1988, IF, A proposito di un articolo su fra Galdino
A proposito di un articolo su fra Galdino. Un’ulteriore riflessione sul “miracolo delle noci”, «L’Italia Francescana», 1-2 (1988) pp. 169-174.
Testo dell’Articolo
Un articolo saggistico di Roberto Wis, studioso all’Università di Helsinki[1], ha posto il problema se, e quanto, sia vero che il Manzoni – come consta da Stefano Stampa, il figlio della seconda moglie di Alessandro – abbia voluto inserire «nel romanzo quel personaggio di fra Galdino per porre in ridicolo per l’appunto i pregiudizi bigotti» In realtà, mentre il romanzo svela come la Provvidenza, per il Manzoni, cammini con un «suo passo, che è lento», e lascia chiunque le porte aperte al ravvedimento, il «miracolo» galdiniano mostra un Dio spiccio nel premiare e lesto nel punire.
Il problema posto dal critico è da lui correttamente risolto con il ricorso alle convergenze narrative: egli sostiene, cioè, che la proclamazione della «visita» di Dio nel soffrire, dichiarata da Cristoforo, e poi l’intemperanza vendicativa di Renzo, che viene poco dopo, spiegano il senso della «fiaba» galdiniana: il castigo c’è, per l’inadempiente e il peccatore, ma solo come e quando Dio lo vuole.
Orbene: nella fabulazione popolare del miracolo l’accento è posto sulla ineluttabilità della giustizia vendicativa di Dio, che subito s’abbatte, e senza complimenti. Ma quest’immagine, a parte l’eventuale altrui uso superstizioso, nel Manzoni concorre a rafforzare le parole di Cristoforo, che vieta a Renzo la reazione omicida. Nel concreto, è come se il romanziere dicesse, con accostamento tra la lezione di padre Cristoforo e la «punizione divina» della fiaba: – Non caricarti tu, uomo, del ristabilimento della giustizia, se intendi farlo con ingiustizia (ciò è nel discorso di Cristoforo): perché è Dio che la compirà, la giustizia (ciò è nel racconto galdiniano). Senza ingiustizia –.
Non solo: mentre la fiaba non va oltre la punizione, Cristoforo eleva a «grazia» anche il dolore: il che corregge l’idea che Dio percuota «vendicativamente», o meglio completa l’idea della «giustizia» di Dio. Infatti, la sua giustizia è sempre di carità, e anche la punizione, in quanto sia un male sofferto, può diventar redenzione.
Ecco dunque che, negli stessi «exempla» cappuccini[2], la pena derivante dal peccato è spesso convertita emblematicamente in gaudio e in carità di cuore, quando gli eventuali trasgressori si emendino. Interviene allora anche il concetto non solo che Dio, nel correggere, agisce come e quando vuole, ma anche se vuole: cioè, in rapporto alla reale situazione dell’uomo trasgrediente. Vale a dire che Dio non vuole la punizione se non per la salvezza stessa del punito: offrendogli un mezzo di riscatto.
A questo punto, dunque, non resta che benedire, sì, Dio, ma non già per le «noci» o per il buon fine (ad esempio, di Renzo e Lucia): bensì per tutto. Come appunto dice Cristoforo; e, del resto, pure Galdino. Benedirlo per l’angustia, benedirlo per la punizione: propria e altrui, altrui e propria. Per le noci, come per la penuria; la persecuzione di Rodrigo vale, ai suoi occhi, un bel matrimonio fatto a puntino: anzi, di più.
Non dunque è la giustizia umana da riguardare: né quella vendicativa, né quella retributiva; né quella cattiva, né quella buona. È Dio che sa: è il suo punto di vista che va osservato, è esso che va lodato, seguito, glorificato come perfetta giustizia.
Il resto son piccole astuzie: anche la tavoletta per raccogliere del cibo.
Fin qui abbiamo enucleato, forse con qualche ampliamento, il discorso di Roberto Wis. Vorrei aggiungere una considerazione sui rapporti interni degli elementi della favola galdiniana e sulle relazioni tra questa – che è un «exemplum» del bagaglio oratorio cappuccino – e le figure del messaggio del romanzo. La riflessione ulteriore a quanto già ampiamente scrissi in più d’un saggio[3].
Il padre Macario della fiaba galdiniana fa un «miracolo» a vantaggio del convento: è chiaro. Ma il beneficio – metà delle noci ai frati – è raggiunto solo apparentemente attraverso un tocco magico. E’ raggiunto grazie all’obbediente umiltà dei contadini. Costoro gli prestano fede, cioè gli dan credito, come un fratello ad un confratello, in un’azione inspiegabile, incomprensibile, trascendente la legittima ragionevolezza.
Prima di procedere nell’analisi, diamo per esteso lettura del «miracolo delle noci».
Oh! dovete dunque sapere che, in quel convento, c’era un nostro padre, il quale era un santo, e si chiamava il padre Macario. Un giorno d’inverno, passando per una viottola, in un campo d’un nostro benefattore, uomo dabbene anche lui, il padre Macario vide questo benefattore vicino a un suo gran noce; e quattro contadini, con le zappe in aria, che principiavano a scalzar la pianta, per metterle le radici al sole. – Che fate voi a quella povera pianta? domandò il padre Macario. – Eh! padre, son anni e anni che la non mi vuol far noci; e io ne faccio legna. – Lasciatela stare, disse il padre: sappiate che, quest’anno, la farà più noci che foglie. Il benefattore, che sapeva chi era colui che aveva detta quella parola, ordinò subito ai lavoratori, che gettasser di nuovo la terra sulle radici; e, chiamato il padre, che continuava la sua strada, – padre Macario, gli disse, la metà della raccolta sarà per il convento. Si sparse la voce della predizione; e tutti correvano a guardare il noce. In fatti, a primavera, fiori a bizzeffe, e, a suo tempo, noci a bizzeffe. Il buon benefattore non ebbe la consolazione di bacchiarle; perché andò, prima della raccolta, a ricevere il premio della sua carità. Ma il miracolo fu tanto più grande, come sentirete. Quel brav’uomo aveva lasciato un figliuolo di stampa ben diversa. Or dunque, alla raccolta, il cercatore andò per riscotere la metà ch’era dovuta al convento; ma colui se ne fece nuovo affatto, ed ebbe la temerità di rispondere che non aveva mai sentito dire che i cappuccini sapessero far noci. Sapete ora cosa avvenne? Un giorno, (sentite questa) lo scapestrato aveva invitato alcuni suoi amici dello stesso pelo, e, gozzovigliando, raccontava la storia del noce, e rideva de’ frati. Que’ giovinastri ebber voglia d’andar a vedere quello sterminato mucchio di noci; e lui li mena su in granaio. Ma sentite: apre l’uscio, va verso il cantuccio dov’era stato riposto il gran mucchio, e mentre dice: – guardate, guarda egli stesso e vede… che cosa? Un bel mucchio di foglie secche di noce. Fu un esempio questo? E il convento, in vece di scapitare, ci guadagnò; perché, dopo un così gran fatto, la cerca delle noci rendeva tanto, tanto, che un benefattore, mosso a compassione del povero cercatore, fece al convento la carità d’un asino, che aiutasse a portar le noci a casa. E si faceva tant’olio, che ogni povero veniva a prenderne, secondo il suo bisogno; perché noi siam come il mare, che riceve acqua da tutte le parti, e la torna a distribuire a tutti i fiumi».
Questa mia ermeneutica, che elicita un valore fondativo della spiritualità francescana e cappuccina, posi gi a fondamento[4] del precipitare nel «vortice» da parte di Renzo, che, sopravvalutandosi, concepisce, in fondo, un certo disprezzo per il frate portinaio di Milano e gli «disobbedisce», perciò, antifraternamente.
Allora: il nucleo della favola non è l’egoismo; ma l’umiltà. L’umiltà, è essa che è premiata. E per primi ne godono – cioè ne raccolgono i frutti «materiali» – proprio coloro che si abbassano, obbedendo ciecamente, di fronte ad un fratello.
Resta fermo, certo, che tutto l’esito sfocia, nella vita pratica, nel «mondano», verso il sostentamento dei frati. Ma la fiaba va avanti: sentite questa.
Non il proprietario del noce è fatto cadere, nell’«exemplum», nell’ingratitudine, ma suo figlio, che è un «altro». Gioca ovviamente, qui, quell’«esemplificazione» eccessiva tra buoni e cattivi che alcuni hanno denunciato nel Manzoni. Ma di ciò l’hanno criticato a vanvera e senza nessun fondamento ragionevole: perché lo schematismo c’è, ma nella favola galdiniana, alla quale però, sotto certi aspetti, il romanziere non consente.
Per questo particolare, e per altri dello stesso genere, è allora vera la dichiarazione dell’Autore, secondo cui il «miracolo» narrato vale come ironia antibigotta.
Però, le cose non finiscon qui. Innanzitutto, la ricompensa del contadino obbediente, che se ne va in cielo a ricevere il premio della sua generosità, si rapporta esattamente all’avvertimento di Cristoforo rivolto a Renzo: mantieniti puro, mantieniti innocente!
Allora, è vero, sì: altro che tabulazioni e schematismi «astratti»: è proprio così: chi si mantiene nella carità, solo lui ha da Dio la ricompensa. Che nella fiaba il rapporto sia così meccanico – chi è altruista con i frati, sarà sempre buono e andrà in paradiso –, questo è «oratorio»: nel senso che il dato d’un atto di carità non è calato nelle traversie etiche, nelle articolazioni delle problematiche morali: l’«exemplum» non scava nel «guazzabuglio del cuore umano».
Ma il romanzo, sì: e il racconto sulla bocca di Galdino vi sta anch’esso dentro. Esso esalta – intertestualmente – un personaggio, Lucia la buona, Lucia la tenace, che combatte contro Renzo, e presto cede, ma per il bene di lui (nel consentire all’irruzione in canonica).
Allora, dunque: la trama del racconto galdiniano è, sì, aliena dall’interesse «attuale» di Agnese; ma non estranea alle maglie del romanzo. Più che a Galdino, la favoletta serviva al narratore.
Infatti, ancora altre cose: il figliolo, nella fiaba, è punito. Ma perché?
Innanzitutto, perché rifiuta di dar le noci ai Cappuccini. L’«exemplum» è, nel palese, uno stratagemma a favore del convento. Però, nel connettivo del romanzo, lo smacco del figliolo si proietta su un altro ordine di valori: il punito è uno che scherza male, è uno che se ne ride della vita dei Cappuccini.
Vero è, ben chiaramente, che la strategia del tornaconto – one sto, d’accordo, ma materialmente tale – costituisce la ragione della stessa raffigurazione negativa del ragazzo: cioè, l’immagine di sfrontatezza dell’«ingrato» tende, essa stessa, a creare e a modellare il quadro ripugnante di chi rifiuta l’elemosina ai frati, per cui l’istanza definitiva della tipologia etica del «personaggio» confluisce a determinare un’impressione favorevole alla controparte, cioè ai malpagati Cappuccini. Tuttavia, nelle sinergie diegetiche il fuoco non è sull’avere o sul non avere: non è sull’astuzia di prender noci, invece che di rimanerne senza. Il racconto infatti mette di nuovo in sbalzo l’atteggiamento del giovane.
Esso è di sufficienza di sé, se non di pervicacia – ma è un ragazzo, poverino, e l’aneddotica cappuccina è sempre piena di longanimità e di misericordia! –; il peccato – o la debolezza – del figliolo non è, nella sua totale valenza etica più profonda del fenomeno, nel ricusarsi di dare. Al di là del messaggio a favore della mondana necessità dei frati, si vede luminosamente che l’inaccettabile scivolata del ragazzo è nel disprezzare: di nuovo, è nell’assenza della fraternità interiore (che genera, poi, quella esteriore).
Allora è vero: la scure cade sul capo, le noci son tutte foglie secche, l’uomo – è scassato – con i compagni della fiaba –, senza la dura e dolce obbedienza.
Come il peccato non consiste, in sostanza, nel rifiutarsi di offrire noci, così la condanna è contro la goduria del cuore, è contro lo spirito di prepotenza del sentirsi padrone di sé: l’umiliazione vien dai compagni che ripetono contro l’orgoglioso il disprezzo, più che dalle mancanti noci.
Tutto questo, poi, contribuisce, sempre, a portar roba in convento: ma ai frati non interessa soprattutto per se stessi l’«acqua» che arriva. La conclusione è lampante.
Ed essa dice che, se tutto è per Dio e non già per il mondo – neppure quello fratesco –, il Cappuccino ha questo di vero: che, per lui, tutto è per i fratelli, per l’uomo, per la carità del Signore. Come il mare, che riceve. Ma per dare.
E questo è lodare, ringraziare e benedire il Signore attraverso il servizio del prossimo. L’epilogo si connette dunque con il prologo, e lo illumina.
[1] Il messaggio di Fra Galdino e la Provvidenza nei «Promessi Sposi», in «Aevum. Rassegna di scienze storiche linguistiche e filologiche», 3 (1985), pp. 547-556. Sono stato messo in contatto con lui da Umberto Bosco, dopo che questi ha letto, in estratti, i miei saggi manzoniani.
[2] Cfr. le mie recensioni, con diversa stesura, di P. Serafico Lorenzi da Gorlago, Dalla sporta di un predicatore cappuccino del secolo XVIII. I «Casi» di Padre Agostino Maria Rizzardi da Brescia, in «L’Italia Francescana», 5 (1986), pp. 552-553, e in «Studi e Fonti di Storia Lombarda. Quaderni Milanesi», 12 (1987), pp. 161-163.
[3] Ora raccolti in Umiltà e francescanità nei «Promessi Sposi», Giardini editori e stampatori in Pisa, 1987.
[4] Sempre nel volume sopra citato.
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