Calloni, Francesco, Ultima Cena

Francesco Calloni, Ultima cena, fotografie di Fernando Mattaboni, Gorle, Velar, 2009.

 

Calloni, Ultima Cena, Copertina
In copertina: fotografia di Fernando Mattaboni

Testo della Introduzione-Presentazione

Ciò che colpisce in modo forte, in questa Cena che già al primo sguardo appare estremamente originale, sono due caratteristiche all’apparenza opposte: la natura sacramentale dell’evento, evidenziata dai paramenti “sacerdotali”, e la laicità – nel senso della naturalità di vita – di alcuni elementi, sottolineata dagli indumenti quotidiani. Ciò esprime l’idea che l’una e l’altra dimensione si compenetrano intimamente. In questa confluenza d’essenza e di valore si stagliano i diversi ruoli.

Le figure della laicità si impongono, per giunta, in quanto poste in primo piano: a parte Giuda, sono la Madonna e Maria di Madgala. La Madonna, col vestito da massaia-mugnaia, di panno rude da comune donna di campagna, indica che la sua funzione coincide con la sua stessa personalità; e i vivaci colori del grembiule, la civetteria dei lacci azzurri sugli zoccoli e delle calze rosse accordate col rosso della sciarpa rimarcano la sua naturalezza. L’abbigliamento della Maddalena proietta il personaggio addirittura nella sua fase peccaminosa. Ma è la presenza in sé di donne in una Cena del Giovedì Santo – caso unico, nella storia dell’arte – a costituire l’elemento sostanziale di laicità.

Per contro, si ha il primo esempio di discepoli che vestano paramenti da messa. Per il vero, la Cena fu spesso rappresentata come evento sacramentale, con il Cristo che consacra non il pane ma l’ostia, e magari la somministra agli apostoli inginocchiati come nell’uso della liturgia (nel ‘500, Giusto di Gand; nel ‘700, il Tiepolo, che elimina la tavola e inserisce turiboli d’incenso e lampada del Sacramento), a ribadire la Presenza reale di Gesù eucaristico. Nella presente Cena, l’elemento sacerdotale ha forse lo scopo, invece, di significare che gli apostoli svolgono una funzione come investitura aggiuntiva alla loro identità naturale. In effetti, i discepoli-sacerdoti conservano la loro naturalità, che serve a illustrare i diversi atteggiamenti di fonte al mistero eucaristico.

Alla sinistra dell’osservatore, vicino alla finestra, unica fonte “esterna” di luce, appaiono tre personaggi in stretto rapporto tra loro. L’uno, al lato estremo della tavola, guarda Gesù con un’aria scettica, sospettosa, sottolineata dalla faccia completamente in ombra, e sembra chiedersi: «Ma sarà vero!?», come chi, secondo Dante, dietro a Cristo «si movea tardo, sospeccioso e raro» (Paradiso, XII, 39). Tuttavia, il colore bianco che lo avvolge luminosamente gli imprime un alone di positività: il dubbio su ciò che supera incommensurabilmente la natura rientra anch’essa nella dimensione umana. Un altro personaggio, che gli è seduto accanto e gli è rivolto completamente con il corpo, mostra totale indifferenza: ha appena girato la testa verso Gesù, ma quasi dicendo al compagno: «E che! Stiamo qui a sentirlo?!». L’intrecciarsi delle dita, tra lo svogliato e l’insofferente, sottolinea il disinteresse per ciò che il Maestro sta compiendo. Ma sovrasta i due personaggi, formando con loro una triade piramidale, un altro discepolo che, in piedi tra loro, preme sul petto il palmo della mano, quasi dicesse: «Io credo. E do la mia parola: sono determinato a credere!». È l’immagine di chi ha la fede radicata nella speranza, la quale crede contro l’evidenza, poiché «speriamo quello che non vediamo», dice Paolo apostolo (Romani, 8, 24-25). Il personaggio, che coerentemente campeggia con la pianeta verde, è rapportabile all’apostolo Giacomo, cui tradizionalmente si attribuisce la virtù della speranza – come sa bene Dante, che sulla speranza fu interrogato da lui. E il volto scavato dà l’impressione che egli cerchi di scuotere i compagni e soffra per la loro titubanza e indifferenza.

Al lato opposto della tavola, altri tre personaggi in formazione piramidale. È il gruppo dei “santi”, ben riconoscibili: Cecilio da Costaserina, Innocenzo da Berzo, Pio da Pietrelcina. Cecilio, fratello non chierico, dall’atteggiamento umile, ha le mani aperte nell’attitudine del mendicante che riceve – il capo teneramente inclinato in avanti e piegato un po’ da un lato – e del benefattore che dona, illustrando un carisma del frate storico e del personaggio della Cena: l’invito della povertà a camminare verso il suo “sposo”, come ha cantato stupendamente Dante: «La provedenza, […] / però ch’andasse ver lo suo diletto / la sposa di colui ch’ad alte grida / disposò lei col sangue benedetto, / in sé sicura e anche a lei più fida, / due principi ordinò in suo favore» (Paradiso, XI, 28, 31-35). Si tratta di quella povertà che, secondo l’interpretazione francescana e poi dantesca, si coniuga con l’amore per il prossimo. In effetti, il personaggio sembra attendere l’osservatore ed invitarlo a unirsi ai due che gli stanno accanto. Costoro sono atteggiati ad un momento della celebrazione della messa, ma ciascuno rivela un particolare mondo interiore. Innocenzo da Berzo ha lo sguardo che sembra guardar lontano in modo penetrante: a me ricorda quello che vedeva San Francesco, quando diceva nel Testamento, a proposito di Gesù, di non vedere, «corporalmente, in questa terra, se non il corpo suo ed il suo sangue», nell’Eucaristia. Cuspide della piramide, lo stigmatizzato del Gargano. La stigmatizzazione unisce al sacramento del corpo e del sangue del Signore il sangue delle piaghe mistiche, le quali costituiscono una conferma della partecipazione alla passione di Gesù, come fa intendere Dante a proposito di San Francesco: «da Cristo prese l’ultimo sigillo» (Paradiso, XI, 107).

Vicino a Gesù, tre personaggi sono in colloquio tra loro in modo molto espressivo. Fino al Rinascimento, gli apostoli della Cena sembrano impassibili; in seguito, sembrano agitati: l’animata discussione verte, spesso, sull’affermazione di Gesù: «Uno di voi mi tradirà», come nella Cena di Leonardo; e all’epoca delle dispute teologiche tra cattolici e protestanti le domande riguardano la Presenza reale di Gesù nell’Eucaristia. In questa Cena, il quesito concerne le parole del Maestro, che sollevano domande tra i presenti, quali: «Ma che cosa intende dire? Tu lo capisci?». Al centro della triade, anche qui, c’è chi risolve gli interrogativi dei compagni – rivolti intensamente verso di lui –, accettando ciò che il Maestro sta compiendo e confidando in lui: le braccia aperte, con la gestualità che si estende sugli altri due, quasi a coinvolgerli, lo evidenziano.

Tra costui, dalle braccia allargate alla fiduciosa accettazione, e l’apostolo della speranza si coglie una virtuale connessione. Si immagini, semplicemente, che il braccio di Giacomo sia tenuto allargato, invece che stretto al petto: sarebbe sulla traiettoria dell’apostolo dalla fiduciosa accettazione (anch’egli con la pianeta verde!). Di fatto, tuttavia, il braccio di quest’ultimo verte verso Cristo. Al di là di Cristo, le figure fondamentali della fede e della carità: Pietro e Giovanni.

Pietro, dalla pianeta aurea, simbolo della fede, è connesso con il discepolo della speranza, per la leggera reciproca inclinazione della testa. Ma il capo di Pietro sembra ruotare anche verso Giuda; anzi, i due, con le braccia, quasi si toccano. E proprio ciò ne fa esplodere il contrasto. Il colore aureo contrasta con la sciattezza del traditore, ma sono soprattutto i due volti a fare da contrapposizione: Pietro, dall’altra parte della tavola rispetto a Giuda, è polarizzato tutto su Gesù – con gli occhi fissi su di lui, quasi dicesse: «Tu sei il Cristo, il figlio di Dio» –, con aria beata e insieme compiaciuta che riflette la sua posizione tra i discepoli, per la quale egli è «la primizia / che lasciò Cristo de’ vicari suoi» (Paradiso, XXV, 14-15). Giuda, invece, ignora completamente il Cristo. Accanto alla figura della fede, la figura dell’amore: rosso acceso! Giovanni siede accanto al Maestro, come per tradizione ininterrotta; e ciò basta a tradurre l’espressione ebraica: «appoggiato presso il petto di lui», che significa esattamente «avere il posto d’onore». La raffigurazione che pone il suo capo adagiato sulla spalla di Gesù, recepita da alcuni pittori e dal poeta Dante – «Questi è colui che giacque sopra il petto» di Gesù (Paradiso, XXV, 112) –, rappresenta la traduzione visiva della frase idiomatica ebraica. In questa Cena, Giovanni è illustrato per quale è nella vita della Chiesa. Esprime sottomissione a Pietro – la carità cristiana si fonda solo sulla fede in Cristo! –, verso il quale è chinato con profonda dedizione; e la sua mano, tenuta da quella di lui, è poggiata sul libro con la dicitura: TU SEI PIETRO, mentre l’altra indica Maria, come a dire all’osservatore: «Quivi è la rosa in che il verbo divino / carne si fece» (Paradiso, XXIII, 73-74).

La Madonna! La madre di Gesù è naturalmente umana. Di fronte al mistero cui sta assistendo, resta stupita, come quando il figlio, dodicenne, si era eclissato per recarsi al tempio: la mano sulla bocca… Ed è materna, per quello sguardo fisso ed estasiato su quel pane: è il pane – il corpo – di suo figlio! Lo guarda, con intensità, come guarderà, straziata, il corpo in croce. Ed è materna anche come mediatrice: con l’altra mano indica lo spettatore, come se dicesse: «Che questo corpo e questo sangue siano per loro». Dunque, proprio nei suoi abiti della quotidianità questa Madonna svolge la funzione così cantata dall’Alighieri: «La tua benignità non pur soccorre / a chi domanda, ma molte fiate / liberamente a dimandar precorre»(Paradiso, XXXII, 16-18).

Accanto a lei, una figura mai vista in una Cena: la Maddalena. E non in un cantuccio, magari tra le inservienti di qualche cena immaginata in una bettola; né in atteggiamento estatico come in un raptus di divina beatitudine: costituisce, addirittura, una triade piramidale con la Madonna e con Gesù. E siede nello stesso sgabello della madre del Signore! Sul piano figurativo, la Madonna la “copre” con la sua ombra, quasi la tenga sotto il suo mantello, mentre la Maddalena riceve luce dal volto di Gesù: perciò, non mostra di vergognarsi; né si dibatte fra gli strazi di tante “maddalene” dell’arte sacra: semplicemente, guarda supplichevole Gesù. Ma il rapporto decisivo tra le due donne è dato dal fatto che il primo contatto della Madonna è con lei. Il significato è chiaro: se Gesù donerà il corpo e il sangue per i peccatori e lascerà il suo sangue e il suo corpo nell’eucaristia, sua Madre ha a cuore i peccatori. I quali sono tutti gli esseri umani; ma, in particolare, chi è peccatore più degli altri! Dunque, la Maddalena è al posto giusto, in questa ultima cena del Signore.

Se pregna di significati è la polarità Madonna-Maddalena, anche Giuda attira l’attenzione. Negli altri autori della Cena, Giuda è quasi sempre rappresentato staccato dai compagni – in genere, su un lato della tavola diverso dagli altri – ed escluso dalla luce emanante da Gesù. Lo anche in questa Cena; ma con caratteristiche differenti. Nel Medioevo, quando ad essere simboliche erano le proporzioni, poteva essere dipinto piccolissimo; nel Barocco, quando imperavano i contrasti chiaroscurali, era spesso identificato dalla posizione tenebrosa. In questa Cena, Giuda è nell’ombra, ma si impone per la posizione in primo piano e per la dimensione accentuata – come quella delle due donne! – e si vivacizza per l’atteggiamento sfacciato che lo qualifica come «anima ria» (Inferno, XIX, 96): guardando il visitatore, si gratta i piedi. Il vestito laico assume, qui, significato negativo, a differenza della Madonna e della Maddalena: se, per le donne, il vestiario quotidiano corrisponde alla loro naturalità, per Giuda è segno della sua separazione dai discepoli di Cristo.

Tra gli apostoli con Gesù stesso, tutti da un lato della tavola, e i tre personaggi in primo piano c’è un tavolato grezzo e nudo: su cui c’è solo la coppa del vino benedetto – peraltro abbondante, a ricordare che si trattava, come il pane in mano a Cristo, proprio di bevanda e cibo da consumare.

Dall’epoca delle catacombe fino al Medioevo, l’Eucaristia era raffigurata con la semplice Fractio panis: la benedizione del pane e del vino e la frazione del pane. Il contesto della mensa preparata per il pasto e dei commensali cominciò ad apparire dal Medioevo. Nel Rinascimento si aggiunsero elementi che adeguarono l’evento ad un banchetto tipico dell’epoca in cui era realizzata l’opera e del ceto dei committenti. A differenza della Cena di Leonardo, pregna di valori spirituali, quella dell’allievo Gaudenzo Ferrari propone il solito ambiente signorile, che diviene prorompente, nel tardo ‘500, con il Veronese: il convito è inserito in un loggiato con palazzi, tappeti, orchestra, vetri di Murano, tovaglie preziose, “invitati” in sfarzosi abiti, argenteria sopra la tavola, cani e gatti sotto, servi, negretti, pappagalli esotici… L’influsso degli usi e costumi dell’ambiente del pittore è evidente anche in un contesto ben diverso, quello alpino delle Cene dei Baschenis de Averaria. tra il ‘400 e il ‘600: sulla tavola ci sono, sempre, gamberetti di fiume, cibo povero frequente nei torrenti montani. Nella sua Cena, Francesco Calloni riflette il suo ambiente nella configurazione degli apostoli: sono i tre “santi”, notoriamente cappuccini, e sono i sandali tipicamente cappuccini. E indulge ad un autoritratto, peraltro arguto: sotto lo sgabello di Giuda. A parte ciò, questa Cena propone la sostanza teologica dell’avvenimento, secondo l’ispirazione leonardesca ma con diverso approfondimento: è l’immagine di Cristo che campeggia. In piedi. Nudo! Che si fa pane e vino, “memoriale” della sua morte. Sulla croce!

Non c’è altra figura, in questa Cena, che sia, per siffatta configurazione atipica ed icastica, più sacramentale e insieme laica. Sacramentale, perché scolpita nella essenzialità dell’atto eucaristico; laica, perché questo Cristo nudamente in croce, che non presenta segni ieratici di distinzione – quale l’aureola nella Cena del Tintoretto –, ha di divino solo ciò che la fede crede senza vedere; figurativamente, ha tutto di umano, compresa la concentrazione interiore che compare nella generalità delle Cene. Il suo volto – ciò che mi ha colpito di più – è quello di un qualunque uomo. Egli è diventato davvero “uno di noi”, come dice Giovanni evangelista. E se la sua immagine quasi si schiaccia, per come è ombreggiata, sullo fondo senza tempo e senza spazio, come per un personaggio metastorico, il piede che risalta, illuminato, sotto il tavolo e ben piantato in terra lo riporta nella storia, e nella storia di ciascun tempo e di ciascuna persona che osserva questa Cena. Cristo è con noi. Nel pane e nel vino benedetti e consacrati (non numerato [in realtà, fogli 1-4]). [Francesco di Ciaccia]

 

 

 

 

 

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