1989, IF, Il significato psicologico

Il significato psicologico dell’ateismo del Leopardi, «L’Italia francescana», 6 (1989) pp. 619-634.

Testo dell’Articolo

I giudizi dei contemporanei del Leopardi

Intorno alla figura di un Leopardi non poteva non sollevarsi una appassionata questione sulla sua religiosità. Il giudizio di alcuni suoi contemporanei[1] è, in sintesi, reattivo, come nei confronti di chi ha rinnegato la propria fede. La stessa reazione è riscontrabile in alcuni critici che si pronunciarono dopo la morte del poeta. Cesare Cantù, ad esempio, definì, nei termini categoriali dell’etica cristiana, la vita del Leopardi «senza scopo […]», poiché priva di una «speranza nella vita di là»[2]. E si cercò, come per difendere la fede cristiana e insieme per ridurre la colpevolezza di un grande uomo, di rintracciare le cause della deviazione leopardiana. Il colmo è che proprio questo genere di giustificazioni, tendenti a deresponsabilizzarlo moralmente, era stato quello cui, vivo, il Leopardi aveva opposto resistenza e contro il quale egli aveva energicamente reagito, per riassumersi tutta la responsabilità del proprio ateismo: riassunzione che, nella disperata difesa di sé, equivaleva ormai a pura e semplice affermazione della propria dignità di uomo.

Si parlò, dunque, di influenze malefiche da parte di amici «pagani» e irreligiosi[3], fra cui il Giordani[4]; si pose l’accento sulla patologia del Leopardi la quale, da una parte, lo avrebbe condotto al pessimismo e, dall’altra, unita alla sua «dolce e malinconica, non avvenente, ma simpatica grazia […] colla qualità dell’ingegno», avrebbe spiegato la fortuna del poeta[5].

Parallelamente, un’altra linea apologetica ha notato la convergenza del Leopardi con i pi grandi poeti religiosi, quali Dante e Tasso, individuandola ad esempio nella contemplazione della natura, che non sarebbe «soltanto quella naturale e pagana, sì bene idealizzata dai greci e dai latini, ma quella ancora santa e cristiana cantata […] novellamente anche dal Manzoni»[6]. Questo tipo di considerazioni ― che in fondo sottende l’ideologia degli «spiriti magni» del Limbo dantesco ― è affiancata dall’apologetica «per negativo», secondo cui la missione del Leopardi sarebbe stata di «rivelare il danno del pensiero ateo»[7].

Una posizione forse più serena, teologicamente incorrotta[8] e umanamente comprensiva, fu quella di Vincenzo Gioberti, amico calunniato di Giacomo. Egli non poté non constatare l’incidenza sul Leopardi della filosofia sensista dominante[9] e contestargli «l’irreligione assoluta», ma seppe anche vedere, a mio avviso acutamente, come questa posizione leopardiana dipendesse da una idea «esasperata», e quindi «mal presa», della religione[10]. Il Gioberti ha fatto poi consistere la sostanza della religiosità leopardiana nella ricerca di una verità ferma, in cui credere[11], e altri critici hanno mostrato il «fondo» del pensiero leopardiano sempre volto all’«al di là»[12]. Divo Barsotti, spiegando tutto l’itinerario religioso del Leopardi, conclude dicendo, a nostro avviso giustamente, che «la bestemmia del poeta non era contro il vero Dio»[13].

Noi, qui, non ci impegniamo di fronte a nessuna delle apologetiche e neppure ci pronunciamo circa il giudizio del Censore ecclesiastico Gavino Secchi-Murro, frate servita, il quale affermava nel 1850 che nessuna delle verità religiose era «negata di proposito ed espressamente» dal Leopardi, il quale non avrebbe voluto mai «stoltamente ed empiamente negare Iddio nel suo cuore»[14]. Tanto meno ci interessa l’ipotesi della conversione del Leopardi, cui sarebbe stato fatto giungere dal gesuita C. M. Curci[15]. A noi la querelle non interessa. Ci interessa chiederci, se mai, del senso di questo fatto, così come ci interessa indagare sul seguente dubbio del poeta, ormai prossimo alla fine della vita.

Rispondendo all’amico Ranieri che deplorava, di fronte ad una popolare manifestazione religiosa dei Napoletani, l’«infinita credulità» della gente, rispose: «Però, perché Leibniz, Newton, Colombo, Petrarca, Tasso potevano credere nel cattolicesimo, e noi non possiamo trovare alcuna soddisfazione nella dottrina della Chiesa?».

Il Dio leopardiano come attesa d’amore

Ci sembrano interessanti alcune osservazioni, che dobbiamo leggere non in chiave teorica, ma psicologica. Il Gioberti affermava del Leopardi che il «suo ingegno e il suo animo, salvo il caso di follia assoluta, non l’avrebbe mai fatto inclinare a quel gretto e brutto fantasma di religione, che i Gesuiti battezzano col nome di Religione»[16]. A parte la punta polemica, il Gioberti ha ragione, perché, nel senso in cui egli intende il «fantasma», effettivamente il Leopardi fu irreligioso, dopo la prima esperienza giovanile. Il Gismano poi, sostenendo la tesi opposta al Giordani sulla conversione del Leopardi, adduce estrinsecamente questa riflessione: Dio «solo può appagare gli smisurati desideri del cuore umano»[17]. Prescindendo da ogni considerazione teologica, ci sembra di poter dire che proprio ciò non va inquadrato né nella concezione naturalistico-romantica, che riproporrebbe la tesi del Leopardi «naturaliter» religioso, né in una teoria ottimisticamente «predestinazionistica», secondo cui un animo buono non potrebbe non arrivare alla fede.

Noi diciamo che il Dio leopardiano ― biograficamente, quello pensato durante la sua fanciullezza ―, in tanto è negato in quanto gli si va a presentare come annullamento delle attese, dato che proprio nella speranza delle attese era fatto consistere, psicologicamente, il Dio «oggettivo» pensato durante la fanciullezza. Inoltre, noi pensiamo che questa «delusione»[18] si vada configurando, solo reattivamente, come «rifiuto», e che la negazione del Dio come «annullamento delle attese» travolga con sé il Dio rivelato, cioè il Dio pensato durante la fanciullezza.

Gli abbozzi degli «Inni sacri»

A conferma della identificazione tra il Dio «vero» e l’«istanza del bene» e a conferma della negazione di Dio precisamente in relazione alla «di-speranza» delle attese sta il fatto che, nella misura in cui la reazione psicologica si smorza, e quindi si ripropongono le attese come un positivo, il Leopardi riscopre anche l’aspetto affermativo di Dio, cioè il suo essere la «verità dell’attesa». Perciò, il senso profondo della religiosità del primo Leopardi è proprio quello che è il senso profondo dell’irreligiosità dell’ultimo Leopardi.

Nel 1819, abbozzando gli Inni sacri, il Leopardi incomincia già a tradirsi circa il senso psicologico della «necessità della Religione», della «[…] Ragionevolezza del conservar la Chiesa gl’inni suoi antichi» e della «Bellezza della relig[ione] », concludendo: «E la relig[ione] nostra ha moltiss[imo] di quello che somigliando all’illusione è ottimo alla poesia». Nei primi Discorsi sacri e nel Dialogo filosofico la dimensione «psicologica» della religiosità leopardiana appariva semplicemente, sotto un impianto rigidamente ortodosso, come una modalità personale di accostare le verità di fede[19]. A ventun anni, invece, il Leopardi, già sperimentata l’«assenza» della «madre» e subìta la «presenza» del «padre», tradisce una sua «verità» delle verità di fede, la quale si inscrive nella «illusione», appunto, il cui senso è tensione verso la realtà «vera» di contro al «vero» della realtà.

Psicologicamente, l’«illusione» è il tentativo vitale di ritrovare il perduto, è la disperata ricostruzione di una istanza indistruttibile ma distrutta nei fatti: essa resta l’unico strumento valido a ricomporre l’originario. E, intendiamoci, innanzitutto si tratta dell’originario individuale, quello appunto vissuto ad esempio nell’Inno al Redentore:

«Tutto chiaro ti fu sin dall’inizio Quel ch’a soffrire avea questa infelice Umanità, ma lascia ora ch’io t’agga per testimonio singolar de’ nostri Immensi affanni».

L’affanno, che è il negativo e cioè il «vero», appare qui come ciò che richiama la «verità» della consolazione.

Lo stesso vale per il Supplemento al Progetto degl’Inni: «[…] ma permetti all’immaginaz[ione] umana che noi ti consideriamo come più intimo testimonio delle nostre miserie».

Se, in questo contesto biografico, il Salvatore intenzionato è ancora quello «oggettivo», l’orizzonte psicologico è quello del Salvatore come «istanza». È infatti all’«immaginazione» che è attribuita la funzione di credere al Dio-uomo come «intimo».

Il senso leopardiano di Dio è l’esser «testimonio» dell’uomo, e quello dell’uomo è l’esser compagno amato di Dio. Quando, nello stesso Supplemento, l’Autore dice: «Tu hai provata questa vita nostra, tu ne hai assaporato il nulla […] pietà dell’uomo infelicissimo, […] poiché hai voluto aver comune la stirpe con noi […]», egli può aver in mente l’epistola agli Ebrei[20]; ma l’accento è posto, visibilmente, più sull’«infelicissimo» che non sul Redentore. Quello che c’è qui del Redentore paolino è l’«aver in comune» l’essere infelicissimo.

Ed è esattamente questa la rispondenza in Leopardi del dogma cristiano, che cioè il Dio (o Cristo) ha il senso del dolore umano da esser tolto.

Quando infatti la consolazione giunge ad essere infranta dalla delusione, allora è necessario psicologicamente che sia negato quel Dio, che ha il senso psicologico dell’amore che consola. E la rabbia della delusione dimostra appunto l’attaccamento a quella «illusione», dimostra la «fede» che Dio sia amore, o «madre».

Importante è il fatto che il Leopardi non compose n l’inno al Redentore né gli altri inni progettati. Ciò è segno che l’argomento non lo ispirava. Ma il problema è che cosa di quell’argomento non lo ispirasse. L’Autore non trovò più nulla di valido nel contenuto mentale di quel Redentore, nella sua rappresentazione teologica. D’altra parte, il significato psicologico, il valore vissuto di quel Redentore era troppo congiunto all’esperienza religiosa familiare, cioè al fatto sociologico e mortificante della religione, perché egli potesse coniugare il Cristo della fede «sociologica» con l’istanza profonda del proprio bisogno di amore.

Ma, nel 1820, il Leopardi mostra ancor meglio l’identità fra religione e istanza di bene, quando dice che la «dolcezza e amabilità di tante idee […] senza la religione sono chimere, e colla religione sono verità», e che con la pura ragione «tutto è brutto e arido in questo mondo»[21]. Qui l’Autore si libera decisamente dal ruolo sociologico della religione, nonostante l’apparenza del discorso tradizionale: la religione, infatti, assume una funzione a-razionale; essa acquista un valore al di fuori, e contro, la «ragione», e non solo nel senso della conoscenza «razionale» illuministicamente intesa, ma anche nel senso della conoscenza razionale «teologicamente» intesa. La religione è qui l’attuazione del positivo, inteso come istanza suprema dell’animo leopardiano, e non rientra nelle possibilità del mondo reale.

In questo senso è da prendere il giudizio espresso nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi: «[…] una tintura di filosofia allontana dalla Religione […]: una cognizione soda della filosofia li riduce (gli animi) al suo seno». La ragione, vanificando le «illusioni», vanifica la religione; ma una filosofia «soda», che cioè sappia denudare la falsità della vanificazione delle illusioni, non può non ammettere la verità delle istanze umane. Tuttavia, l’Autore è già cosciente dell’eterodossia della sua disquisizione, o meglio della sua intuizione, che contrasta con la raffigurazione generale dei presupposti filosofici e teologici del cristianesimo.

Del resto, già nel Supplemento citato egli accusa, benché ad un livello ancora esclusivamente emotivo, il proprio smarrimento: «Ora vo da speme a speme tutto il giorno errando e mi scordo di te, benché sempre deluso […]». Con ciò l’Autore ammette di estraniarsi dal Creatore in tanto in quanto ha la «speme» errabonda, cioè tale da non trovar consistenza nella realtà. Ora, il fatto che egli si coglie «deluso» in questa prevaricazione dal Creatore, indica appunto che la «speme» debba consistere nel medesimo Creatore, da cui egli prevarica scordandosene.

Il Redentore leopardiano è perciò la «presenza» ― o bisogno di felicità ― dimenticata proprio per la percezione dell’antitesi, recepita dal contesto sociologico, tra Dio e felicità.

Da ciò nasce la distinzione tra religione vera e religione falsa: «[…] così possiamo dire che oggi in ultima analisi la cagione dell’infelicità dell’uomo […] è l’idea della Religione, e che questa, se non è vera, è finalmente il più gran male dell’uomo»[22].

Dal contesto si evince che, siccome la Religione è male in quanto condanna il suicidio, e il suicidio, per il Leopardi, vale come affrancamento totale dall’infelicità, allora la religione è male in quanto proibisce il toglimento dell’infelicità[23].

Il suicidio e la negazione del dogma cristiano

Il processo di chiarificazione leopardiano ha un valore religioso ben più elevato delle stesse manifestazioni specificamente religiose. Al riguardo ci sembra esemplare il caso dell’Appressamento della morte, in cui, a dispetto del contenuto materiale e dell’intenzione del poeta, il Leopardi rivela quale sia la natura del suo vissuto di fede nel 1816: la dimensione «materna». Ma, oltre a questa, la Cantica discopre troppo grossolanamente un equivoco di fondo, per non evidenziare quel «paganesimo» leopardiano di allora, che è ben concettualizzabile nel lamento del verso:

«Dico: Misero nacqui, e ben mi lagno»,

che riproduce quello di Vittoria Colonna posto sul frontespizio:

«Certi non d’altro mai che di morire».

Potrei concordare con il Porena circa il giudizio sul Leopardi «intellettualmente sicuro della sua fede»[24] in questo frangente biografico; ma esattamente nel senso del contenuto mentale della credenza. Meglio, tuttavia, il giovane Leopardi esprime una consonanza con il cristianesimo sul piano dell’istanza affettiva: istanza che è, a nostro avviso, in certo senso più matura nel Leopardi «ateo», malgrado la sua professione in tal senso. È infatti nella modalità di tale professione che emerge il suo opposto, cioè la volontà che Dio sia, e che sia ciò che deve essere: amore misericordioso. Ed egli si inasprisce perché, nel «vero», Dio non appare così: il «vero» del mondo nasconde la «verità» dell’illusione. Ma Giacomo non disarma: si chiede costantemente che cosa veli il «vero», e nella disperazione per il reale beffardo tende, senza pervenirvi consapevolmente, alla «verità».

In questo senso concordo con Carlo Bo, quando, individuando la verità leopardiana nell’«interrogare, non già nel rispondere» sulla vita e sull’uomo, fa coincidere «l’arco dell’interrogazione» con «quello della speranza»[25]. Si può aggiungere, noi crediamo, che nella stessa negazione, che è all’interno dell’interrogazione, è posta la speranza.

Possiamo innanzitutto scoprire che la negazione del dogma cristiano da parte del Leopardi non riguarda, nella sua dinamica psicologica, il dogma stesso; inoltre, che la negazione di Dio, il quale consiste nell’essere la figura che soddisfa il bisogno di amore, è posta come conclusione della premessa che la consolazione non sia. Il sillogismo insomma sarebbe il seguente: la consolazione (nel reale) non esiste; ma Dio è consolazione; dunque (nel reale) Dio non può essere affermato come esistente.

Quando, nel Dialogo della Moda e della Morte, il Leopardi nega l’immortalità dell’anima, lo fa all’interno di un discorso mondano. Moda e Morte sono sorelle, portano via tutto con sé: ma portano via tutto ciò che è terreno. In fondo, allora, non è questione teologica; anzi, la non-immortalità sarebbe l’opposto della negazione teologica dell’immortalità. Il Dialogo di Piotino e di Porfirio affronta più decisamente il problema dell’immortalità e risponde, quasi tematicamente, in senso negativo; ma le considerazioni sulla «natura vera» e sulla natura «attuale» offrono la chiave per capire che, pur riferendosi alla religione obiettiva, l’Autore non la rinnega come religione in quanto tale, ma in quanto ostacolo al «bene» di por fine alla vita.

In fondo, la causa per cui la morale cattolica interdice il suicidio è la medesima per cui il Leopardi lo ammette.

Il Leopardi non capì la contraddizione fra la sua soluzione autodistruttiva e l’interdizione cristiana dell’autodistruzione, perché non poté capire la vita se non come il preciso opposto della felicità, come infelicità da dover essere eliminata. Tuttavia riconobbe alla religione, anche nel Dialogo citato, un potere sostanzialmente inerente in ordine alla sopportabilità dell’infelicità. Egli infatti dice che, «astraendo dalla religione», gli uomini «non troverebbero motivo di vivere». Ciò implica che, non astraendo dalla religione, gli uomini avrebbero, nonostante l’infelicità, un motivo di vivere. Il fatto poi che l’Autore parli del suicidio in termini di «contro natura» (natura corrisponde all’istanza profonda che ha da essere) è un motivo convincente per dedurre che tale necessità «secondo ragione» rientra nel quadro della dimensione del «vero»: il quale «vero» si contrappone precisamente alla «verità», cioè all’istanza vera dell’uomo[26].

A catalizzare il processo antireligioso del Leopardi, nel senso «oggettivo» del termine, fu proprio il divario fra la norma intellettivo-morale e la forma della motivazione esistenziale vissuta dall’Autore. Il Leopardi in effetti vede soltanto, nella religione «obiettiva», una minaccia alla libertà dell’uomo e un pericolo per la sua gioia:

«Così per le tue dottrine il timore, superata con infinito intervallo la speranza, è fatto signore dell’uomo […] e il genere umano, esempio mirabile d’infelicità in questa vita, si aspetta […] di avere a essere dopo quella [morte], assai più infelice»[27]. Appare evidente che nel Leopardi delle Operette Morali è esclusa la prospettiva della attesa della felicità, e quindi del valore propositivo della religione, ma è inclusa l’esigenza che questa esclusione medesima sia esclusa. Il Leopardi non afferma che l’infelicità sia tolta, ma nell’infelice esperienza dell’infelicità non risolvibile è sottesa l’istanza che l’infelicità dovrebbe, di per sé, essere risolta. Egli dunque sottende, nella constatazione dell’infelicità come «vero», il superamento dell’infelicità: superamento come «verità» che, contro la «ragione», dovrebbe esistere.

L’ateismo come bisogno del Leopardi di autodeterminarsi

Quando il Leopardi dichiarava al de Sinner: «Ho abbastanza coraggio per non cercare di diminuire il peso delle sofferenze, né con stupide speranze di una pretesa felicità futura e sconosciuta, né con una fiacca rassegnazione[28], dimostrava in fondo che la «stupidità» della felicità ultraterrena e la «fiacchezza» di una rassegnazione indecorosa gli apparivano tali esattamente in rapporto ad una eventuale rinuncia alla propria dignità di soffrire dignitosamente il proprio destino. L’ultraterreno e la speranza sono qui paventati come possibili defraudatori del proprio «coraggio», e non già in se stessi.

Il primo bene da salvaguardare era, per il Leopardi, la propria responsabilità, senza la quale non c’è l’uomo, ma la scimmia. Orbene, sia prima che dopo lo stesso 1832, molti erano stati coloro che attribuivano il pensiero del Leopardi, con intenzioni più o meno ironiche o pietistiche, alla sua malattia, e non alla potenza intellettiva[29]. Il Leopardi reagì sempre di fronte ad atteggiamenti indecorosamente, almeno secondo lui, compassionevoli, così come di fronte ad atteggiamenti umilianti che troppo gli ricordavano l’esperienza familiare[30].

Per questo, se il Leopardi si irrigidiva anche di fronte alle interpretazioni secondo cui i suoi scritti mostravano qualche «tendenza religiosa»[31], era perché la religione gli si presentava rapinatrice della propria responsabilità. Su questa necessità di sentirsi autonomo, era cresciuta, per reazione, la connessione tra il soffrire e la scelta del soffrire.

Sull’impianto psicologicamente pessimistico del Bruto Minore si radicano considerazioni indubbiamente opposte alla fede religiosa. La «virtù», sia nel senso classico cui fa riferimento il personaggio del canto, sia nel senso etico intenzionato dall’Autore, è «stolta»[32]: essa non è che una «parola»[33].

La sequela di denunce contro la divinità inizia con una figura retorica molto espressiva: «marmorei», e continua, incalzando, con attributi beffardi: più che cinica, essa è «frodolenta». Essa chiede ai mortali i «templi» in risposta a ciò che ha donato loro, cioè guai e dolori; essa finge pietà, ma risponde con «odii» alla religiosità umana; finge la giustizia ma in realtà difende gli «empi» e colpisce i «giusti e pii». Addirittura, essa ha costruito appositamente un mondo di «travagli», di «casi acerbi» ed «infelici affetti», perché il mondo fosse per lei «giocondo spettacol»! Contro simile «destino» o ontologica «necessità», non c’è «riparo» per gli «schiavi di morte», se non il rassegnarsi ai «necessari danni» ― come fa il «plebeo» ―, o il ribellarsi. L’unica ribellione radicale è il suicidio. Ma gli dei non permettono che l’uomo esca spontaneamente da questa scena: non potrebbero più divertirsi a veder la sofferenza umana! Il poeta spezzerà questa catena di schiavitù, e lo farà senza dare soddisfazione agli aguzzini: non invocherà nessun dio. La terra e il vento disperderanno l’ultimo segno della propria dipendenza: il corpo.

Da notare, in primo luogo, che il tentativo di sottrarsi alla «necessità» fatale è esigenza di autonomia come essere umano. Abbiamo visto che la rassegnazione è vissuta come un negativo esattamente in quanto segno di rinuncia a tale dignità[34], e non già in se stessa. In concreto, se si desse per l’Autore una accondiscendenza paziente senza che fosse rinuncia alla dignità umana, essa non dovrebbe rifiutarsi. Noi crediamo, ad esempio, che ci si sia verificato per il Leopardi verso l’ultimo periodo della vita nei confronti dell’«obbedienza» filiale.

Inoltre, tutto il discorso fondato sulla convinzione che la divinità sia quale egli la vede.

Ma il discorso medesimo lascia intendere che ci dispiace all’Autore, e non tanto in quanto egli ne subisce le conseguenze infelici, ma in quanto egli crede ― nel senso autentico della «verità» dell’«illusione» ― che le cose non debbano essere così.

Quando il Leopardi ribadisce al de Sinner[35] che i propri «sentimenti […] sono quelli del Bruto Minore», lo dice in un’impostazione polemica contro chi voleva trovare nel poeta una qualche debolezza di rassegnazione, e quindi, intendendo formalmente la difesa della propria autonomia morale, egli non poteva che far riferimento alle dichiarazioni letterali del Bruto Minore. Ma il senso ultimo di quelle dichiarazioni era proprio l’opposto, e ciò vale anche per l’abbozzo Ad Arimane della primavera del 1833: che cioè Dio deve essere proprio l’opposto di quello che la ragione impone come «vero»[36]. E per questo egli si vendica contro i «perversi numi»[37]. Ma per che cosa è, in realtà, la vendetta?

Quando «la sventura arriva al colmo» e «l’uomo veramente sventurato […] si aborre come un nemico»[38] ― diceva il Leopardi circa un anno prima del Bruto Minore ―, desidera tutto ci che ha «l’aspetto di nuove sventure», tende a distruggersi. Ma tale autodistruzione non indica, come fenomenologicamente appare, una volontà di male nei confronti di sé, ma esattamente l’opposto, cioè una volontà di bene. Infatti l’uomo, sostiene implicitamente il brano citato, non ama la cattiva ventura, ma la buona ventura. E se egli arriva a desiderarsi il male, non è se non perché rivendica il proprio bisogno di felicità. Tale meccanismo è ovviamente adolescenziale, tipico dell’introverso orgoglioso il quale, pur di non ammettere di essere sconfitto (ammissione di passività), si sconfigge da sé e, dando la colpa a chi lo induca a tanto, al contempo lo solleva dalla colpa: e ciò perché la sconfitta diventi ai propri occhi una scelta personale.

Il brano dello Zibaldone continua dicendo che le sventure sempre maggiori e lo stesso pensiero del suicidio danno allo sventurato «una terribile e quasi barbara allegrezza». Il meccanismo e le note di tale sentimento fanno pensare, ancora, al titanismo, tanto più che l’Autore parla di «quel maligno amaro e ironico sorriso simile a quello della vendetta eseguita da un uomo crudele».

Ma ragioniamo. La contentezza è determinata, sì, dalla volontà di non soggiacere alla «necessità» divina che vorrebbe l’uomo infelice; ma essa si esprime nel «sorriso» dell’«ultima espressione dell’estrema disperazione». Dunque, è un meccanismo di rifiuto, ma disperato. La disperazione estrema non spiega una scelta: spiega una scelta non voluta. L’oggetto princeps, che è voluto, è esattamente quello opposto all’oggetto della disperazione, e dunque è il bene.

Inoltre, la vendetta, di cui parla il Nostro, non è contro Dio. Sembrerebbe: egli vendica se stesso contro Dio nel non soggiacere a lui. Ma è chiaro che la vendetta è con intenzione di salvaguardarsi nella propria dignità. E non è per cattiveria neppure contro Dio: non si può a qualcuno far del male, se non si presuppone che costui tragga dispiacere dal male che gli si vuole. La vendetta è, in realtà, contro se stesso, o meglio contro quell’aspetto di sé che non può non tener conto del «vero»: ed è appunto vendetta perché, nella situazione «disperata», questa dimensione di sé non riesce a capire la «verità» di Dio. Il Dio, quale deve essere, gli appare nascosto, anzi opposto nella raffigurazione che è per la «ragione»: la vendetta è contro questa ragione, che gli obnubila la fede ― l’«illusione» ― circa Dio[39].

Noi non riteniamo che il Leopardi abbia negato la bontà di Dio a causa delle proprie angosciose perplessità e dei propri affanni dolorosi. Noi crediamo che, in questa negazione, si rivela tutta la sua fede in quel Dio che non poteva se non esser buono. Psichicamente, la dinamica della negazione dimostra l’affermazione di Dio[40].

Probabilmente dopo il settembre del 1835, Leopardi scrisse I nuovi credenti contro chi lo definiva «empio» e lo considerava «perduto». Erano gli anni che vanno dal Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (1829-1830) a A se stesso (1835) e La ginestra (1836) e che costituiscono la fase finale del completo disinganno («Posa per sempre. Assai / Palpitasti», A se stesso). L’Autore è giunto alla piena consapevolezza, accettata con dignitosa responsabilità, che la vita non vale proprio nulla: il «disprezzo» per «l’infinita vanità del tutto» lo induce ad attendere la fine («T’acqueta omai. Dispera / L’ultima volta»), visto che «Al gener nostro il fato / non donò che il morire» (A se stesso).

Ma mentre continua l’amara constatazione che la «natura» non fa stima dell’uomo più di quanto ne faccia di una formica (La ginestra), l’oggetto del rifiuto è approfondito nei confronti di quella realtà umana che comunemente si denomina «mondo»; e così la denomina l’Autore stesso («e fango è il mondo», A se stesso). Leopardi è scoraggiato soprattutto nei confronti della «terra» e, quando risponde ai suoi accusatori scandalizzati, non fa che sottolineare il suo disprezzo per una massa di gaudenti, praticamente materialistici. La sua ironia è spietata:

A voi non tocca

Dell’umana miseria alcuna parte

Che misera non è la gente sciocca.

In questo impianto concettuale l’Autore contrappone un’altra tipologia, nella quale colloca espressamente se stesso: quella di chi non s’è impegnato ad altro che a cercar di capire il senso della vita e, sognando l’«infinito», s’è convinto che «la vita [è] amara».

In sintesi, Leopardi si autodefinisce un «Giobbe»: bestemmiare Dio, nell’inesausto e pur fallace sforzo di «interrogarlo», non può esser più positivo che «benedire» Dio come fanno gli imbecilli gaudenti? È questo interrogativo che il Leopardi fa intendere nei I nuovi credenti, «nuovi» e antichi come Giobbe, simbolo dell’uomo «franto» che non abbocca alla fallacia d’una vita consumata nell’acquiescente imbecillità. E lui, Leopardi, uomo dichiaratamente vinto dall’«infelicità» ma non mai esautorato dall’onere di cercare dove la vita abbia una vera consistenza, si scaglia contro il diffuso costume di molta gente, che è quello di mettere insieme ogni tipo di goduria con l’esser «pii».

E con molta chiarezza è lui, l’Autore, a scandalizzarsi, giudicando queste persone «nimici di Cristo», che fanno a gara per riempirsi la «pelle» di piaceri e poi si sentono offesi nella «religiosità», perché un disgraziato dice che il vivere è «arido e tristo».

«Prodi e forti»! Così ironicamente li definisce Giacomo, questi signori che si sentono attaccati al mondo! («A cui grava il morir»). Non hanno nessuno stimolo di «cordoglio», cioè non sentono nessuna problematica, vivono sereni come bestioline («e il non saper vi scampa»), e poi drizzano i capelli se uno dice che la vita è «ingrata», inesauribile cammino verso qualcosa di inafferrabile e di «infinito».

Alla fin dei conti, Giacomo Leopardi sembra sottendere la domanda: è più pio un tranquillo scriba o un torturato Giobbe?

[1] Per quanto riguarda i giudizi, corrosi da rancori personalistici, di contemporanei, fra cui il Tommaseo, cfr. il mio articolo La riconciliazione misericordiosa della «disobbedienza» leopardiana, in «Communio», X, 60, Milano, novembre-dicembre 1981.

[2] Cfr. E. Bigi, Giacomo Leopardi, ne I classici italiani nella storia della critica, Firenze 19702, vol. II, p. 358.

[3] C. M. Curci, Il suicidio studiato in sé e nelle sue cagioni, Firenze 1876, pp. 84 ss. Cfr. anche Degli schiarimenti che molte nuovissime pubblicazioni italiane e forestiere, di scritti e memorie di G. Leopardi recano sopra alcuni punti finora oscuri della sua vita, ne «La Civiltà Cattolica», X, vol. VIII, 7, dic. 1878, p. 567.

[4] Cfr. loc. cit., p. 567. Cfr. anche G. Piergili, Nuovi documenti intorno alla vita e agli scritti di Giacomo Leopardi, Firenze 1882, p. 4.

[5] Loc. cit., p. 560.

[6] Di alcuni schiarimenti novelli che, da alcune recenti pubblicazioni intorno a Giacomo Leopardi, si ricavano ad illustrazione di quanto scrivemmo a p. 558 e seguenti del vol. VIII della serie X, ne «La Civiltà Cattolica», XI, vol. III, luglio 1880, p. 83.

[7] G. A. Levi, Ragione e fede nel Leopardi, Milano 1938, p. 148.

[8] Cfr. V. Gioberti, Filosofia del Leopardi, in Pensieri e giudizi sulla letteratura italiana e straniera, a cura di F. Ugolini, Firenze 1856, p. 409.

[9] V. Gioberti, Poesia e filosofia del Leopardi, in op. cit., p. 401; cfr., dello stesso, Giacomo Leopardi. Sua eccellenza come scrittore, e origine dei suoi errori filosofici, in op. cit., pp. 399 ss; inoltre, Egregie qualità del Leopardi e suoi errori, in op. cit., p. 404: «[…] mostrando che i più alti doni della mente […] non possono sempre salvare un valentuomo dai traviamenti del suo secolo»; p. 399: «pagò il fio alle tristi dottrine dell’età in cui visse».

Dello stesso avviso è il gesuita Domenico Solimani (Filosofia di Giacomo Leopardi raccolta e disaminata, Imola 1853), così come, più con pietà che con rigorosità critica, il gesuita Antonio Bresciani (Lionello o delle Società Segrete, Napoli 1891, p. 48).

[10] V. Gioberti, Filosofia del Leopardi, in op. cit., p. 409.

[11] Cfr. M. Marti, La fortuna del Leopardi nella critica predesanctisiana, in «Antico e Nuovo», dicembre 1949, p. 35.

[12] A. Manis, Leopardi e Pascal, in «Rassegna Nazionale», XXI, vol. CV, 1 febbraio 1899, p. 481.

[13] D. Barsotti, La religione di Giacomo Leopardi, Brescia 1975, p. 273.

[14] Cfr. Il Leopardi all’Indice, ne «La Civiltà Cattolica», XVII, vol. III, luglio 1898, pp. 24-25. Ma egli fu vivacemente contestato da E. Faelli, Leopardi all’Indice, in «Nuova Antologia», 16 ottobre 1897, pp. 739-743, sulla base della sentenza stilata dal Consultore stesso nel 1850.

[15] C. M. Curci, Fatti e argomenti in risposta alle molte parole di Vincenzo Gioberti intorno ai Gesuiti nei «Prolegomeni del Primato», Napoli 1846, pp. 96-98; cfr., dello stesso, Una divinazione sulle tre ultime opere di V. Gioberti, «I Prolegomeni», «Il Gesuita Moderno», e l’«Apologia», Parigi 1849, vol. I, p. 406, e Il suicidio studiato in sé e nelle sue cagioni, Firenze 1876, p. 93. Ugualmente, A. Bresciani, op. cit., p. 49.

Negò la conversione del Leopardi ai Sacramenti la «Civiltà Cattolica», II, vol. V, febbraio 1854, p. 443; X, vol. III, 7 dicembre 1878, pp. 571-573; XI, vol. II, 5 giugno 1880, pp. 585-586. In seguito, ripropose la tesi della conversione Gioacchino Taglialatela, Ultimi giorni di Giacomo Leopardi, Napoli 1908, p. 7, contestato dal Manetti, La pretesa conversione di Giacomo Leopardi, ne «Il Viandante», 12 (1910) p. 94 e, con un discorso posto su un piano più storico che giuridico, da «La Civiltà Cattolica», Ultimi giorni di Giacomo Leopardi, 59, vol. II, 16 maggio 1908, pp. 453-456.

La disputa si protrasse anche dopo, trovando difensori nel gesuita Gismano (Sulla morte di Giacomo Leopardi, in «Palestra del clero», 10 marzo 1934, pp. 239 ss) e in L. Federici (La morte di Giacomo Leopardi, ne «Il Casanostra», Recanati, maggio 1938, pp. 37-47).

[16] Il Gesuita Moderno, Discorso preliminare, Losanna 1846-1847, p. CXCIX.

[17] Sulla morte di Giacomo Leopardi, in «Palestra del clero», 10 marzo 1934.

[18] Cfr. il mio articolo citato, in cui è mostrata sia la delusione generata dalla religiosità e dalle virtù concretamente praticate, sia la delusione derivante dall’«assenza» nel reale dell’archetipo «madre».

[19] Stampato presso la Tipografia Sociale, a Roma. Il primo dei due discorsi, stampato già dal Simboli nel 1882, costituiva un «omaggio al sacerdote novello Mariano Bravi Pennesi». I due Discorsi sono: Crocefissione e morte di Cristo, e La flagellazione, del 10 marzo 1814. Furono nel 1898 raccolti dal Cazza-Luzi negli Appunti leopardiani offerti alla studiosa gioventù.

Tra l’altro, l’Autore vi contempla Gesù, «il Salvator nostro […] già pallido in volto […] col capo chino sul petto […] per poco ritrassi la natura […] la terra traballa; s’urtano i monti l’un l’altro […] si divide il velo del tempio […]». Tutto il discorso colpisce per le vivide immagini, ed è anche sincero; ma non va oltre una sincerità scontata.

[20] «Decebat enim eum, propter quem omnia, et per quem omnia, qui multos filios in gloriam adduxerat, auctorem salutis eorum per passionem consummare», 2,10.

[21] «Nemicizia della natura e della ragione ridotta in concordia dalla Religione», titolo di un brano dello Zibaldone.

[22] Zibaldone, 814-818, 19 marzo 1821.

[23] «Ma tu hai posto ancora innanzi e promesso guiderdone ai buoni. Qual guiderdone? Uno stato che ci appare pieno di noia, ed ancor meno intollerabile che questa vita […]; ma la dolcezza de’ tuoi premii è nascosa, ed arcana, e da non potersi comprendere da mente d’uomo […]. Sicché il conseguimento di quella qual che si sia felicità viene a esser quasi impossibile » (Dialogo di Piotino e di Porfirio). Il meccanismo per cui il Leopardi esclude la felicità in una, sia pur ipotetica, vita «futura», è lo stesso per cui egli non riesce a concepire felicità in una qual si voglia forma di vita. L’uscir da questa attuale vita, comunque, sarebbe un fatto certo, e quindi una liberazione certa dalle sofferenze certe della vita. Quanto all’al di là, questo lo si vedrà! «Perché la quistione in somma si riduce a questo: quale delle due cose sia la migliore; il non patire, o il patire» (ibidem). Con questa argomentazione, l’Autore si avvicina sostanzialmente al messaggio cristiano, secondo cui il «fine ultimo» dell’uomo è il «non patire», cioè è la felicità. Il Leopardi è conscio, sì, che il suicidio, inteso pur come «liberazione» dall’infelicità, sia tuttavia «contrario alla natura» ― e quindi, per lo stesso Leopardi, contrario alla Religione ―; ed infatti lo dichiara «biasimevole». Ma, considerati i presupposti emotivamente pessimistici intorno alla vita, che appare solo come infelicità, consegue che «a mali non naturali» sia dato un «rimedio non naturale» (ibidem).

Dunque l’Autore afferma «non naturale» l’infelicità umana, e ciò, come ultimo orizzonte del Cristianesimo, è perfettamente ortodosso. Ritiene «non naturale» la morte volontaria: in effetti, la «natura» ― nel senso dell’istanza più profonda e autentica dell’uomo ― non può volere neppure l’infelicità del darsi la morte. E anche questo è cristiano. Se egli poi ammette il suicidio, è perché in esso «vede» ― nel suo contesto emotivo effettivamente sconvolto ― il suicidio come risolvimento dell’infelicità. Il dubbio tuttavia non abbandona il Leopardi: egli infatti parla di «corruzione» umana che avrebbe recato all’uomo l’«infelicità», quindi di uno stato distorto dall’originario, il quale invece avrebbe dovuto offrire la «felicità» non già in modo «non naturale» ― il suicidio ―, ma in modo naturale.

[24] Il pessimismo di Giacomo Leopardi, in «Studi leopardiani», Pisa 1956, p. 116.

[25] L’eredità di Leopardi, Firenze 1964, pp. 17 e 10.

[26] Anche se il brano risale a circa un anno prima, resta, nel periodo biografico, esemplare: Zibaldone, 273. Cfr. anche Zibaldone, 1978-1982, 23 ottobre 1821.

[27] Dialogo di Plotino e di Porfirio.

[28] Lettera del 24 maggio 1832.

[29] Il giudizio negativo circa il contenuto «filosofico» delle opere leopardiane era diffuso già prima del 1832, e sarebbe stato accentuato dopo tale data. Ad esempio il marchese Gargallo scriveva, riguardo alle Operette Morali, a Michele Amari: «Egli è un essere infelicissimo […] irritato perciò con la natura e con gli uomini». Sempre insistendo sulle sventure del Leopardi come causa del suo pessimismo, il Capponi, pur amicissimo del poeta, lamentandosi con il Vieusseux, nel novembre 1835, della Palinodia (per la quale ebbe a dire: «Ora bisogna ch’io scriva a quel maledetto Gobbo, che s’è messo in capo di coglionarmi […] Dio sa s’io lo meritavo […]), osservava: «[…] perché egli se la piglia meco, com’anche di Domeniddio». E il medesimo a Tommaseo: «[…] E poi prova al solito, come quattro e quattr’otto, che la natura ci attanaglia, e chi l’ha fatta è un boia».

[30] Qui riferisco solo una frase dell’Autore reattiva nei confronti del mondo ecclesiastico: «La mia filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e qui e in tutto il mondo, sotto un nome sotto un altro, possono ancora ed eternamente tutto» (Lettera al de Sinner, 22 dicembre 1836).

[31] Lettera al de Sinner, cit.

[32] Cfr. le corrispondenti riflessioni del Leopardi nel Dialogo del Mondo e il Galantuomo (scritto, secondo il Levi, nel giugno 1821): la virtù serve «a non cavare un ragno da un buco», e giova solo «a fare che tutti vi mettano i piedi sulla pancia, e vi ridano sul viso e dietro le spalle», «a essere schiaffeggiato, sputacchiato anche dalla feccia più schifosa, e dalla marmaglia più codarda che si possa immaginare». Nello scritto Per la novella Senofonte e Machiavello, del 13 giugno 1822, la virtù definita «patrimonio dei coglioni».

[33] Come spiega il Leopardi in Comparazione delle sentenze, VII.

[34] Come il Leopardi dice anche nell’abbozzo Ad Arimane, che risale alla primavera del 1833, di poco successivo quindi alla lettera citata al de Sinner. Il «mai non mi rassegnerò» definisce il senso generale, autenticamente umano, dello scritto: il non rassegnarsi all’infelicità, intesa come orizzonte totale dell’esistere, in uno dei tanti momenti di disperazione («Non posso, non posso più della vita», ibidem); ma anche, a nostro avviso, alla visione negativa di quell’Arimane, che è Dio cattivo.

[35] Lettera citata al de Sinner.

[36] Arimane o è la rappresentazione del Dio (buono), e allora, in questo caso «Pianto da me per certo Tu non avrai»: perché il Leopardi non si piega, non crede ad un Dio buono che non sia buono (la cui «verità», cioè, non è di non essere non-buono, anche se il «vero» lo fa apparire tale); oppure è la rappresentazione del Dio cattivo, e, allora, «ben mille volte dal mio labbro il tuo nome maledetto sarà». In ogni caso, l’Autore si ribella al fatto che Dio sia cattivo, ed esprime l’esigenza, che è la voce della «verità», che Dio sia buono.

[37] Espressione scritta dal Leopardi in margine a «inesorandi» del v. 12.

[38] Zibaldone, 87.

[39] Anche la polemica del Dialogo di Plotino e di Porfirio contro la rappresentazione dell’al di là cristiano ― come è sotteso dallo scrittore ―, visto nel suo aspetto raccapricciante di resa dei conti («quid inultum remanebit?», diceva l’autore del Dies irae, da cui il Leopardi sembra così compreso), presuppone il concetto che Dio deve, invece, essere misericordioso. Il Leopardi, preso invece soltanto dal terrore «che non basterà la coscienza della più retta e della più travagliosa vita ad assicurare l’uomo in sull’ultimo […] dallo spavento dei gastighi», si ribella. Non erratamente dunque, da un punto di vista perfettamente cristiano, si sente raccapricciare perché «per le tue dottrine (di fatto, cristiane) il timore, superata con infinito intervallo la speranza, è fatto signore dell’uomo» (ibidem). L’errore fu nel vedere in questo modo il cristianesimo e la sua dottrina sull’oltretomba; ma, a parte le ragioni «sociologiche» di tale erroneità, giocava, in Leopardi, come altrove abbiam rilevato, un meccanismo reattivo, e quindi di rifiuto forzato nei confronti della «maternità», come archetipo di buona accoglienza. Ed egli si rivoltò contro la «natura», la «donna», la «religione»: tutte immagini e tutte forme della possibilità reale di quell’archetipo.

[40] Noi non vogliamo minimizzare la libertà che il Leopardi si assunse, responsabilmente, nel pronunciarsi contro la religione. Anzi diciamo che alcuni suoi ridimensionamenti circa la portata pessimistica ed «atea» delle Operette Morali, le quali tanto dispiacquero a Monaldo Leopardi e ad amici cattolici, furono determinati solo da ragioni «affettive» o diplomatiche. A questi fattori ad esempio crediamo si ispirino le lettere al Bunsen del 25 settembre 1835, e al padre, dello stesso anno. Nella prima si legge: «Voi avete ragione che nelle mie prose la malinconia è forse eccessiva e forse qualche volta fa velo al mio giudizio. Datene colpa parte al mio carattere, e parte all’età in cui furono scritte, perché a 26 anni le scrissi, e d’allora in qua, benché ristampate con qualche mia correzione, mai non ho potuto rileggerle interamente fino al giorno d’oggi». Nella seconda si legge: «Ella viva sicura che le correzioni necessarie alle Operette Morali, da Lei amorevolmente suggeritemi, si faranno, se però questa edizione andrà innanzi».

Senza voler accusare l’Autore, c’è da ricordare tuttavia che egli aveva bisogno dell’aiuto sia del Bunsen sia del padre. E non si può, francamente, neppure credere all’«avvertenza» dichiarata dal Leopardi, dietro richiesta del Censore ecclesiastico, nella quale era detto: «Protesta l’autore che […] non ha fatta alcuna allusione alla storia mosaica, né alla storia evangelica, né a veruna delle tradizioni e dottrine del Cristianesimo».

Noi sosteniamo che, dietro la contestazione e la negazione leopardiana del Cristianesimo, e proprio in e per questa negazione, c’è la affermazione di fede nella «verità» che non appare nel «vero» ma che deve essere. [Francesco di Ciaccia]

 

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