1982, Martinella, Cameroni
Cameroni, il critico milanese amico di Zola. Il “gazzettino rosa” e l’impegno di Felice Cameroni, «La Martinella di Milano», vol. XXXVI, fascicolo III-IV, 1982, p. 38-41.
Cameroni, il critico milanese amico di Zola
Nato a Milano il 4 aprile 1844 da Giuseppe e Fioralba Centemeri, era figlio di un impiegato della Cassa di Risparmio; seguì la professione paterna, accostandola all’attività di pubblicista e di critico letterario, nella quale fu impegnato per più di trent’anni. Svolse infatti un’intensa opera di collaborazione sui periodici e quotidiani milanesi della sinistra repubblicana ed anarchica, iniziando nel 1869 il suo curriculum di critico con articoli di cronaca teatrale sulla «Unità italiana», organo mazziniano. È da segnalare tuttavia che la sua collaborazione più duratura ed intensa fu al «Gazzettino rosa», quotidiano repubblicano mazziniano, poi anarchico, fondato da Achille Bizzoni e Felice Cavallotti, nel quale abitualmente egli scriveva, firmandosi con lo pseudonimo di “Pessimista”, una rubrica fissa, Vocabolario di uno stoico.
«Al “Gazzettino rosa” il Topo di biblioteca farà vedere come sappia amar Milano e la letteratura francese di ultimissimo garbo»[1].
Dal 1871 al 1875 collaborò al periodico «La Plebe», fondato da Bignami, nel quale si occupò di teatro, musica e letteratura e tradusse opere di Janin, Saint-Victor e Houssaye.
Sempre nel 1871 iniziò, con la rubrica fissa La letteratura drammatica, la sua collaborazione di critico teatrale all’«Arte drammatica», settimanale diretto da Polese Santernecchi; su questo giornale, oltre che della cronaca drammatica, il Cameroni si occupò anche di letteratura italiana e straniera, in articoli firmati con vari pseudonimi: Lo Stoico, Atta Troll, l’Appendicista, l’Orso, Huanofobo (odiatore dell’azzurro).
La collaborazione terminò nel 1880 a causa di un dissidio con il direttore, in quanto il Cameroni utilizzava gli stessi articoli anche per «Il Sole», una rivista commerciale, agricola, industriale, organo della Camera di Commercio di Milano diretto da P. Bragiola. Presso «Il Sole», la collaborazione del Cameroni durò fino al gennaio 1906.
Dal 1876 al 1883, il Cameroni scrisse anche su «La Farfalla» diretto da A. Sommaruga. Quando, nel 1882, il giornale fallì e venne rilevato da I. Del Buono, il gruppo dei redattori si trasferì attorno a «La nuova Farfalla», nata il 7 maggio 1882 e diretta da E. Quadrio. Allora, i due giornali si fusero sotto il vecchio titolo il 27 maggio 1882, e il Cameroni continuò le sue collaborazioni nelle rubriche Cronaca letteraria e Curiosità in prosa, finché «La Farfalla» venne assorbita da «l’Ateneo italiano» di Forlì nel 1883.
Durante il 1878 il Cameroni collaborò alla «Rivista repubblicana», quindicinale diretto da A. Mario, in cui il Cameroni si occupava ancora di letteratura italiana e straniera e sporadicamente di politica, in chiave repubblicana ed anarchica.
Nel decennio 1880/1890, la sua attività pubblicistica diventò più saltuaria: scriveva solo alcuni articoli sulla «Farfalla» e curava solo le appendici de «Il Sole»; ciò non solo per cause esterne, e cioè per la crisi di un certo giornalismo, ma anche per le cattive condizioni di salute dell’autore stesso.
Gli si manifestò infatti una malattia nervosa, curata in lunghi periodi di riposo allo Stelvio e poi con i viaggi: a Parigi nel 1889, anno in cui conobbe Zola, in Austria, in Germania nel 1891, e attraverso l’Italia fino in Sicilia, nel 1892.
«Ed egli peggiorò la propria malattia, che certo ereditò dai suoi, col violentare ed il desiderio del suo istinto e il diritto del suo spirito che volevano espandersi. Ebbe paura di se stesso, o, tanto meno, del ridicolo che la sua bruttezza, in cerca di affetto e di commosse affinità morali, poteva suscitargli da torno. Incominciò a diffidare della propria volontà». Altrove si legge ancora: «La malattia lo fece suo: gli impose stranezze, differenti fobie, l’ipermanie, lunghe passeggiate pedestri, solitarie, tedii, propositi contro di sé, violenti. Soffrì atrocemente: i suoi nervi, diceva, sfuggivano alla sua volontà. Era come alcuno che camminasse colli occhi aperti, senza vedere, assorto in un suo sogno nero; era la sua filosofia tenebrosa che si era esteriorizzata; proiettata fuori in immagine spaventosa; egli si viveva in mezzo»[2].
Dal 1893 il Cameroni tornò alla sua attività di pubblicista, collaborando fino al 1898 a «La Critica sociale» diretta da F. Turati.
Nel maggio del 1900 si recò di nuovo a Parigi per visitare la Esposizione; trascorse gli ultimi anni in solitudine frequentando i vecchi amici E. Quadrio, direttore de «L’Unità italiana», e L. Ellero. Morì a Milano nella notte tra il 3 e 4 gennaio 1923.
Altre notizie biografiche possono essere ricavate nell’articolo che l’amico di Cameroni, G. P. Lucini aveva scritto per la sua morte: «Felice Cameroni, che rimaneva per undici mesi all’anno appollaiato all’ultimo piano del n. 23 di Portico della Galleria come l’Hibou di Mercier vigilando Milano notturna e diurna, pel dodicesimo – lo sceglieva nella buona stagione, d’estate – si dava a viaggiare.
La passione peripatetica di riconoscere e sentire in proprio li stranieri e le altre patrie, ereditò da Stendhal! Ogni volta che si recava a Parigi, non trascurava mai il doveroso pellegrinaggio a Montmartre, alla tomba»[3].
Il Lucini ci offre anche una descrizione dell’abitazione del Cameroni: «Unica chiamerei questa ampia sala quadra e bassa di volta che la luce da quattro finestre tonde, a fil di pavimento lucido e freddo marmorino, come una Hall di transatlantico. Nei giorni di sole ne era inondata; nei dì di nebbia, non infrequenti a Milano, sembra viaggiasse senza rullio e beccheggio per un mare grigio e denso, iperboreo. Sopra il mobiglio semplice ricchezza di arte: ritratti all’acquaforte di Zola, dei Goncourt con le loro firme autografe; pastelli di Rapetti; acqueforti del Conconi e del Grubicy; l’autoritratto del Segantini; gessi del Grandi, del Troubetzkoi, il busto in marmo della madre, l’altro in bronzo del padrone di casa; fotografie e stampe di amici letterati italiani e francesi; vedute di Parigi del Barabandi: dell’edera verde a bever la luce vicino alle finestre. Una testa di vecchia, tra due cortinaggi, ammiccava nel bronzo ruvido, una delle prime opere di Medardo Rosso allora ignotissimo quando la plasmò, oggi, voluto a torto istitutore di Rodin.
Negli ultimi tempi, in un angusto studiolo che precedeva il salottino, sopra un panchetto, aveva messo, di fronte alla poltrona su cui sedeva solitamente, appaiate, la copia della bella testa di Cristo di Guido Reni ed il ritratto di Francisco Ferrer, ambo martiri adorabili del Libero pensiero; ed alle immagini offriva fiori»[4]. [FRANCESCO DI CIACCIA]
[1] G. P. Lucini: Felice Cameroni (Ricordi e confidenze), ne «La Voce», 23 gennaio 1913, anno V, n. 4.
[2] G. P. Lucini, op. cit., pag. 996.
[3] G. P. Lucini, op. cit., pag. 996.
[4] G. P. Lucini, op. cit., pag. 996.
Il «Gazzettino rosa» e l’impegno di Felice Cameroni
La fortuna editoriale del «Gazzettino rosa» consistette nell’aver saputo sfruttare tutta la potenzialità di motivi di cui era ricca la situazione del momento. «L’eccezionale équipe di redattori fu magistralmente armonizzata da Achille Bizzoni, che seppe tener insieme uomini di diversa formazione e temperamento»[1].
Il «Gazzettino rosa» fu in un determinato periodo della sua esistenza l’organo ufficioso dell’anarchismo italiano, e pubblicò, oltre agli scritti di Bakunin, circolari ed atti del movimento.
Ma si trattava, più che di conversione effettiva, di un appoggio determinato dalle simpatie dei singoli redattori per le idee socialiste, dalla necessità di allearsi in una lotta contro il mazzinianesimo.
Il «Gazzettino rosa» non perde mai di vista il suo carattere composito ed eterogeneo, e se nelle sue formulazioni si avvicina al socialismo, non si identifica mai con esso. Esso tuttavia permette di seguire il formarsi e l’enunclearsi sullo scacchiere politico milanese di una corrente di democrazia avanzata, di «nuova democrazia», come i suoi scrittori dicevano, che tenterà strade nuove nel campo politico e letterario, senza disdegnare il contatto con le esperienze socialiste.
Il «Gazzettino rosa» aveva dimostrato grande coraggio e coerenza quando, sfidando la opinione pubblica, aveva difeso la Comune di Parigi; esso intuì e cercò di fare capire che gli operai di Parigi combattevano una lotta che doveva interessare tutti i democratici italiani.
A questo punto la solida équipe si sfalda. Resta a mezza strada il Cameroni, che, «chiuso nel suo scetticismo programmatico si ridusse a rincorrere, bohémien della politica, il sogno della sua fantomatica repubblica sociale»[2].
Giuseppe Guerzoni aveva chiamato «perduti» i collaboratori del «Gazzettino rosa». Questi assunsero il termine, che voleva essere un insulto, a simbolo della loro probità di giornalisti.
Burbero (Vincenzo Pezza) descriveva così il tipo di perduto:
«occhio vivace, fisionomia attraente, cammina a fronte alta ed ama l’aria e la luce. Legge poco e scrive in piedi. Predilige le donne ed il vino e possiede i requisiti organici per conquistare le prime e non lasciarsi vincere dal secondo.
È prodigo e nemico dei calcoli. Irrequieto, violento, manesco: dimentica facilmente le ingiurie.
Vive tra un frizzo ed una bestemmia, e l’uno e l’altra condisce con un bicchiere di vino.
Aborre l’acqua e la diplomazia.
Fa il giornalista faute de mieux o per passatempo, e gli starebbe meglio oggi in mano una carabina che la penna»[3].
L’intento di questi giornali non mira tanto all’inchiesta minuziosa, quanto alla denuncia degli abusi più clamorosi, da rinfacciare alla classe dirigente con l’aiuto del parallelo tra Regno d’Italia e Secondo Impero francese, visti entrambi in preda alla corruzione nascente dal dispotismo regale:
«Oggi si piange sullo sfascio del demi-monde napoletano da cui trae vita la società equivoca che governa i destini d’Italia. I cittadini, invece, a cui pesa il decenne giogo impostoci dal Miglior Alleato del Re Galantuomo, nel mentre sono lieti che l’uomo di Dicembre, del Messico e di Mentana sia stato sconfitto, deplorano però ch’esso sia caduto per le armi d’un Re, anziché sotto la giustizia del popolo»[4].
Spesso il Cameroni afferma che le manifestazioni più degenerate e anguste dell’arte trovarono il loro terreno ideale nel Secondo Impero, «paladino della religione, della morale e dell’ordine»[5].
Così Zola, da un lato, e la vitalità dei giovani scrittori, dall’altro, avevano ormai convinto Cameroni che il futuro era riservato alla narrativa, l’unica in grado di far fronte ad una indagine sociale che avesse per mira la totalità (non per niente egli auspicava di guardare anche alle regioni). Egli trovò solo nella politica la leva per la virata che lo portò all’emblematica divisione della bohème di Murger da quella di Vallès, cioè alla scoperta della letteratura come mezzo d’azione sulla società: di qui, l’esigenza della contemporaneità di ‘studio’, di fedeltà alle cose, alle persone, ai sentimenti, il bisogno di una indagine spietata finalizzata al bene, insomma tutto ciò che egli vide ordinato e ancorato nell’articolatissimo porto zoliano.
Se la modernità gli aveva suggerito di non restringere la narrativa alla ‘gonnella’, forse proprio all’incertezza politica dell’embrionale programma rivoluzionario italiano va addebitato il tono del suo verismo, sicuro nel proporre l’attacco narrativo alla società, ma non altrettanto univoco nel sostenerlo.
Gli scrittori del suo cerchio restarono legati all’effervescenza un po’ confusa del «Gazzettino rosa», mostrando di non comprendere le sue omelie. «Solo Dossi dette corpo a quella protesta di tipo prezoliano con il congeniale strumento della satira»[6].
L’attività critica del Cameroni appare legata al processo di formazione delle organizzazioni politiche dei lavoratori, dalle mazziniane società operaie alla nascita del Partito Socialista Italiano. Infatti il periodo più fecondo e creativo della riflessione critica del Cameroni si colloca verso il 1869 fino al 1880, quando cioè appariva più aperta la dialettica tra le forze residue del tramontante mazzinianesimo e la fase di espansione dell’Internazionale in Italia. Infatti la collaborazione del Cameroni a giornali di diversa ispirazione (la mazziniana «Unità Italiana», l’anarchico «Gazzettino rosa», la legataria «Plebe») testimoniano l’intensa partecipazione del Cameroni ai primi orientamenti internazionalistici in Italia.
Il Cameroni in effetti si manifestò sempre astensionista anche durante la collaborazione a giornali legalitari come «La Plebe» o, più tardi, come la «Critica Sociale», organo ufficiale del socialismo turatiano. Scrive a questo proposito il Cameroni in un articolo: «Salgano pure al potere ‘codinoni’ della estrema destra o ‘codini’ di destra, gingillini ed opportunisti del centro destro, Rattazziani e Nicoteriani, liberali del centro sinistro e democratici di sinistra, a noi astensionisti, che facciamo questione di sistema e non di persone, nulla importa»[7].
Mancò totalmente nel Cameroni un’analisi della società in termini di classe, il suo programma era in sostanza quello del gruppo del «Gazzettino rosa», di ispirazione bakuniana in politica, e sostenitore del materialismo scientista in funzione antidogmatica e anticonformista, come visione generale del momento storico. Infatti, nel momento storico, caratterizzato da forti tendenze «allineate» o di moda (come si esprime il Cameroni), sia in politica sia in letteratura, l’impegno dell’intellettuale doveva essere di «antagonismo razionale», anche a costo di «scandalizzare» i «benpensanti». Così, egli sostiene un tipo di arte del genere parlando del «Gazzettino rosa» «monitor della bohème lombarda, scarlatta in politica ed atea in filosofia. Dal connubio della scapigliatura democratica ebbe vita questo organo fazioso ed empio odiato dagli azzurri, perché partigiano del patatrac, dai neri, perché professa la negazione di qualunque dogma o credenza nello spiritualismo… lodato troppo e troppo biasimato, il «Gazzettino rosa» in sé raduna le poche virtù ed i diversi vizi che caratterizzano la scapigliatura; a Mentana e a Digione, in carcere, sulla breccia di San Pietro all’Orto… propugna l’utopia di oggi che sarà… forse… la realtà del domani; alla Scala, al Cova, da Bracchi, fra le decurie dei filo-baccanti e i fervorini all’acqua di rose, fa eco alle canzoni di Murger, beve con Musset, sogghigna con Heine. Dal lato della forma il «Gazzettino rosa» si può considerare come un sostantivo ribelle talvolta… anzi spesso… Ai paragrafi della grammatica, nemico degli arcaismi e dell’arte, zelante partigiano dei neologismi e del paradosso, ‘l’enfant gaté’ de la bohème. Ove vuol approdare il Monitor? Al patatrac! Ove condurrà l’equipaggio? Al soggiorno Tarchetti od a domicilio coatto»[8].
Per quanto riguarda l’arte, il Cameroni fu sostenitore ad oltranza del realismo in letteratura; egli iniziò la sua opera divulgativa e di definizione di questo concetto attraverso la polemica sulla Scapigliatura, sostenuta contro il gruppo «idealista» milanese.
Nella definizione cameroniana di «Bohème» confluivano inizialmente sia l’idea di un’arte oggettiva, sia di un suo connaturato carattere impegnato.
Questa teoria dell’impegno, che più tardi si preciserà come denunzia diretta della miseria e delle ingiustizie sociali, assumeva, negli anni della collaborazione al «Gazzettino rosa», una connotazione più ampia di matrice anarchica in cui disordine e immaginazione, ribellione e umorismo rappresentavano, anche isolati da una immediata polemica sociale, i termini di un’arte implicitamente rivoluzionaria.
Il Cameroni stesso distingueva, in riferimento ad un impegno diretto o indiretto dell’artista, due momenti della «bohème» francese, la «bohème artististica» di Murger, e la «bohème rivoluzionaria» di Vallès.
Il concetto di realismo rimane costantemente alla base della teoria del Cameroni sull’arte e la letteratura, definita come fotografia della realtà contemporanea, rappresentazione del vero per mezzo del bello, persuasione al bene attraverso la rappresentazione del male.
La teoria realistica del Cameroni non usciva dagli schemi di una poetica tradizionale nel momento in cui avanzava il bello come forma del vero e del bene come fine dell’arte e come temperamento della rappresentazione del vero.
Costante quindi la polemica del Cameroni alla poetica del decadentismo. La battaglia del Cameroni per un’arte realista è legata strettamente al successo di Zola, di cui egli fu il primo divulgatore in Italia (su «Il Sole» e su «La Plebe») come l’iniziatore dei romanzi-inchiesta sociale attraverso l’associazione dell’arte con lo sperimentalismo scientifico.
Nella stessa direzione di una lettura guidata da un oggettivismo ad oltranza va posto il giudizio del Cameroni sul Verga, giudizio notevolmente positivo nella misura in cui il tessuto dell’opera verghiana si prestava di volta in volta a deformazioni interpretative nella chiave di un programmatico impegno sociale dello scrittore.
In un articolo pubblicato anonimo ma attribuito dal Giarelli al Cameroni, l’autore individua una «specie di viventi», «tra la borghesia e il proletariato» la quale non ha nessun riscontro con le categorie di classe del marxismo, e ne fa un’analisi sostanzialmente ascientifica, se pur vagamente sociologica.
C’è nelle città, segnatamente quelle grandi, una specie di viventi, che stanno tra la borghesia e il proletariato, e non appartenendo propriamente né a questa né a quella classe, sono veri enti fuori-classe: déclassés li chiamano in Francia, o bohèmes, secondo l’espressione di Jules Vallès, refrattari; in Italia si chiamano spostati. Scienti e incoscienti, in fondo, sono socialisti… non associati; c’è qualcosa in essi che ha dell’enigmatico, del nebuloso. Perché infatti tanto individualismo, accompagnato a tendenze socialistiche? Badiamo però a una cosa: ed è che codesti individualisti, in generale, sono del resto tutt’altro che egoisti; amano il piacere, ma sentono istintivamente e con molta vivacità anche la solidarietà morale della sventura, e i loro passi corrono ovunque c’è il tramestio e la lotta delle sofferenze»[9].
Così dunque è individuata la funzione dei «proletari del pensiero» le cui polemiche letterarie avevano tanto agitato il periodo tra il ‘70 e l‘80. Ma gli esponenti più famosi e gloriosi della scapigliatura democratica milanese, ossia gli uomini del «Gazzettino rosa», Bizzoni, Tronconi, Testa, Giarelli, Cameroni, proprio intorno al 1880, chiudevano la loro battaglia anche se non tutti si rendevano conto che le loro ideologie erano state superate da altre proposte. A questo proposito Roberto Sacchetti, passando in rassegna i superstiti della scapigliatura milanese» con a capo «l’evangelista» Cameroni, poteva constatare l’esaurirsi della loro azione in un innocuo atteggiamento protestatario. Il retroscena di questa diagnosi è comprensibile dai ricordi di uno dei loro protagonisti, Francesco Giarelli. Egli rammenta con orgoglio il ruolo di portabandiera del «Gazzettino rosa», fondato da «repubblicani usciti dalla incubatrice garibaldina», avanguardia della fronda nel giornalismo italiano[10]. [FRANCESCO DI CIACCIA]
[1] Stefano Merli, La democrazia radicale in Italia (1866-98), in «Movimento operaio», genn.-febbr. 1955, p. 35.
[2] Stefano Merli, op. cit., pag. 39.
[3] Stefano Merli, op. cit., pag. 40.
[4] Pessimista, «Gazzettino rosa», 4 settembre 1870, pag. 2.
[5] R. Bigazzi: I colori del vero, vent’anni di narrativa, (1860-1880), Pisa 1969, pag. 208.
[6] R. Bigazzi, op. cit., pag. 190.
[7] Pessimista, «Gazzettino rosa», n. 178, 29 giugno 1873, pag. 2.
[8] Pessimista, Vocabolario di uno stoico, in «Gazzettino rosa», 6 maggio 1871, pag. 2.
[9] Città e campagna, «La Plebe», n. 22, Milano 1871, pag. 7.
[10] Francesco Giarelli, Vent’anni di giornalismo (1868-1888), Codogno, Tip. Editrice A.G. Cairo, 1896, pag. 63.
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