingegno e senza spirito (tuttavia, cfr. F. di Ciaccia, La missione inutile della semplicità francescana nel fra Guidino manzoniano), la debolezza della «legge delle membra», che è senz’altro in Renzo, contiene, in sé, tutta la coscienza umile dell’autore. Non era stato Gesù a gridare, «nei giorni della sua carne», «ad alta voce», perché «Colui che poteva salvarlo» lo liberasse dall’irritante ingiustizia della «morte», abbandonato dai più cari «amici» («Non vi chiamerò più servi […]»)? (Ebr 5,7). Vero è che l’«umile» Renzo riceve, e non impartisce, l’insegnamento della «legge della mente» spirituale; ma a chi la parte del superamento della legge carnale, se non a chi, «intermediario in saio di Renzo» (A. Moravia, con presupposti concettuali diversi da quelli qui indicati), ha sguardi acuti sulla «giustizia» della vendetta; a chi amministra il sacramento terribile del perdono (con cui, per la «comunione dei santi», si rende possibile il riscatto dell’offensore, una volta che le assi della croce sono state inchiodate per le proprie spalle)? È presumibile — con qualche plausibilità — che lui stesso, il Renzo-Alessandro, abbia trovato nel ministro della «legge della mente» un sostegno contro «la legge delle membra»: cioè, nel sacerdote: il quale un pover’uomo, come il «povero frate» Cristoforo, ma che, come «ministro o servo» ha una grazia per gli altri, la quale non è tanto un momento della propria umanità, quanto un «servizio» della umanità-divinità di Gesù in persona.

Del resto, Cristoforo stesso ha la sua «legge delle membra» che, per la tenacia insopprimibile della provocazione all’ira, mantiene nel timore il pover’uomo: il quale — come, alla fine il povero Renzo — non ha da confessare se non che la «gloria» dell’uomo è nella «croce» — tra cui c’è il «perdono», grazie alla quale la «legge della mente» dello spirito di Dio ottiene, senza che vi siano altre alternative, la sua espansione. Qualche pubblicista (A. Nòferi, ad esempio) non ha tenuto nel debito conto la coscienza umiliata del cappuccino, mentre qualche altro (Papini-De Luca, tra gli altri) ha tacciato il Manzoni di enfasi, colorata di infantilismo, nelle sue figure «eroiche». In realtà, nessuno è «eroe» (C. Bo), neppure l’eroe (C. Angelini), ma solo uno che obbedisce, oppure non obbedisce, o obbedisce in parte o con difficoltà, alla «legge della mente».

Il primo contraddittorio della «mente» (Cristoforo) contro le «membra» (Renzo) denuncia l’andare «in cerca d’amici… quali amici! che non t’avrebber potuto aiutare, neppure volendo!» (cap. V). Qui non è condannata l’operosità alacre o coraggiosa, trepida o insonne, ma l’agire dimentico «di perder quel solo che lo può [aiutare] e lo vuole»: modalità che contiene, esattamente, questo di infedele: la sfiducia in Dio come Padre («Non sai tu che Dio […]»). Secondariamente, agendo senza la speranza divina, che del resto è tutt’altro che acquiescenza, l’uomo agisce rovinosamente per l’aggravio del feroce contesto del mondo. Il noto avvertimento: «Non sai che, a metter fuori l’unghie, il debole non ci guadagna?» — orribile a chi vi ha scorto, sottesa od enunciata, la legge borghese della subordinazione proletaria —, ha senso compiuto sia nell’ordine delle situazioni concrete, in cui il rimprovero assumeva il ruolo della contrapposizione paterna agli impulsi di Renzo, sia nell’ordine, soprattutto, della suprema legalità: quella per cui la giusta rivendicazione, se vuol restare assolutamente nel giusto, non può uscire dall’amore di Dio.

«E quando pure…»: l’accenno di Cristoforo non tanto enuncia il vero fattuale per cui il debole consegue esiti di più sicura sconfitta, se forza il mondo, che non se lo faccia il potente, quanto annuncia, con il sotteso riferimento alla propria esperienza (A. Momigliano), la verità che, comunque vadan le cose entro l’ambito dei rapporti di forza e di potere, la violazione dell’amore di Dio — che è la «legge» di Dio» — è sempre violazione della giustizia, ed offesa a se stessi. Per questo, dunque: anche se gli amici volessero, «non t’avrebber potuto aiutare», soprattutto, in questo («neppur volendo»), nell’ottenere il giusto diritto con giustizia!

Seguendo «la legge» dello spirito di Dio, con una carità magari un po’ temeraria (sull’«errore» di padre Cristoforo, cfr. E. De Michelis, ma anche G. Negri, G. Marafini, F. Crispolti, F. di Ciaccia), e un poco ingenua da «favola» (E. Raimondi), Cristoforo, del resto non sempre ligio alla «politica» dei confratelli (cap. V), dimostra sia la necessità di adoperarsi secondo tutte le proprie forze, quando si spinge «nel covile della fiera», «con l’illusione di poterla ‘ammansare’» (E. Raimondi), sia il crinale che spartisce la potenza del mondo e la potenza di Dio: la prima, servita dalla «legge delle membra», la seconda, trionfante nella «legge della mente». Cristoforo non vuol altro, da Renzo, se non che egli resti puro dai lacci dell’iniquità (cfr. Osservazioni sulla morale cattolica).

Ma se Cristoforo è impotente, con tutta la sua buona volontà (e qui c’è, ancora, tutto il magistero di Paolo di Tarso), è potentissimo, per la «comunione dei santi», con la sua miseria ed il suo peccato. Rientrato tardi in convento, riceve, con lo stesso amore con cui ha vinto, perdendo, don Rodrigo, la reprimenda del suo superiore — scandalosa per alcuni critici, puntualizzata, però, «storicamente», da G. Santarelli —. Umiliato, il frate, a sera, prega per il padre guardiano, per Rodrigo, per Renzo: la «comunione» non ha bisogno di chiacchiere. In seguito, sarà fatto sloggiare da Pescarenico: stupidamente, obbedisce; ma con amore. Perché la «legge della mente» di Dio si imponga, senza chiacchiere, contro la «legge delle membra», ha bisogno di questi stupidi amori.

Nelle famose intemperanze del giovane durante i tumulti di Milano, e nella successiva ubriacatura, G. Baldi, un discepolo di Giovanni Getto, ha messo egregiamente in risalto la presenza del «cappuccino» e del «padre» nella mente di Renzo. Ma Renzo stesso ha, in sé, fortificata, e fortificanda, sempre più, dall’esperienza del dolore — che Dio non manda mai ai suoi figli se non per offrir loro, almeno secondo il Manzoni, una gioia più grande — la «legge della mente». Lo dimostra nel buon senso dei suoi giudizi sulla distruzione dei forni, sul proposito di ammazzare il vicario di provvisione, sul delirio della folla: un buon senso che, a detta di F. Chiesa, supera «le migliori filosofie del mondo». È una «naturale» traduzione o diffusione della «legge della mente», tanto più elevata se ispirata dalla benevolenza, che già «può sottrarre l’uomo dalla disperazione» (E. Raimondi). Allora, è Renzo che «restituisce» (francescanamente) gli unici due pani, nel secondo ritorno a Milano, ad una donna segregata per la peste (cap. XXIV): sembra che egli sia stato inviato di nuovo a Milano soprattutto per essere strumento della «provvidenza» (C. Angelini). È Renzo che, alla vista della madre di Cecilia, prega: «O Signore! […] esauditela!». Che un giovane, dilaniato nell’animo, dimentichi per un poco se stesso, è già qualcosa di sacro.

Alla fine, la grande battaglia. Le due «leggi» si rivelano nella loro essenza: sottratte alle implicazioni del reale. Lì c’è la denuncia: «Sciagurato!», gridò il padre Cristoforo (cap. XXXV). E c’è anche la sconfitta: il cappuccino, quasi, si accascia. Quando la vita ha gettato sotto gli occhi la sua immagine di pena, quando la vita ha strappato la sua maschera al potente, chi non vede «al cospetto della morte e della sventura» (E. Raimondi) la misericordia di Dio, è, lui, il nemico di «Colui che flagella e che perdona!». Allora, non serve aver patito: perché trionfa «l’omicida fin dall’inizio». Ma, dinanzi alla legge dello Spirito, per cui Cristoforo ha lasciato «anche la carità» per «la carità» (cap. XXXV); per cui Cristoforo ha «pianto» per Rodrigo, come per Renzo; per cui Cristoforo testimonia «offensori che gemevano di non potersi umiliare davanti all’offeso» prima di morire — perché a tutti fosse fatta misericordia, che è la giustizia di Dio —; Renzo dimentica tutto, per tutto guadagnare: poiché, se fallisce la «legge della mente», neppure un «felice esito» potrebbe guadagnarla, ma, se ha il sopravvento la misericordia che perdona, essa guadagna l’umanità, anche con «infelice esito».

Nel silenzio che anticipa la morte del frate, e che promette la festa dello sposo (umanissimo, il Manzoni, nel far sposare le due creature, osserva N. Sapegno), le confidenze più intime di tutto il romanzo: quelle che non si posson rivelare se non quando «la legge della mente» di Dio mette in sintonia due cuori. «Pregherei il Signore di dar pazienza a me, e di toccare il cuore a lui [Rodrigo]»; se, dice Renzo, lo «vedessi».

Renzo vede don Rodrigo. Il frate stringe forte la mano di Renzo. «Benedicilo».

Poi tacciono.

Poi pregano.

«I loro visi parlavano».

Cristoforo vive solo ancora un poco: quasi, solo per sciogliere il voto di Lucia. Ma, ormai, questo apparteneva alla terra, anche se preso a cuore dal cappuccino. Tutto «può esser castigo, può esser misericordia», «una grazia […] [o] un sacrificio»: quel che conta è ciò che appartiene all’eternità: l’amore di Dio. [Francesco di Ciaccia]

* Nel quadro del ricordo bicentenario della nascita del Manzoni, dietro offertaa dell’a., si pubblica questa nota già apparsa in «Giovinezza nostra» di Milano (n. 1, 1984) (n.d.d.).

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