1984-1985, CRend, La peste del 1630
La peste del 1630 nelle Valli Giudicarie nel Centenario del Manzoni, «Campane di Rendena», 72 (1984), pp. 65-66; 80 (1984) pp. 60-61; 81 (1985) pp. 64-65; 82 (1985) pp. 69-70.
Testo dell’Articolo
Le origini territoriali
La peste chiamata, letterariamente, manzoniana, dilagò nelle Giudicarie e in Val Rendena, un po’ dopo quella milanese, ma cessò definitivamente solo nel 1636 e, per alcuni aspetti, fu più penosa e tragica che in Lombardia. Nel Milanese, seguì la direttrice dell’esercito guidato dal conte Rimbaldo di Collalto, che dalla Valtellina, seguendo «tutto il corso che fa l’Adda per due rami di lago, e poi di nuovo come fiume fino al suo sbocco in Po, si disponeva a calar sul milanese», prima di portarsi all’impresa di Mantova. A Milano si ebbero già il 20 ottobre 1629 notizia di un caso di peste «nella terra di Chiuso (l’ultima del territorio di Lecco, e confinante col bergamasco)», e «avvisi somiglianti da Lecco e da Bellano»; i primi decessi accaddero, in data incerta, nel borgo di porta orientale, vicino ai cappuccini: fra le vittime, un padre cappuccino che aveva assistito il «soldato italiano al servizio di Spagna», portatore del morbo.
Così a Milano, come poi nel Trentino, «la peste mortale», via via, è segnata dalle vite di francescani, che sull’esempio del Fondatore hanno servito i «lebbrosi», con i quali san Francesco addirittura «iniziò a fare penitenza», e dalla presenza, in particolare, di cappuccini, in ottemperanza alle loro Costituzioni.
Nelle Giudicarie trentine, la peste fu accertata la prima volta a Favrio di Ragoli, il 24 giugno 1630, aggredendo queste valli da due parti. Da una parte, provenendo dalla Val d’Adige, raggiunse Calavino, Ponte delle Arche, e quindi Preore e Ragoli, sulla scia di quel maresciallo imperiale, Mattia Galasso che, portandosi verso Mantova, «passò […] ultimo», ma anche del quale si diceva: «dove passa non lascia un filo d’erba». Da un’altra parte, dal bergamasco e dal bresciano, a sua volta attraverso Riva e il passo del Ballino, in cui il notaio di Tione, Gian Maria Staffanini, dichiarava, il 16 luglio 1630, che «erano tutti morti, et in Riva gli principali», e attraverso Storo e Lardaro, nella valle del Sarca; e se a Lardaro la peste infuriò solo dal novembre-dicembre 1630, la tradizione vuole che non vi sia «rimasta viva una sola persona». Tra gli altri effetti duraturi del flagello, si ricorda la cancellazione di intere frazioni, quali Cerana e Irone (di Vigo), e Canisaga e Vercè (di Bocenago), in Val Rendena. Tione, al 16 luglio 1630, era ancora immune dal contagio, ma a Verdesina e a Villa Rendena erano già decedute molte persone.
Favorirono il contagio, nelle regioni montane, l’insufficiente igiene, la «copiosa» presenza di pulci, le «raccapriccianti condizioni abitative», la «normale e generale denutrizione della popolazione» e la penuria di medici e medicine.
Confronti manzoniani
A parte l’occasione prossima del contagio, che supposizioni vogliono, nel Milanese, dovuta alle «vesti comprate o rubate a soldati alemanni» da un soldato, come, nella zona di Storo e Condino, ad un paio di calze, nuove, raccolte per strada e indossate da alcune donne che attraversavano la Val d’Ampola, è certo che il «veicolo della guerra, che rompe ogni misura a precauzione, persino ogni guardia in simigliante occasione, portò il malore a far strage di tante armate, e popoli innocenti». Non fa meraviglia che le affermazioni del memorialista e storico cappuccino, Cipriano Gnesotti, corrispondano perfettamente, nella realtà dei fatti, a quelle manzoniane, compresa la constatazione che, in quel flagello, «molte persone perirono ancora per la fame».
Carestia e peste erano associate, determinando «il tracollo a patrimoni gi sconcertati. Per il Trentino: «Ogni ricchezza stagnava per la fuga dei possidenti […]; chiuse le botteghe e le officine; tolto ogni commercio, fino a non potersi procacciare il necessario ai più pressanti bisogni». Nel Milanese, questa è la sintesi manzoniana: «qualche volta si vedeva uno cader come un cencio all’improvviso, e rimaner cadavere sul selciato»; «taluno, mancandogli affatto le forze, cadeva per la strada, e rimaneva lì morto»; «I cenci e la miseria eran quasi per tutto». Nel Trentino: « […] dovunque l’immagine della più sordida indigenza […]. Gli abitanti mezzi morti di estenuazione erravano come cadaveri per le contrade, dal tormento della fame tratti fuori dai covili dei loro guai. Di spesso cadevano improvvisamente morti sulle pubbliche vie […]». Anche nel Milanese, molti lasciavano il «contado», «alcuni per sottrarsi alla vista di tante piaghe», comunque «per un’ultima disperata prova di chieder soccorso altrove», e, anche lì, molti «spiravano, senza aiuto, senza refrigerio». Le Giudicarie, se per un verso non offrivano agglomerati sufficienti a dar soccorso, pur disperato, per altro verso comprendevano borghi, come Montagne, abbastanza isolati per sfuggire al contagio.
Le origini territoriali
Nonostante il cardinal Borromeo avesse, già dal novembre 1629, «ragionato dal pulpito sul pericolo vicino alla peste», a Milano, «con cecità e fissazione» spaventose, era, all’inizio, «proibito anche di proferir il vocabolo»; ugualmente nel Trentino, la peste «per tre mesi di seguito fu dissimulata», ma, una volta ammessa per l’evidenza, «ciascuno si occupava dello scampo di se medesimo» soltanto, e anche i medici «scomparvero […] per il terrore del contagio». Così a Milano, molti non solo erano «dimenticati» dalle autorità e dai vicini, come la famosa donna cui Renzo «restituì» il pane della «provvidenza», ma anche abbandonati dai medici e soltanto «con offerte di grogge paghe e d’onori, a fatica e non subito, se ne potè avare» al lazzaretto; «ma molto meno del bisogno».
Intanto, le atrocità del male potevano condurre alla pazzia. «Molti […] divennero furiosi ed in mezzo alla loro mania con spade brandite in mano, con spiedi, e con altri strumenti di morte si scagliavano addosso ai sani […]. Urla terribili di disperati risuonavano dalle finestre […]. Avvenne di spesso che gente impazzita si gettò da scoscesi precipizi, ovvero nelle acque». Tutti ricordano, nel Lazzaretto manzoniano, il «cavaliere frenetico», nel Fermo e Lucia indicato come don Rodrigo, impazzito, dal volto «misto di furore e di paura»; più in generale, il Manzoni parla di malati che «perdevan la testa», di cui una mirabile invenzione è la scena vista da Renzo, ed afferma che, nel lazzaretto, appestati «balzavano di luogo in luogo infuriati».
Prima per scelta privata, poi per disposizione pubblica, si assunsero monatti e, nonostante le rigorosissime regole imposte loro, commisero più delitti ed infamie di quanto fecero come servizio pubblico, e, per la moltitudine dei morti, ma anche per cinismo, trasportavano i cadaveri come bestiame: «Eran que’ cadaveri, la più parte ignudi, alcuni mal involti in qualche cencio, ammonticchiati, intrecciati insieme […], e si vedevan ciondolare teste, e chiome verginali arrovesciarsi, e braccia svincolarsi, e batter sulle rote […]». Così, nelle Giudicarie, il notaio, coevo, di Tione, attestando più di settanta morti tra il 24 giugno e il 15 luglio 1630, li descrive «condotti sopra una carretta alla sepoltura al Sarca». Altrove, sono testimoniati cadaveri trascinati «tre o quattro per volta», «legati per i piedi ad una corda», magari per esser gettati nell’Adige, sì che lo «spettacolo più orrendo e più insopportabile» era la «raccolta dei cadaveri». Il Manzoni aveva definito e dichiarato siffatto genere di «convoglio funebre» il più doloroso e più sconcio di tutta la peste.
I Lazzaretti
Si era giunti, nelle Giudicarie, a tal numero di decessi, e, anche, a tal paura di contaminazione, che «i cadaveri non venivano più sepolti, e la peste esalava dovunque fetore». Anche a Milano, «rimanevano insepolti i nuovi cadaveri, che ogni giorno eran di più», e ciò anche dopo che era stata scavata «una fossa» vicino al lazzaretto.
Vennero dunque organizzati i lazzaretti, per accogliere i malati, curarli, e sottrarli, comunque, alle più disparate e disperate situazioni. Tuttavia, essi risultarono piuttosto precari. Quello manzoniano sembrava un «regno desolato» finché non vi furono invitati i cappuccini a «governarlo»; ma anche dopo, a causa della moltitudine dei malati – sedicimila –, appariva miserevole: uno spazio tutt’ingombro, appestati «languenti» e «cadaveri confusi, sopra sacconi o sulla paglia»; «un brulichio, come un ondeggiamento»; e qua e là, dovunque, «convalescenti, frenetici, serventi».
Nelle Giudicane, per di più, mancavano sia strutture organizzative, per quanto criticabili, tempestive, sia le risorse economiche al livello del ducato milanese. I lazzaretti furono, generalmente, «enormi baracconi costruiti [nelle piazze] alla meglio con tavole e con assi, divisi da sacchi e da coperte sdrucite, in tante celle. Là dentro, su paglia putrida piena di pulci, si riparavano dal sole e dalla pioggia gli appestati gravi. Ma i più giacevano sulla nuda terra, all’aperto, gementi per la fame e la febbre e il dolore, talvolta gridando, tal’altra impazzendo e cercando di mettere fine alla propria vita». Il lazzaretto di Villa Rendena era chiamato «la pozza della peste». Quello di Caderzone, nella località allora detta Val Borera, era il meglio organizzato della Val Rendena, consistente in un «discreto maso», con alcune stanze ed una cappelletta, «circondato da una palizzata», come del resto il lazzaretto manzoniano, «e sorvegliato dall’esterno, giorno e notte».
Comunque, in tutti i lazzaretti della regione, gli appestati vi erano ammassati senza riguardo e pietà. Istituiti «dove ci si accordò», e sempre in ritardo, vi venivano condotti, a forza, gli ammalati, in quei frangenti in cui si dimenticavano anche i legami familiari, ed «il padre consegnava i figli, i figli si liberavano dei genitori, il marito lasciava portar via la moglie, o era la moglie a rimaner sola». A Caderzone, in particolare, il benemerito Girolamo Bertelli, nobile, che aveva organizzato un servizio pubblico, aveva dettato norme severissime sul prelevamento degli appestati dalle loro case, e affidato l’incarico a Caola Antonio, di Pinzolo.
Anche il Manzoni descrive gli ammalati «spinti a forza» al lazzaretto, ma parla anche di morti «buttati dalle finestre» dai propri familiari: «tanto l’insistere e l’imperversare del disastro aveva inselvatichito gli animi, e fatto dimenticare ogni cura di pietà». Inoltre, egli insinua, descrivendo i fanciulli che, accompagnati al lazzaretto, spaventati «imploravano la madre e le sue braccia fidate»: «Forse, o sciagura degna di lacrime ancor più amare! la madre, tutta occupata de’ suoi patimenti, aveva dimenticato ogni cosa, anche i figli, e non avea pi che un pensiero: di morire in pace».
Si capisce bene come molti, sia nel Milanese, sia nelle Giudicane, facessero del tutto per evitare il lazzaretto: «Era sovratutto straziante il gemere, il maledire, l’infuriare nei pubblici ospitali, che con assordante eco si diffondeva poi anche per le contrade». Nel lazzaretto milanese, la confusione e «i tumulti», oltre ai «gemiti», si possono arguire dall’impegno faticoso, del cappuccino Felice Casati.
In Val Rendena i lazzaretti furono almeno tre. Quello di Mavignola, nella valle più alta verso Campiglio, esso fu costituito nella chiesetta di Sant’Antonio abate, tuttora esistente, nella quale sono state trovate delle ossa, alla fine del secolo scorso. All’interno, l’ultimo restauro ha scrostato il leggero strato di calce, che, secondo alcuni, risaliva al tempo della peste «manzoniana». La notizia mi è data come certa dal padre Ermete Rauzi. Comunque, dal Manzoni sappiamo che una precauzione igienica, già contro le «unzioni pestifere», era quella di «imbiancare di calce le pareti».
Nonostante i lazzaretti, sia la dispersione abitativa della gente, sia le scollature organizzative, permettevano, nelle Giudicarie, il fenomeno delle inumazioni «private», non autorizzate e non ecclesiastiche. Nei boschi di Sopracqua – comprendente la Val Rendena da Giustino a Carisolo – furono ritrovate da don Giacomo Viviani, come egli stesso attestò, dal 16 febbraio 1632 al maggio 1632, più di duecento cadaveri nei boschi, sepolti arbitrariamente, che egli «trasportò» nel cimitero di Giustino.
L’opera della chiesa
All’arrivo dei lanzichenecchi, «Don Abbondio, risoluto di fuggire, risoluto prima di tutti e più di tutti», implorava, dalla finestra, i parrocchiani perch lo aiutassero a fuggire; e il Manzoni, comprensivo fino a dare, almeno, l’impressione di compatirlo, fa rispondere tuttavia, con ragionevolezza ed impietosita, ai parrocchiani invocati: «fortunato lei che non ha da pensare alla famiglia; s’aiuti; s’ingegni».
L’atteggiamento di don Abbondio non doveva essere un’eccezione, se, al tempo della peste, il Manzoni parla di sacerdoti che «si ritiravano dall’assistere agli infermi, e di qualcuno che, disertando la sua parrocchia, s’era rifuggito in campagna».
Quanto al Trentino, lo storico Weber scrive: «I sacerdoti lasciarono in abbandono il loro gregge e con lo spavento dei laici fuggirono sopra le montagne in valli remote»; ma era anche vero che «perfino il Principe vescovo di Trento si rifuggiò nel castello di Nanno nella Valle di Non, dove si trattenne per un anno intero contutta la sua corte»: misura precauzionale, alla stregua di «tutti i possidenti [che] si recarono alla campagna in una solitudine rinserrata». Si sa che non ovunque accadde ciò, e vescovi quali quello di Chioggia, o quello di Tortona, solo per indicarne due, seppero trascinare il clero all’assistenza degli appestati del 1630. In ogni caso, il clero di Milano ebbe in Federigo Borromeo colui che «corresse severamente e svergognò» i sacerdoti troppo prudenti, e minacciò «d’interdetto» i renitenti e i fuggitivi. Per primo, egli praticò ciò che scrisse ai parroci: «Siate disposti ad abbandonar questa vita mortale, piuttosto che questa famiglia, questa figliolanza nostra: andate con amore incontro alla peste, come a un premio, come a una vita, quando ci sia da guadagnare un’anima a Cristo».
In sintesi, il Manzoni asserisce: «Dove spiccò una più generale e più pronta e costante fedeltà ai doveri difficili della circostanza, fu negli ecclesiastici», e adduce una prova numerica: «Più di settanta parroci, della città solamente, moriron di contagio: gli otto noni all’incirca», proprio assistendo – egli precisa – gli appestati.
Tuttavia, la presenza della Chiesa non si ferma qui, né nelle Giudicane e nel Trentino in genere, né nel Milanese, poiché il Padre, che provvide sempre «a la milizia» di suo Figlio, «per sola grazia, non per esser degna», anche nel difficile ‘600 «a sua sposa soccorse». Qui consideriamo solo due forze ecclesiali: i francescani e, con un accenno, i gesuiti.
Sui cappuccini della peste manzoniana, qui non facciamo menzione, e rimandiamo al nostro saggio specifico. Ricordiamo soltanto che furon diversi, e che «ci lasciarono la più parte la vita, e tutti con allegrezza».
Nella contea di Arco, in cui tremila persone morirono di peste e poiché «tutti i sacerdoti secolari, eccetto uno molto vecchio», erano deceduti per la stessa causa, e l’arciprete stesso moriva il 26 luglio 1630, vi fecero assistenza i cappuccini.
Si segnalano i padri Silvio da Vestena e Filippo, bergamasco. Il primo, guarito dalla peste, così dichiarò, sotto giuramento, il 21 novembre 1633: «Allora alzai la mente al Signore et alla madre santissima di Loretto, pregandola con ogni affetto, con aggiongervi anche il voto (in quella maniera che poteva) d’andarla a visitare, se nostro Signore mi liberava da quella infermità per salute di quelle povere anime. Et subito fatto il voto, immediatamente fui liberato [da «febbre maligna et petecchie»], e così seguitai per lo spatio di sette mesi in amministrare li sacramenti agli appestati», servendoli «anche ne’ loro bisogni corporali». Egli sopravvisse, dunque, ma soffrendo sempre delle conseguenze fisiche del morbo. Quanto al padre Filippo, medicava gli appestali anche «spremendo marciume dai bubboni», e, stando alla dichiarazione del compagno padre Silvio, guarì qualche malato «con fargli il segno della croce con l’acqua santa». Nel 1631, il padre Filippo continuò l’opera ad Arzignano, dove morì «in servizio degli appestati» nel dicembre 1631.
Ad Arco, furono sei i cappuccini morti compiendo questo servizio: nell’ordine del Cronologio Daniele d’Ala, Liberale da Porlezza Milanese, Paolino da Giudicarie, Giovanni Paolo d’Arco, Daniele da Caprino e Modesto da Rovereto. Nel 1661, il ricordo dei cappuccini, immolatisi per la gente, era «ancora vivissimo fra le popolazioni, le quali ricordavano “le meraviglie del loro operato”», e tramandavano che essi «salivano li monti per accorrere a poveri moribondi, et infallibilmente due volte il giorno visitavano tutte le case con una carità estrema».
Nel Trentino, accolsero le istanze del popolo i Minori Riformati di Arco, in una gara con i cappuccini, per assistere gli appestali a Rovereto. Tra i Minori Riformati, morì di peste il padre Bernardino di Trento, non molto tempo dopo il servizio a Rovereto, nel dicembre 1630; al suo confratello, Macario da Venezia, si unì allora un altro frate.
A Trento opearono moltissimo i gesuiti, tra i quali morirono, per contagio, il padre Paolo Luca della Val di Non, il 4 ottobre 1630, Saracin da Trento, uomo di cultura e superiore della scuola trentina dell’Ordine, e, sempre nel lazzaretto, Stefano Friegen.
Testimonianze attuali
Per fortuna, le Giudicane non hanno avuto la «colonna infame», di cui ha trattato il Manzoni. Restano, in esecuzione di voti della popolazione, gli altari di San Rocco nella chiesa di san Vigilio {Pinzolo), in quella di Santo Stefano (Carisolo), e a Giustino, Caderzone e Rendena, per limitarci alla Val Rendena. A Bocenago sussiste una lapide, poco discosta dal ciglio della strada nazionale, a destra procedendo verso Madonna di Campiglio, con una semplice dicitura che ricorda la «peste del 1630». A Vigo, un capitello porta la scritta: «Per ricordare a noi cristiani che la sola Religione è conforto nelle sventure», e «Pietosa memoria – del funesto contagio – che spopolò la terra»: parole che, sostanzialmente, rispondono alle riflessioni del cappuccino manzoniano Felice Casati. [Francesco Di Ciaccia]
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