1990, Rlibr, Una ricerca del sacro

Una ricerca del sacro nella letteratura italiana e contemporanea. La problematica religiosa del Novecento letterario italiano, «Il Ragguaglio Librario», 12 (1990) pp. 361-363.

Testo dell’Articolo

In concomitanza con un incontro tenutosi a Milano su «Storia e metastoria: la voce della fede» dedicato alla poesia religiosa italiana contemporanea è uscito il Saggio di Luca Orsenigo intitolato L’ossessione dell’Assoluto – Epifania del Sacro nella letteratura italiana contemporanea. Il saggio offre il pretesto per due interventi sul tema, dovuti rispettivamente a Francesco di Ciaccia e Attilio Agnoletto, che qui riportiamo.

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 Compiere uno studio sul «sacro» nella letteratura italiana del Novecento sarebbe un’impresa enciclopedica: a scorno di quanto potrebbe far pensare lo spessore culturale «laicizzato», il Novecento letterario italiano è penetrato e pervaso in diversi modi dalla problematica religiosa. Solo per indicare una prova, nel 1982 l’Accademia Properziana del Subasio, consacrando un Convegno all’ispirazione francescana nella letteratura italiana contemporanea, ha spaziato da Pascoli a D’Annunzio a Bacchelli e Consalvatico, fino a Scotellaro e Ferruccio Ulivi. E si tratta degli influssi di un santo che è senz’altro sollecitante e polivalentemente percepibile, ma che è anche sicuramente e integralmente «cattolico».

Dall’ampio panorama del messaggio cristiano, poi, quasi tutta la storia letteraria contemporanea trae stimoli, sia emotivi che meditativi, da un Papini e da un Gozzano a un Santucci e a un Luzi. L’approccio è diverso rispetto a quello del Medioevo e dell’età delle passioni secentesche o dei «sentimenti romantici», poiché la rappresentazione concettuale del sacro e la sua incidenza esistenziale si sono modificate con l’apporto delle riflessioni sull’inconscio, sulla funzione della Chiesa nel mondo, sulla solidarietà sociale e, per contro, sulla coscienza della solitudine dell’io. Per le diverse prospettive basti fare qualche nome a caso: Pavese, Pasolini, Montale, oggi «scoperti» come profondamente travagliati sul piano religioso. E poi Silone, Tobino, Pomilio. Il «sacro» ha dunque resistito solidamente nella storia letteraria italiana e non a caso la «Pro Civitate Christiana» di Assisi ha dedicato seminari di studi ai principali scrittori del Novecento, mettendo in luce «in positivo o in negativo» la problematica religiosa sottesa alle loro opere.

E non a caso, a proposito del sacro, Giorgio Bàrberi Squarotti, nella prefazione al libro di Luca Orsenigo, L’ossessione dell’Assoluto. Epifania del Sacro nella letteratura italiana contemporanea, afferma che il sacro è «persistenza profonda di una condizione genetica della letteratura proprio in questa nostra contemporaneità che si è impegnata spesso a un’opera di capillare dissacrazione della vita». L’istanza religiosa riemerge sempre, insondabile e incontrollata, e magari a svolgere un’azione contraddittoria rispetto ai suoi tradizionali oggetti, fino a render sacra la stessa «dissacrazione». Come certa filosofia che rende metafisica la negazione stessa della metafisica! E non faccia meraviglia un’altra considerazione: molta di tale letteratura si avvicina senza dubbio al misticismo. Si ricordino, per certi tratti, poeti come D’Annunzio, Campana, lo stesso primo Rebora, Onofri.

Nella sua «avventura letteraria», Luca Orsenigo, nell’opera citata, ha fatto una scelta: D’Annunzio, Pascoli, Campana, Pavese, D’Arrigo e Coccioli. Dal suo esame critico ci si rende conto come il sacro si dilati al problema del «bene e del male» (Horcinus Orca, pp. 107-121): tema costante, nell’umana ricerca del perché dell’esistere, del perché della morte. La selezione dell’autore convince anche circa la metodologia con cui si possono studiare, sotto l’aspetto religioso, scrittori che non si offrono facilmente a un’indagine in tal senso, perché – come osserva nella prefazione Bàrberi Squarotti – in molti di loro il sacro è «spesso addirittura capovolto, ma anche, soprattutto in D’Annunzio e in Pavese, è calcolato e voluto» come problematico «riferimento a qualcosa di perduto che pure si vuole ancora cercare e sperare». Per dire che l’uomo non sa sostare sulla soglia della precaria mondanità e s’apre ad ogni costo verso l’Ignoto. Poiché il «Dio nascosto» – come ama dire Franco Montanari – è dentro l’uomo. Nella sua sostanza, in effetti, il sacro è una modalità di rapporto con le cose, umane e naturalistiche, collocato in una tensione con l’«originario». Il discrimen ultimativo tra sacro e profano sta dunque in questo atteggiamento: il primo non si accontenta del fatto, va oltre, tende alla verità. Emblematico in questo senso il Leopardi. Il secondo si «conclude» invece nella propria gratificazione. E lo stesso atteggiamento è da considerare nel caso contrario, cioè quando l’accettazione e la trattazione di Dio resta soddisfatta del puro e semplice rituale. Quante opere sacre non dicono nulla di «ulteriore», rispetto alla celebrazione del sacro!

Con strumenti concettuali anche filosofici, l’Orsenigo dimostra come l’atto poetico goda di una speciale facoltà eidetica di svelare il mondo, di «metterci nel mezzo di una verità« (Montale), facoltà che costituisce per ciò stesso un passaggio verso l’Essere. E non per nulla l’ultimo Heidegger lasciò la filosofia e studiò i poeti, per sapere qualcosa di più circa il disvelarsi dell’Essere.

Analizzando le Novelle della Pescara, Orsenigo individua un punto di partenza della ricerca religiosa nel D’Annunzio: il ritualismo magico, il vitalismo dionisiaco. Al di là dei fattori storici che ingabbiano le espressioni sacrali, D’Annunzio tenta di pervenire alla situazione «archetipale». Siamo al punto di partenza dell’antica Grecia, che probabilmente il D’Annunzio non superò mai. Come io stesso ho esposto in un saggio sul «francescanesimo dannunziano» (Attrazioni e illusioni francescane in Gabriele D’Annunzio, Roma, 1989), gli interessi del Pescarese per la problematica religiosa si infittirono con il tempo, in una contiguità con la dimensione confessionale che non è stata mai, tuttavia, univoca e chiara. Eppure, la tensione che lo indusse ad occuparsi del Cristo e del Poverello d’Assisi dovette forse pervenire ad un punto cruciale in cui egli «indovinò» il fulcro del sacro nella fedeltà ad un «Vangelo non scritto», alle «parole non dette» nei libri sacri e preconizzò, pur con spinte superomistiche e razziali – come le chiamerebbe Mario Bendiscioli – una «comunità di credenti» universale, un ecumenismo, pur confuso, ante litteram.

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 Con occhio diverso il Pascoli guarda al divino nella natura e nell’uomo, come argomenta l’Orsenigo analizzando Myricae. Il poeta allora oscilla tra la paura del «nulla» e l’ambientazione temporale del sacro. Ma anche per lui bisogna dire che la non-confessionalità non si esaurisce nell’estenuante auscultazione della propria interiorità, quale si trova effettivamente in Myricae. Anch’egli approda ad una sponda di religiosità positiva, sia pur sempre soffusa di sentimentalismo.

Più innervato misticamente è invece Dino Campana. Il suo cielo sacro è esoterico, ma il suo magico simbolismo penetra nell’ontologia della vita, la cui «ombra di eternità» ci immette nel fascino indefinito dell’amore. E dato che la conoscenza dell’infinito e dell’amore ha per strumento la «connaturalità» e non la logica, come si può non accostare Campana ai mistici d’ogni tempo? Bene ha riflettuto Bàrberi Squarotti, nel 1982, dicendo che il meglio dell’arte di Campana è nello scoprire, con una coincidenza di materia e spirito, «una realtà naturale primeva, primigenia e, per questo, esemplare e pura». Un altro modo di avvicinarsi al sacro potrebbe essere la coscienza del limite e il tentativo di trascenderlo. Il limite è la specifica forma d’essere della storia. Ma anche questo sentimento, che circoscrive la coscienza nello spazio e nel tempo, è vissuto da un altro scrittore, Carlo Coccioli, nella coincidentia oppositorum. Nella concretezza della temporalità, il Coccioli vede infatti il punto intermedio tra l’Origine e il Fine, che abbracciano e penetrano il mondo con un atto che è Amore. E l’amore è il sacramento dell’infinito. [FRANCESCO DI CIACCIA]

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