1983, CRend., Padre Pio

Nel 15° anniversario della morte di Padre Pio da Pietrelcina, «Campane di Rendena», 76 (1983), pp. 59-61.

Testo dell’Articolo

Padre Pio da Pietrelcina, morto nel settembre del 1968, è un uomo del Gargano; possiamo dire di montagna. Ne è stata iniziata la causa canonica per il processo di beatificazione. Qui ne parliamo sia perché egli è francescano (dell’Ordine dei Cappuccini), sia perché, appunto, uomo della montagna. Anche nel carattere [1].

Scegliamo, per l’occasione, dei brani di un suo poeta.

La sua vita non è nelle parole

[…]

Pura irrompe l’acqua dalla roccia,

e nacque in povertà a Pietrelcina

[…], e della buona terra

volle prendere veste e intendimento.

Si sa che l’indole del frate non indulgeva alle falsità dei giochi diplomatici e politici, alle storture della civiltà retorica e soddisfatta. Quella per cui, ad esempio, egli non disperdeva la sua vita nel parlarne, era non soltanto una scelta morale; era anche un’attitudine. L’insegnamento è severo come la pietra: anche nelle forme.

Ma dalla roccia, dice il poeta, «pura irrompe l’acqua». La risposta, a volte, poteva essere anche dura: le cerimonie non occorrono alla verità. Si è dato anche il caso che la «rudezza» del frate sia stata fatta oggetto di critica. Ma solo per un poco: l’acqua che veniva fuori era «pura». L’acqua, per servirci di un famoso attributo di san Francesco, è «umile», è «preziosa»: la parola del frate, ugualmente, non mortificava mai; non affogava nessuno, anche se puliva. Veniva sempre a galla la purità dell’intenzione «casta», il risultato prezioso:

Hai dato gioia al dolore,

vita al silenzio,

certezza di Dio

a un secolo senza fede.

Per te, Padre Santo,

il Monte ha la sua voce.

Della montagna il frate ebbe anche il sorriso, nella letizia severa e placata insieme. Serietà e gioiosità unitamente nella vita consumata:

la creta si arroventa di febbre

e s’innalza leggera come fiamma

ad accrescere l’incendio eterno.

Partecipe delle vicende singole e collettive; il frate né da esse si faceva coinvolgere totalmente, né da esse restava umanamente lontano: poiché là era «il suo parlatorio col Signore», «la sua Gerusalemme», dice il poeta, dove tra terra e cielo si costruiscono le salvezze. Realtà del mondo, dura, caparbia, spesso anche feroce, e redenzione nell’attesa fiduciosa e nell’orazione: tutto ciò era unito nell’esperienza del frate. Infatti, la «terra» e la «preghiera» per gli uomini della terra sono strettamente collegati, nella vita del frate del Gargano.

Nella terra dove la pozzolana

per lunga aridità impietra

e si violenta l’esistere

in un’allucinante povertà

d’azzurro sole vento,

il frate introduce la parola, che tace consolando:

la preghiera, il cantico dell’anima

che richiama il Signore

nella creatura che dolora

e la travolge in musica di pace.

La tensione redentiva del frate si riversava nella sua povertà e nella sua mortificazione, che non hanno mai abbandonato la cella e la mensa dell’uomo del Gargano. Anche questo è un insegnamento tacito, profondo: senza parole ma con tanta vita, valido inoltre per tutti gli uomini.

[…] ovunque si fatica

il pane del riscatto.

Non è facile, a volte nemmeno per i poveri essere, nella loro vita, segni di contraddizione. Per grazia e con meritevole impegno, gravido di conseguenze proficue per il prossimo e penose per se stesso, padre Pio è stato invece

il segno di contraddizione,

la diga che rompe

la fiumara che mulina giù.

Nel suo tenore di vita, che non basta una condizione sociale a far risplendere, il frate montanaro ha condannato, con i fatti e senza polemiche compiacenti, i «tramagli del dare e del ricevere», in cui

s’interrano gli uomini

e perdono dimensioni del vivere.

Ma la povertà e la verità si impongono contro tutte le falsità, si manifestano con forza come segni di contraddizione, come fari, al contempo, di umanità e di speranza:

l’innocenza spezza la danza

della materia e a tutti svela,

oltre il tempo

oltre gli interessi cingolati,

l’essenza del nostro destino.

E nel sangue è il sacrificio.

[…]

Egli contesta il corpo che s’adagia

alle prese dorate

della voluttà pesante.

E dice all’uomo:

sorridi al fratello, squarciagli

lo scafandro di plastica

e ammira la gemma che s’annida

in ciascuno di noi.

La povertà scelta per amore e la vita di penitenza, nella fraternità reale e intima con gli uomini, non hanno alienato, ma hanno inserito il frate nel cuore delle dimensioni più genuine e vive dell’umanità. Contestando il morbo della frivolezza «pesante», l’uomo che segue il messaggio francescano non fa altro che promuovere il «sorriso», cioè l’amicizia che dà gioia, e che rompe il ghiaccio dell’egoismo «di plastica», la maschera che nasconde, la cappa di piombo che difende il cuore pavido, e corrotto, della paura. Si tratta di una dimensione di essere, quale è stato nel frate che è morto in San Giovanni Rotondo, aperta esclusivamente al servizio della gente, aperta al dono di sé per la povera e grande realtà umana: che è fatta di carne, ma anche di spirito se vuol essere umana.

Orbene, è da quella povertà di vita che parla l’«innocenza»: la quale non significa se non amore senza tornaconto, pensiero senza inganno, e che insegna, sempre nei fatti, il dono che non si rimpiange. Perché il dono che mi dài lo dono agli altri.

Il monte del Gargano non è senza un messaggio, non è senza, a sua volta, una offerta di bene. Come dovrebbe essere ogni monte e ogni terra:

e quando non ne ho più da te

ritorno, sorgente viva.

Il messaggio non è quello del potere, quello della ricchezza, quello dell’interesse in generale. Si tratta di un libro speciale, che risale al libro di Gesù, che è il Vangelo, e di san Francesco.

Non è il vademecum per emergere,

non la formula magica

che ti riduca in mano ogni potere

[…]

È l’umile letizia della strada

che ti apre all’altro nell’accordo

di una vicenda comune.

[…]

È un bene duro a rompere che dài [2].

La «durezza» di questo bene, nella «muta sofferenza che redime» [3], e che è «qui tra le pietre come in Palestina» [4], consiste nella comunione di un’«avventura» umana e cristiana che esige un «accordo», una consonanza, una fratellanza interiore, oltre che esteriore, estremamente esigente.

È essa che riesce a fare

della vita […] un solo altare.

Essa richiede infatti un continuo esercizio di misericordia e di compassione fraterna, una rinuncia di sé che è la forte sequela di Gesù crocifisso, praticata dal frate di Pietrelcina nella propria interiorità:

dove ogni angoscia, dove ogni travaglio

si componeva nel sorriso d’anima [5].

Un altare di questo genere non può essere ignorato, in qualsiasi amarezza si trovi l’umano patire. Il poeta esprime tale situazione con le immagini legate alla sua patria:

l’acqua scompare nella terra avara,

per i tratturi del pane si ammassano

rovi tenaci che non danno more,

e solo è verde il titimaglio che

gonfia le mani. Se ne vanno altrove

i figli stanchi di rapimenti

e del clamore di promesse sentono

il trucco squallido,

lo sberleffo antico.

La soluzione è, sempre simbolicamente nella poesia, nell’uomo «che a tutti obbedì» [6]. La disponibilità e il servizio fraterno sono insieme la prova ed il prezzo del riscatto. Padre Pio visse tutto ciò in un’estrema regione, isolata e arida, in un breve spazio di terreno, e

[…] colse

l’essenza eterna

nel suo cantuccio

breve come un fiore.

Le riflessioni più profonde del poeta, dai significati decisamente teologici, andrebbero più a lungo esposte. Per la diuturna meditazione riportiamo qui soltanto un pensiero che tocca, insieme, la «terrestrità» dell’uomo di Dio e la trascendenza della carità di Dio, che si fa storia di carità. Si tratta di due uomini, di due tempi, uniti nella stessa luce:

L’uomo che uscì dalle mani di Dio

aveva il color della terra.

E nella carne è rifiorito il Verbo,

là sul Gargano come in terra d’Umbria. [Francesco Di Ciaccia]

[1] G. Scarale, Canto tunisino, San Giovanni Rotondo 1970, pp. 17ss.

[2] Idem, Il bene che mi dài, in A ogni ritorno un canto, San Giovanni Rotondo 1976, p. 13.

[3] Idem, Fino a quando i gerani, in op. cit., p. 23.

[4] Idem, ibidem, p. 22.

[5] Idem, ibidem, p. 23.

[6] Idem, La cella, in op. cit., p. 25. Stessa referenza per la cit. successiva. Tutte le altre citazioni sono dal Canto tunisino.

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