1992, Tandem, L’amore infernale
L’amore infernale, «Tandem», 2 (1992) pp. 46-48.
Testo dell’Articolo
Paolo e Francesca, la sfortunata coppia di amanti che Dante incontra nei gironi della perdizione eterna, fanno riflettere da generazioni sulla necessità e sulla forza della passione.
Forse nessun altro brano letterario sull’amore è stato così studiato e letto come quello del canto V dell’Inferno dantesco. Per il vero, il motivo pratico sulla sua notorietà è dovuto al fatto che la Divina Commedia fa parte delle letture scolastiche obbligatorie. Tuttavia la sua forza poetica e la profonda lezione in esso sottesa renderebbero in ogni caso giustizia all’intrinseco valore e al fascino dell’episodio. In una densità poetica pregnante, stringatissima e completa, la storia di Paolo e Francesca condanna forse tutto ciò che sull’amore uomini e donne hanno scritto, continuano a scrivere e continueranno, finché il sole risplenderà sulle sciagure umane. Il primo dato che emerge nella concezione dantesca dell’amore, riproposta dopo il Guinizelli, è l’imperiosità, la necessità, la sublime intimità e la reciprocità di quello speciale movimento sentimentale tra uomo e donna che va sotto il nome di amore.
L’imperiosità. L’amore non nasce da una scelta calcolata. Non dipende da quei giochi del mondo che il pensiero logico e razionale può gestire a suo piacimento ed è abituato a indirizzare secondo il suo cervello. L’amore viene dal profondo: nessuno sa esattamente da dove, né come né perché. Come un dio. Non per nulla nella Vita Nuova Dante così si esprime: «Ecce deus fortior me, qui veniens dominabitur mihi». E non per nulla qualcuno, anche recentemente – come Caterina Jacobelli dell’Associazione dei teologi italiani – ha riproposto la concezione per cui l’amore sentimentale, quando è veramente intimo ed unitivo, costituisce l’immagine reale più congrua della vita divina.
Quest’amore infatti, che dantescamente è il «dio che viene», ha come unica regola quella di Dio: è «più forte di me», della mia paura, della mia età, della mia condizione sociale, della mia incuria, del mio progetto,.del tornaconto: tutti calcoli legittimi che l’umanità ha codificato in propria difesa, ma nessuno dei quali basta senza quel sentimento a giustificare un’unione.
E se quel «deus», quel sentimento d’amore si fa sentire, è, per contro, sempre lecito? Ovviamente no, per Dante, come ha ben precisato Umberto Bosco, secondo il quale, anzi, Dante in questo episodio avrebbe ripensato alla teoria dell’amore stilnovista: l’amore affettivo, per quanto «gentile», è sempre insidioso, perché, invece che restare su un piano spirituale come mezzo di elevazione dell’anima, diventa facilmente passionale. Ad ogni modo, proprio dall’irresistibile ed imperioso sentimento d’amore nasce il primo movimento, sublime e tragico, di Paolo e Francesca: «Ma dimmi», chiede Dante lacrimoso e pio: «al tempo de’ dolci sospiri / a che e come concedette Amore / che conosceste i dubbiosi disiri?» (vv. 118-120). La caduta, per dirla così, dal sentimento affettivo al bacio carnale fu occasionata dalla lettura del brano romanzesco, in cui si leggeva come Lancillotto baciasse Ginevra: e qui Dante condensa in modo splendido la fenomenologia dell’attrazione fisica. Ma noi vogliamo individuare le altre caratteristiche interiori dell’amore, anteriori al bacio.
La necessità: «Amor, (…) al cor gentil ratto s’apprende» (v. 100). La gentilezza di cui parlavano gli stilnovisti e qui Dante per bocca di Francesca, non consisteva nella nobiltà del sangue, come era per la cultura cortese, ma nella nobiltà dell’animo. Ma in che cosa era fatta consistere questa conclamata nobiltà dell’animo? Era la prospettiva secondo cui l’amore, liberato dal gioco mondano delle convenienze e del tornaconto – fosse esso economico o carnale, o politico, o altro – era restituito alla sua originaria natura, quale Dio, che è Dio d’Amore, aveva creata simile a sé: e cioè «auto-riconoscimento» di sé nell’altro e dell’altro in sé.
Ecco dunque la reciprocità: «Amor, (…) a nullo amato amar perdona» (v. 103). L’amore non ammette a nessuno che sia amato di non amare a sua volta. È da notare che qui si è del tutto lontano dal volontarismo: non si tratta di ricambiare un piacere per decisione mentale, per un deliberato razionale. Non è questione di buon volere: è proprio uno scambio esistenziale, un vissuto intrinseco all’atto stesso di sentirsi amato. L’amore è, appunto, questo stesso incontrarsi, e pertanto non è una decisione. L’amore è un non-voluto: perché è un immediato vissuto.
È questa la forza straordinaria dell’amore. Quella di Dio, per cui una persona «vede» l’altra, e viceversa, «insieme», e in questo «vedersi» esse si «riconoscono», si autoidentificano come l’una-e-1’altra. Non già l’una «con» l’altra: ma l’una-e-1’altra come unità.
La sublime intimità. La natura originaria dell’amore è una coinvolgente compartecipazione attrattiva, vissuta nel più profondo della persona, tra uomo e donna. Pur partendo dai sensi – «mi prese del costui piacer sì forte (v. 104)» – investe l’intimità esistenziale. L’amore non è mentale, ma neppure originariamente carnale: è dell’intimità dell’essere, coinvolgimento dell’intera persona nella sua completezza e nella sua armoniosa compresenza della parte maschile o della parte femminile che sono in ogni persona umana.
Ed è solo allora che l’uomo e la donna riconoscono che quel che provano è un sentimento fatale, un’unione incancellabile, è un essere assieme da sempre e per sempre, lui con lei, lei con lui. Ed è allora che l’amore s’impone come un immediato necessarium: i «progetti» per il mondo sono al di qua e al di là, ma non dentro l’amore. L’amore è un unicum esistenziale che trasforma l’uomo e la donna rendendoli perfetti, compiutamente se stessi. Questo è il senso dell’annuncio dantesco della Vita Nuova: «Apparuit iam beatitudo vestra». L’amore è «beatitudine» perché è pienezza di vita interiore: cioè, non solo mentale e razionale, o solo fisica e sessuale. È «rinascimento» dell’essere umano che nell’amore riconosce pienamente se stesso e se stesso nell’altro essere umano, assurgendo così a persona completa dal di dentro.
Forse il nostro modo di pensare l’amore si è allontanato troppo dalla sua vera natura, che una cultura di «istituzionalizzazione dell’amore» ci fa invece mettere in relazione a progetti razionali e razionalizzabili. L’amore è pensato innanzi tutto nella dimensione della oggettività mondana: età, condizione sociale, eventuali servizi, figli. L’amore, immaginato consciamente e inconsciamente come valore del «di fuori», evade dalla sua natura originaria.
Pietà per gli amanti…
La vera colpevole sarebbe la società che per motivi politici condanna ad infelici matrimoni di convenienza.
Perché tanta pena per Paolo e Francesca? Sulla lezione etica dantesca, la riflessione diventa più complessa. La prospettiva dell’autore si trova in una difficile tensione tra le ragioni del cuore e le ragioni morali. L’equilibrio tra i due poli risulta così delicato, che ha permesso contrastanti interpretazioni nel corso dei secoli: in sintesi, quella che vede soprattutto, o quasi soltanto, la «pietà» non solo partecipe ma anche giustificatrice dell’amore tra i due sventurati, e quella che punta sul giudizio di condanna.
Oggi si tende a mediare tra le due posizioni, anche se le motivazioni variano secondo i diversi punti di vista critici. Sulla questione si può fare tuttavia un ulteriore passo avanti. Soprattutto i Romantici, esaltando il valore essenziale ed esclusivo dell’amore in questo brano dantesco, hanno ritenuto che il giudizio morale fosse stato eluso, escluso o addirittura superato da un autore pur allineato al codice della morale vigente. Il Foscolo ad esempio ha scritto che la compassione mostrata dal poeta di fronte al pietoso caso infernale di Paolo e Francesca ne estingue ed annulla «ogni tinta d’impudicizia, d’infamia e di colpa». Al contrario, sotto l’influsso della critica della seconda metà del nostro secolo, che ha riflettuto di più sull’impianto etico e teologico di tutto il poema, si è arrivati ad ammettere che, pur fortemente emotiva, la simpatia dantesca per gli sfortunati amanti non elimina il giudizio morale, anzi lo conferma e lo rafforza. Come scrive Angelo Marchese, attraverso questo episodio Dante ripercorre il proprio passato, prende coscienza dell’equivocità dell’amore e in particolare stigmatizza la mistificazione letteraria dell’amore.
La posizione – per chiamarla così – assolutoria dell’atto amoroso di Paolo e Francesca poggia sulla premessa ideologica secondo cui l’amore è un sentimento irrefrenabile e necessitante, cioè un vissuto essenziale estraneo al dominio razionale. L’amore è ineliminabile e al contempo è sublimante. Ciò è senz altro vero: ma bisogna aggiungere qualcosa che sfuggiva ai Romantici, e cioè che per Dante l’attrazione affettiva e sensibile rappresenta un valore insostituibile e sovrano, solo se si muove nel «cuore» come immagine interiore dell’amore universale. L’innamoramento tra un uomo e una donna «gentili» è segno e mezzo dell’apertura all’amore in quanto tale, al di qua di ogni caratterizzazione individualistica.
Però, anche senza l’intervento «galeotto» del romanzo erotico, l’atto carnale sarebbe stato comunque per Dante peccaminoso. Ma allora, appunto, perché tanta «pietà»? Forse perché i malcapitati vi sono stati indotti quasi loro malgrado, cioè spinti ab extrinseco, dalla letteratura erotica? Forse c’è un’altra ragione. I due meritano «pietà», non solo perché a condurli al «doloroso passo» furono proprio i «dolci pensier» e il gran «disio»; non solo perché fu proprio «Amor», il più bel sentimento in cui consiste la vita, e umana e divina, a portarli insieme «ad una morte» ed all’inferno, ma, concretamente, perché, innamorati per impulso spontaneo e genuino d’«Amor» sovrano, non potevano tuttavia abbandonarsi ad esso a causa di una situazione contingente: la situazione mondana dello stato coniugale. Vero è che, per l’amore stilnovista, l’essenziale era la dimensione emotiva e spirituale che, unendo due anime, le congiunge intimamente nell’esperienza dell’affettività piena e totale. Tuttavia, l’esclusione della sessualità non era un principio originario: era un adeguamento alla norma secondo cui il matrimonio era l’unica situazione nella quale la sessualità era lecita. A sua volta, però, le condizioni reali secondo cui si stipulavano le unioni giuridiche matrimoniali erano normalmente di convenienza, cioè aliene dalla natura dell’amore. Le storie d’amor tragico lo confermano. Quello di Francesca in particolare era un contratto matrimoniale sancito per ragioni politiche, quindi aliene dalle sovrane ispirazioni del cuore. Stando alla cronaca antica, Francesca, figlia di Guido da Polenta, signore di Ravenna, era stata data in sposa a Gianciotto Malatesta, signore di Rimini, per stabilire la pace tra i due potentati.
Non sarebbe un caso isolato, quello in cui Dante prende posizione contro le prassi accreditate dal mondo e contro le convenzioni sociali, ritenute anche morali dal potere che ha radici nella struttura economicistica della società. A proposito delle scelte vocazionali, egli esplicitamente condanna che, per motivi di potere e di interessi camuffati magari di sacralità, «(…) voi torcete a religione / tal che fia nato a cingersi la spada, / e fate re di tal ch’è da sermone: / onde la traccia vostra è fuori strada» (Paradiso, VIII, 144-148). In altri termini, Dante duramente colpisce ciò che s’era sempre fatto, e forse si fa tuttora a volte: instradare i figli, per la professione e per la loro vita, non già secondo le loro predisposizioni naturali e le doti innate, ma secondo criteri di interesse, vuoi economici, vuoi politici o d’altro genere. Si potrebbe obiettare che Dante non fa salvi Paolo e Francesca. E come avrebbe potuto patire di più, e compatirli di più, che nell’inferno? E con una pietà straziata quanto il loro strazio? [Francesco Di Ciaccia]
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