1982, MessLor, I fuochi della Loreto di Aleardi

I «fuochi» della Loreto Mariana di Aleardo Aleardi, «Messaggio della Santa Casa», 9 (1982) pp. 277-278.

Testo dell’Articolo

Nei Canti «I fuochi dell’Appennino», scritti dall’Aleardi all’«Italia rinascente» (VI, 39), il canto VIII è dedicato alla terra lauretana[1]:

Sorride il colle de la tua Loreto,

O mistico geranio de le notti,

Questa notte t’offriamo e questi fuochi,

Regina dei dolenti, Ave Maria (vv. 4-7).

In questo contesto lauretano, il poeta dimentica la polemica contro gli oppressori dell’Italia – gli Austriaci –, per fissare la sua attenzione sul valore intrinseco della «materna casa» (v. 10) di Maria, in virtù della quale egli implora la protezione celeste per la stessa patria (cfr. vv. 11-12).

Il canto si apre con la descrizione naturalistica dei «folti / Vigneti, e gli orti, e la divota china» del dolce e affascinante colle di Loreto. Questo colle, già cantato dal Tasso[2], rappresenta nella letteratura mariana un quadro di incanto, in perfetto parallelismo con quel «colle di Assisi» della letteratura francescana cui si ispirò anche un Carducci nel mirabile sonetto Santa Maria degli Angeli e un D’Annunzio nella trepida Assisi. Perciò si può affermare che, nella terra d’Italia, il colle di Loreto appare come il simbolo per eccellenza della terra di Maria: «de la tua Loreto».

Prima di spiegare una tale appartenenza «familiare» (cfr. v. 11), vogliamo insistere sulla dolcezza del luogo stesso. Il poeta contrappone il sorriso (v. 4) del colle al «mesto» mare (v. 3), quasi in contrasto morale oltre che psicologico: il mare è, tradizionalmente, simbolo della vita, ma che contiene l’inesorabile pericolo, e la morte; è immagine della sofferente esistenza, che attrae ma inghiotte.

Su questo mondo, contrastato tra la sua vitalità e la sua terribile angoscia, si affacciano i «cari» (v. 1) lidi di Loreto. Il mondo termina là dove finisce la turbolenza del vivere, necessario ma che richiede un punto sicuro di salvezza: dove, cioè, inizia il momento della pace. La sosta è nella «divota china» (v. 2), che sale verso la solidità della cima in cui si eleva la basilica e che evoca, nel termine appunto di «devozione», la cosiddetta via della «scala santa», soprattutto un tempo, compreso quello dell’Aleardi, percorsa dai pellegrini, a piedi, per giungere al Santuario. Il poeta sembra vedere, fra quelle viti e gli orti che ancor oggi fanno la costa lauretana, soprattutto verso il mare, dolce nella sua ripidità, un atteggiamento umano di abbandono alla bontà del paesaggio e alla speranza: sentimento, questo, che è un dono, ricevuto ed offerto. Per questo, egli dice:

«t’offriamo questa notte e questi fuochi».

I «fuochi» lauretani fanno parte della tradizione popolare, che accendeva i falò in onore della Traslazione della Santa Casa, nella data appunto che menziona il poeta, in riferimento anche ad un altro avvenimento, nel sottotitolo della raccolta in esame.

Tra questi «fuochi» di Loreto, svanisce ogni facile euforismo: né rivolta, né guerra, né offesa, né controffensiva. L’atteggiamento patriottico si ricompone nella serietà della «Regina dei dolenti» (v. 7). La «divota» terra e la Madre degli afflitti permettono solo il più umano, e prima ancora cristiano, sentimento: la riconciliazione con il mondo.

Prima di tutto, il «sorriso», «Sorride» la terra, e sorride agli afflitti la Madre. Capire il sorriso non è poco: è un dono, che si riceve e si offre, e che è tremendo. Sembra che il poeta lo abbia capito sul «colle de la tua Loreto».

In questo colle, dice l’Aleardi, la «celeste viaggiatrice» (v. 8) ha scelto dove posar «la povertà de la materna casa». Sorriso e povertà: accostamento non inutile. Il dono del sorriso, che risana i «dolenti», può regalarlo solo chi è povero, come Maria e la sua famiglia, che san Francesco d’Assisi e i suoi fratelli imitarono mirabilmente e senza pari.

Dunque, sorriso, povertà, e grazia. Si tratta, infatti, non di un sorriso pietistico; si tratta del sorriso che salva, e trasforma, per cui il poeta dice:

Il pescadore in disperata angoscia

Tra la furia d’ingorde onde ti chiami

Stella del mare (vv. 13-15).

Il pescatore è l’uomo che vive nel «mare» cui accennavamo, nel mondo dalle «ingorde» tensioni: la salvezza viene dalla donna della povertà, o dalla «poverella», come San Francesco chiamava la Madre di Dio.

L’immagine del «pescadore» e del «mare» si esplica, nei vv. 15-18, attraverso le figure consuete dell’«esule che passa», della «prole esule d’Eva». Con i termini «esule» e «passare» che convalidano il concetto iniziale dell’uomo nelle vie dell’esistenza, il colle di Loreto si configura ancor meglio come «patria» dell’uomo. Ritorno alla propria casa è dunque il passaggio «devoto» a Loreto: se l’esule, nella poesia dell’Aleardi, è lontano per forza, il pellegrino è colui che, volontariamente, è lontano per un po’ dalla vita consueta, e si accosta ai segni di salvezza, cioè alla «casa materna» della povertà e della pace, speranza e segno della definitiva «casa del Padre», come si esprime il Vangelo di Giovanni.

A Loreto, c’è inoltre la «viril preghiera» (v. 19), c’è l’«Arca» di alleanza (v. 20), che l’autore attribuisce alla Madonna dalla tradizione patristica. Per tutto questo, il poeta poteva indicare, all’inizio, la terra di Loreto come cosa «familiare» a Maria, affettuosamente: «de la tua Loreto». [Francesco Di Ciaccia]

[1] Canti di Aleardo Aleardi, Firenze 18805, pp. 195-206.

[2] Cfr. «A la Beatissima Vergine di Loreto» di Torquato Tasso, in «Messaggio della Santa Casa», n. 3, a. 102, marzo 1982.

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