1990, Circolod.Stampa, Misticismo e mistificazione

Misticismo e mistificazione, 13 gennaio 1990, Circolo della Stampa, Milano, in Literary.it, 5 (2012).

Testo della Conferenza

Il concetto di mistica

L’essenza della mistica rientra in un processo che cerca la verità fondamentale – detta trascendenza – dell’essere e della vita, al di là del mondo dei fatti – detto fenomenico.

Tale processo non è né irrazionale né soprannaturale, ma transrazionale: non consiste né in un potenziamento dell’affettività, né in una fede, ma in un graduale procedere della sapienza che introduce, al suo termine, in una comprensione immediata, cioè non logica e razionale, dell’Unità di tutto. L’esperienza di questa Unità Originaria, che si colloca al grado supremo della mistica e che è detta “unio” (unione) con l’Assoluto, anche detto Tutto, Uguale, Semplice, Unico – o lo si può dire Dio -, può essere raggiunta attraverso molte vie: o per una rivelazione soprannaturale o per un’estasi naturale (nel senso che è estranea a qualunque confessione religiosa), che comunque oltrepassa l’io, il mondo e le cose e arriva a comprendere il senso profondo dell’io, del mondo, delle cose (cfr. Stadelmann, pp. 161-162).

Ribadisco e sottolineo che per “mistica” è da intendersi sia quella sperimentata in ambito cristiano o comunque in ambito confessionale (quale nell’ebraismo, nell’islamismo), sia quella sperimentata, più ampiamente, in ambito religioso naturale (come nelle religioni animista, induista, ecc.).

Da ciò si capisce come la mistica scorra parallela alla storia dell’uomo, altrettanto quanto la “industriosità” dell’uomo. L’uomo infatti si struttura in queste due tendenze: 1’una “fabbricante”, l’altra contemplante. L’una si applica alla molteplicità, compresa quella dei valori morali e religiosi, come le forme di giustizia, le forme di bellezza, le forme di bontà, ecc.; l’altra tende all’unicità, a ciò che è il Tutto, in cui non c’è distinzione.

L’atteggiamento mistico, in sostanza, “re-cede” (etimologicamente, “si allontana da”) dal molteplice – l’esperienza mistica, tra l’altro, sul piano della preparazione concreta è, in genere, preceduta dalla “ascesi”, da un allontanamento fisico dal mondo, dal ritiro in luoghi appartati – e “ac-cede” (etimologicamente, “si avvicina a”) all’Unico, all’Identico, all’Uguale, al Semplice: a quell’Originario, cioè, in cui il superiore e l’inferiore, il grande e il piccolo, il massimo e il minimo, il finito e l’infinito non hanno significato, in quanto il Tutto è puramente Se stesso e il Se stesso è Tutto.

L’idea dell’allontanamento dal molteplice, a livello dei più alti gradi della mistica come essenza della mistica stessa, e congiuntamente l’idea dell’avvicinamento all’Originario – quasi fino ad una certa immedesimazione con l’Originario medesimo – mi sembrano espresse bene in un trattato attribuito al Meister (Maestro) Eckhart – il cui concetto di mistica era quello di un assorbimento quasi totale del finito nell’Infinito, quasi di una fusione del contemplante con la realtà assoluta dell’essere. Una mistica dichiara: “Non ho niente a che fare con angeli e santi, né con tutto quello che è stato creato. […] Là dove io mi trovo nessuna creatura può giungere in un modo che appartiene alle creature. […] Io mi trovo dov’ero prima di essere creata; in questo luogo c’è solamente Dio in Dio. Non ci sono angeli, né santi, né cori, né cielo”.

E a proposito della impronunciabilità dell’oggetto della mistica: “Ciò che ho vissuto, nessuno può metterlo in parola. […] non ho niente a che fare con tutto ciò che è diventato parola. […] chi si accontenta di ciò che si può mettere in parola – Dio è una parola, e ‘regno dei cieli’ è una parola – chi con le forze dell’anima, con la conoscenza e con l’amore non vuole andare al di là di ciò che è stato reso parola, costui a buon diritto dev’essere chiamato miscredente. Tutto ciò che si mette in parola lo capiscono i sensi inferiori o forze dell’anima; ma non se ne contentano le potenze superiori dell’anima, le quali si spingono sempre più lontano, fino a pervenire al cospetto dell’Origine donde l’anima è scaturita”.

Misticismo e ritualità

Allora è chiaro che mistico è colui o colei che non può credere in un “questo” o in un “quello” come valori definitivi; il mistico non può fermare il suo cammino qui, cioè in questo suo attimo in cui definisce se stesso e le cose e gli altri come determinato bene o determinato male, non può accontentarsi di qualcosa che sia circoscritto razionalmente: non abita in nessun momento di se stesso, passa i luoghi e passa il tempo, e li perde, e il desiderio di un ulteriore Altro, o l’Uguale, crea in lui un eccesso di attesa (cfr. de Certeau, pp. 404-405). Ma questo Altro è anche ciò che l’uomo ha perduto: ha perduto il “luogo”, cioè, in cui l’essere – e nell’essere rientra l’uomo – possa essere pienamente se stesso, conforme all’Uguale, al Semplice, all’Indifferenziato. Il mistico cerca proprio ciò: il Perduto.

Egli ne ha “nostalgia”: la mistica è essenzialmente “nostalgia”, afferma Michel de Certeau, uno dei maggiori esponenti della storiografia contemporanea (1925-1986).

Etimologicamente, il termine “mistico”, come “mistero”, discende dalla radice greca “myein”, che indica “chiudere (la bocca)”, “tacere”, a sua volta nel senso della radice sanscrita “mush”, che connota “rapimento”. Misticismo è essere a tal punto presi dalla totalità che trascende ogni differenza, da non poterla dire, poiché tutto ciò che l’uomo dice, lo dice distinguendo. E tuttavia l’uomo sociale e razionale ha cercato sempre di rendere anche l’esperienza interiore un fatto pubblico, giuridico, regolabile, tanto che già nel mondo classico “mistici” erano i riti sacri: appunto, detti “misteri”. C’erano, sì, gli aruspici e le Sibille, ma come funzionari pubblici, i quali, come pure in altre culture, anche semitiche, dal “nume” sapevano soltanto quello che si doveva oppure non si doveva fare, secondo la procedura medesima che vige nel diritto, nell’economia, nell’ingegneria, nella preparazione dei cibi, insomma secondo la logica della organizzazione razionale – la quale distingue, categorizzando – del mondo.

È indicativo che la rivoluzione operata da Gesù di Nazareth rappresenti un tentativo di rompere il meccanismo di ritualizzare il mistero, di strappare al rito il concetto di mistero. Il mistero è solo il rapporto con l’Identico o l’Uguale, mentre il rito è solo un mezzo mondano, cioè che appartiene al fenomenico, al molteplice. Per Gesù, il rapporto con l’Unico, l’Identico, l’Uguale o il Semplice è infantile, cioè è conoscenza immediata, speranza veggente, amore infondato sul piano razionale, cioè non spiegabile e non giustificabile. Difendendosi da chi lo accusava di non essersi purificato, Gesù chiese, secondo un autore della letteratura cristiana delle origini: “E tu sei puro?”. “Certo. Ho fatto le abluzioni, sono salito per la scala (giusta), sono sceso per la scala (giusta), ho indossato gli abiti (giusti)…”. Non farmi ridere – avrebbe risposto in sostanza Gesù -: il pulito e lo sporco (rituali) sono categorie del mondo, non dell’Uguale. Allo stesso modo, dicendo che soltanto chi sarebbe diventato bambino avrebbe avuto accesso al Regno, intendeva parlare dell’atteggiamento di chi non distingue il giorno fas – sacro – da quello nefas – non sacro -, di chi non distingue l’una mano dall’altra, il maschio dalla femmina, ma mira all’Uguale, all’Unico, al Semplice. E a Salome – la madre dei figli di Zebedeo, che erano Giacomo e Giovanni -, la quale gli chiedeva: “«Tu chi sei?»”, rispose: “«Colui che proviene dall’Uguale»” (cfr. Moraldi).

Con la restaurazione politica del Papato e con la riforma amministrativa del clero operata dal Concilio Lateranense III (1179) – lo afferma Michel de Certeau (p. 132) – l’istituzione ripropose una mistica del visibile ritualistico, mediante il rafforzamento di pratiche liturgiche (ad esempio, anche la generalizzazione della confessione auricolare, che negli immediati secoli precedenti si era andata sviluppando all’interno dei monasteri, rientrerebbe nel tentativo di incanalare il misticismo in prassi controllabili, cioè in ritualità). Questa linea contribuì a dissociare “mistico” e “credente”: la categoria del “mistico” interessò alcune cerchie di persone, che generalmente vivevano appartate e che poterono vivere esperienze contemplative anche elevate; quella del “credente” denotò la generalità dei fedeli.

Infatuazione e diffidenza

La convivenza di esperienze ascetiche (mortificazioni corporali, digiuni, flagellazioni, vita solitaria, pratiche di silenzio, ecc.), spesso connesse alla normale consuetudine del credente, e di esperienze mistiche era stata per lungo tempo così stretta, che di mistica neppure si parlava. Si parlava di “contemplazione” e di esperienza “spirituale”, tanto che si trattasse di ascesi, quanto di estasi e rivelazioni interiori. Così fu nel Medioevo, come in Bernardo da Chiaravalle (1090-1153), in Bonaventura da Bagnoregio (circa 1217/1221-1274), in Tommaso d’Aquino (1225-1274) e addirittura in uno dei maggiori maestri mistici dell’epoca, denominato doctor divinus, Jan van Ruysbroeck (Giovanni di Ruysbroeck) (1293-1317), e così continuò ad essere persino agli inizi dell’età moderna, almeno entro una certa scuola (quella della devotio moderna, come in Tommaso da Kempis, circa 1380-1471). Il termine “mistico” indicava semplicemente una maniera “spirituale” di intendere le parole e le immagini del mondo, cioè un’allegoria delle verità soprannaturali (“rosa mistica” in Dante, ad esempio; “vitis mystica” di Bonaventura, ecc.). Fino allora, la mistica come fenomeno o stadio della vita spirituale neppure era nominata: si parlava semplicemente di vita contemplativa o, per indicare i suoi stadi più alti, l’“apice della contemplazione”.

Il ‘400-500 fu poi invaso da una vera e propria passione per l’esoterismo, sollecitato dalla riscoperta della cultura classica e in particolare di quella platonizzante e plotiniana. Le esperienze mistiche genericamente intese (visioni strane, glossolalie, premonizioni sul futuro, ecc.) si diffondevano a dismisura. La medicina e la fisica si accompagnavano all’astrologia e alla magia; e non è che la magia fosse mistica; ma, ormai, tutto ciò che sorpassasse le presumibili forze e capacità della natura rientrava nel mistico-misterico.

Al misticismo il ‘600 aggiunse modalità esagerate, dalle visioni di angeli, con determinati colori dei capelli, a quelle con i Cristi e le Madonne con certi abbigliamenti: la mistica sembrò anticipare una boutique di stilisti d’alta moda o precorrere il vezzo delle visioni di alieni e di “entità” (indimostrabili o comunque non dimostrate).

Mi piace citare brevemente, per quanto riguarda la boutique “celeste”, una mistica – tale, secondo Federico Borromeo -, Caterina Vannini senese, la quale, intorno ai primi anni del secolo XVII, così vide abbigliati il Padre e il Figlio: “[…] il Padre si mostra in habito pontificale, il figlio in habito rosso, et turchino come andava in terra, se bene secondo le festività et solennità che sono quaggiù si mostrano in diversi modi” (Saba, Lettera 117).

Allora si capisce come la mistica fosse definita “l’esperienza di ciò che è fuori dall’ordinario”. Noi trattiamo “qualunque cosa contrassegni lo straordinario, cioè la mistica”, è una precisa frase del gesuita Jean-Joseph Surin del febbraio 1661 (Surin, Corréspondence, p. 1054): eccezionale e mistico corrispondevano.

Non solo si è disgiunta la mistica dalla teologia – tanto che Jean-Joseph Surin trattava della mistica come di una “scienza assolutamente separata dalle altre” (Surin, Guide spirituelle, p. 46 e p. 179), ma la si è staccata anche dal soprannaturale cristiano. L’esperienza mistica non venne più intesa all’interno di un percorso di perfezione della contemplazione, ma come un qualcosa di “soprannaturale” solo “quoad modum”, cioè “in quanto alla maniera di manifestarsi delle esperienze religiose”: in pratica, solo per gli aspetti – ovviamente, veri o falsi – di straordinarietà.

In sostanza, la mistica fu vista come un complesso di fatti che fanno stralunare – un po’ come quelli dei prestigiatori o dei sensitivi dei nostri tempi, cioè quelli che riguardano il paranormale, come lo si denomina oggi.

Nacque, così – al contempo, come inevitabile reazione, proprio nel ‘600 – la diffidenza verso la “misticheria”, come fu chiamata la mistica; e mistici di sommo livello quali Johannes Tauler (Giovanni Taulero) (circa 1300-1361), Jan van Ruysbroeck (Giovanni di Ruysbroeck) e Meister (Maestro) Eckhart (1260-1327/1328) furono ritenuti pieni di “assurdità strane” (Bossuet, t. 18, p. 365).

I mistici furono accostati a sette di “Illuminati” e spesso associati a stregoni, maghi ed eretici.

L’editto di Siviglia (1623) cercò di snidarli, i processi in Piccardia (1630-1635) li condannò, e i mistici furono tacciati di oziosi e fanatici. “Dare del mistico” divenne un’offesa come “dare dell’eretico”.

Il linguaggio “indecente” e “ingenuo” della mistica

Il giudizio è del più autorevole commentatore di Giovanni della Croce, Diego del Gesù, carmelitano (1570-1620), che difese la necessità dell’“indecenza”.

Il linguaggio mistico è “indecente” nel senso che, non potendo dire con termini propri quello che l’esperienza offre all’anima, prende in prestito dalla vita quotidiana le immagini e le parole comuni. Il linguaggio mistico è quello delle allegorie (similitudini), che, prese alla lettera nel significato usuale, non hanno a che vedere con i significati voluti (dissimili), cioè con le esperienze interiori.

Questa situazione dipende dal fatto che 1’“indicibile” si può dire solo per evocazione di cose terrestri, quindi nell’ambiguità terminologica. Ne erano consapevoli già alla fine del ‘400.

Il linguaggio mistico è “ingenuo”, nel senso che raccoglie le parole dalle immagini del mondo quotidiano – ne darò un esempio – e non da quello dotto della filosofia o della teologia, che invece sono linguaggi del pensiero logico, quindi analitici e non sintetici. Non è un caso dunque che una linguistica del misticismo nasce all’inizio dei volgari europei e in particolare in ambiente contadino, con l’autobiografia di Beatrice di Nazareth (circa 1200-1268), con il Miroir des simples âmes di Margherite Porete (+ 1310), con Angela da Foligno (forse 1248-1309), Caterina da Siena (1347-1380). (Gertrude di Helfta, detta la Grande, 1256-1301/1303, fa eccezione, scrivendo in latino i suoi Exercitia spiritualia).

Ad ogni modo, ne nasce un vero e proprio “nuovo e inusitato modo di esprimersi” (“novum quoddam et inusitatum dicendi genus”), come ammetteva ormai nel 1615 Pierre Laussel (in Sancti Dionysij Areopagiti Opera omnia, Parigi). E da lì anche l’accusa dei denigratori, come Jacques-Bénigne Bossuet, che taccia di “abuso di linguaggio” le usanze mistiche (Surin, Corréspondance, 24 novembre 1698, t. 10, p. 306).

E tuttavia è inevitabile che, quando il Locutore-Dio parla, il mistico non può tacere. Giovanni Calvino, pur così avveduto nelle sue affermazioni, nel 1543 ammetteva: “Dio ci mette le parole in bocca come se egli stesso cantasse dentro di noi”.

Ma vediamo un esempio. È di un mistico addirittura. Si tratta di Giovanni della Croce.

Cantico B,

31: “[…] / da quel solo capello / che ondeggiar sul mio collo tu guardasti, / sul mio collo mirasti, / preso tu rimanesti, / da un occhio mio piagare ti lasciasti”.

36: “Godiam 1’un l’altro, Amato, / in tua beltà a contemplarci andiamo, / […] / dove è più folto, dentro penetriamo”.

37: “E quindi alle profonde / caverne / […] / ce ne andremo, / che sono ben celate, / colà noi entreremo, / di melagrana il succo gusteremo”.

38: “Colà mi mostrerai / quanto da te voleva l’alma mia, / e tosto mi darai / colà, tu, vita mia, / quello che l’altro giorno mi donasti”:

39: “la fiamma che consuma e non dà pena”.

È chiaro lo “spostamento del soggetto” a qualcosa d’altro, rispetto al senso usuale delle parole; e c’è anche la “manipolazione tecnica”, affinché le parole acquistino un significato nuovo. I significati di questo cantico sono facili, e quindi non li spiego: piuttosto cerebrale, Giovanni della Croce – li ha spiegati lui stesso – intende per “capello” l’attrazione amorosa, che “ondeggia” mossa dallo Spirito, ed esattamente sul “collo”, perché il collo indica la “fortezza”, e l’amore – afferma – non può perseverare senza questa dote interiore.

Questo genere di linguaggio, che appartiene ai seguaci della “mistica dell’assenza” (i cui massimi esponenti sono Giovanni della Croce e Teresa d’Avila) – che cioè tende ad escludere dall’esperienza mistica l’immaginazione, i sentimentalismi e persino il pensiero -, espone l’esperienza, che è indicibile, del divino con immagini prese dalla realtà comune: immagini che costituiscono, perciò, analogie. Le immagini rappresentano puri e semplici simboli, che quindi rimandano ad “altro”, appunto, in sé e per sé indicibile.

Nella mistica “sponsale” – cioè quella che vive il rapporto con Dio con effusioni affettive, quali tra sposo e sposa -, soprattutto tra il ‘500 e il ‘700, le immagini del mondo indicano proprio quello che significano nella comune esperienza, solo che la medesima esperienza è vissuta per questo “divino” che muove il cuore e il sangue. Quando Maddalena de’ Pazzi, ad esempio, prende in braccio Gesù piccolino e dice che è felice come una mamma-sposa, intende dire che sente esattamente quello che prova una mamma-sposa: solo che l’oggetto non è un bambino qualunque, ma è Gesù.

L’erotica dell’“affectus”

L’erotica dell’“affectus” fu introdotta da Bernardo da Chiaravalle (+1153) – il termine “erotica” è di Michel de Certeau -, poi si sviluppò in quella degli Ordini mendicanti (sec. XIII), domenicano e francescano. Ma mentre all’inizio essa consisteva in una volontà affettuosa, nel senso in cui Gertrude di Helfta la Grande (+ 1301) parlava di Gesù come di “amante”, solo nella cultura del Seicento l’“affetto” amatorio passò dalla dimensione mentale a quella sentimentale e sensuale.

Già nel ‘400 Jean Gerson (Giovanni Gerson) (1363-1429) lamentava le visioni delle Madonne incinte della Trinità oppure le contorsioni delle vergini a colloquio con Gesù; ma fu nel ‘600 che gli occhi stralunati, puntati verso un bel bambino in visione estatica, o i toccamenti sensoriali su bellissimi Gesù diventarono una questione da esser presa in esame.

Quando una santa vergine va a letto con Gesù, allora non si capisce più, tanto bene, se ella viva, misticamente, l’Uguale e l’Assoluto, oppure viva un bel momento di vita coniugale: del tutto legittimo, certamente – non tutte le “monache di Monza” o fuori Monza potevano avere un Paolo Osio, detto Egidio dal romanziere de I promessi sposi -, ma non è più tanto coerente con l’esperienza mistica come conoscenza e amore dell’Unico Universale e non di spicciole verità contingenti, sia pure riguardanti il sacro.

Più la mistica si generalizzò – come accadde nel ‘600, in polemica contro le confessioni protestanti radicalmente diffidenti nei confronti delle esperienze mistiche dilaganti nel mondo cattolico, quando la dottrina ecclesiastica giustificava l’esplosione mistica come una precisa volontà divina al fine di illustrare la sua Chiesa e di mostrarne la autenticità -, più le scene di rapporti fantasiosi con Gesù aumentarono. E ci si misero in mezzo anche gli angeli – l’angelologia è secentesca -: non come spiriti che sovvengono alle necessità umane con l’ispirazione interiore –come nella concezione biblica -, ma come “putti”, vale a dire bambinelli che hanno un bell’aspetto, sono giovanili e gai, fanno compagnia e ridono e scherzano con le vergini. Però, siccome non sono bambini veri di mamma e papà, allora è possibile tenerseli stretti in monastero. Sono “divini”!

Mi piace qui riferire il contenuto di un sogno narrato nel suo diario, in terza persona, dalla domenicana Christina Ebner (1277-1356). Se è vero che si tratta di sogno onirico e non di visione estatica come nelle mistiche seicentesche le quali avevano siffatti o simili contenuti in esperienze estatiche, esso resta comunque un chiaro esempio di erotismo affettivo, tenuto anche conto che i sogni onirici di contenuto religioso erano anch’essi ritenuti mistici.

“Al tempo in cui aveva ventiquattro anni, le venne in sogno di essere incinta di nostro Signore, ed era così piena di grazia che non c’era parte del suo corpo che non ne derivasse grazie particolari. E giunse in cuor suo a una tale dolcezza per il bambinello, il quale, come a lei sembrava, si tutelava da sé, che essendo una volta salita su una collinetta ebbe paura di fargli male. E poiché tutto avveniva in dolcezza e senza alcun fastidio, tanto che non c’era preoccupazione o tristezza che la sfiorasse, e un periodo di tempo era trascorso, sognò ancora, sognò di dare alla luce il bambino senza alcun dolore e, nel vederlo, di provare una gioia addirittura soverchiante. Ed essendo passato un po’ di tempo durante il quale andava in giro con questa gioia, un giorno, sentendo che non poteva più tenerlo nascosto, prese il bimbo fra le braccia, lo portò al refettorio durante l’adunanza e così disse: “«Gioite per me tutti quanti, non posso più tenervi celata la mia gioia, ho concepito Gesù e ora l’ho dato alla luce»”. E mostrò loro il bambinello. E allora, poiché provava una gioia grande, si risvegliò”. E altra volta Gesù le disse, in estasi: “«Io vengo a te, come uno che è morto d’amore. Vengo a te con bramosia, come un marito al suo letto nuziale. Vengo a te, come uno che dà grandi doni”». E altra volta: “«Mia amata, lascia ch’io riposi accanto a te, in modo che dimentichi i miei nemici”». E un giorno della festività di santa Lucia: “«Per te ho tenuto fede a tutte le fedeltà coniugali”», ed ancora: “«Mia amata, prendi con amore questo mio discorso; con nessuno adesso, parlo così tanto come con te”».

E un’altra mistica, coeva, Margaretha Ebner (1291-1351), anch’ella domenicana, in una delle sue lettere: “Fui rapita da un’intima forza celeste, sicché il mio cuore umano mi fu tolto […]. Quindi mi fu infusa una dolcezza smisurata poiché io mi sentivo come se l’anima mia si fosse separata dal corpo”. All’interno di questa sensazione, che è d’altronde testimoniata da tutti i mistici di tutti i tempi e che si può ritenere una costante essenziale dell’esperienza mistica, in Margaretha Ebner si intromette una circostanziata esperienza erotica, collegata ad una sua immaginetta di Gesù bambino che ella teneva collocata in una culla: “Quando poi dal Signore a ciò sono indotta con grandissima dolcezza, e diletto, e brama, nonché con benigna invocazione, poiché il mio Signore mi apostrofa: «Se tu non mi allatti mi sottrarrò da te[…]», allora io prendo l’immagine dalla culla e, con grande diletto e dolcezza, la metto sul mio cuore nudo, e allora sento la grazia farsi più forte che mai per la presenza di Dio […]. Ma la brama e il mio piacere è nell’allattare, così che la schietta natura umana di Dio mi purifica, e il suo amore ardente mi accende, e la sua presenza e la sua dolce grazia mi pervadono, sicché io vengo attratta nel vero godimento della sua natura divina, e con me tutte le anime amanti che hanno vissuto nella verità”. Poi un altro giorno; anzi un’altra notte: “[…] il Bambino si mostrò a me mentre giocava da solo nella culla con gesti vivaci e pieni di gioia. Allora gli dissi: «Perché non stai bravo e non mi lasci dormire? Ti ho sistemato bene nel tuo lettino». E il Bambino mi disse: «Non voglio lasciarti dormire. Devi prendermi con te». Così, con brama e allegrezza io lo presi dalla culla e me lo misi in grembo. Era un bimbo vivace. Quindi gli dissi: «Se mi dai un bacio, lascerò correre che tu mi abbia fatto tribolare». Egli allora mi circondò con le sue braccia, mi baciò e abbracciò”.

Il rammarico che si può provare a leggere queste esperienze è che il bambinello, invece di Gesù, non sia un bambinello di carne ed ossa come tutti quanti i bambinelli di questo mondo. Ma sorge anche il sospetto che il bambinello Gesù sia una sostituzione emotiva – favorita dalla frustrazione sessuale – di un bambinello di carne ed ossa, di quelli che si vedono comunemente in questo mondo e che urgono nell’animo di ogni donna.

La “corporeità” del misticismo

Se l’“excessus” mentale produce una conoscenza superiore, l’“excessus” affettivo produce anche una modificazione delle funzioni fisiologiche e fisiche.

È ovvio che l’intensa attrazione dell’intelletto su un oggetto impedisce l’attenzione su altri oggetti: è un fenomeno che va sotto il nome di “volo della mente”. Ma l’affettività, arrivando a tensioni fortissime, genera parossismi anche nel corpo. Il cuore non batte più, o quasi; il respiro si fa affannoso, se l’amante tarda; e quando l’amante arriva, il cuore batte forte come uno stantuffo impazzito; ma magari si perde l’appetito: lo sanno tutti gli innamorati; se l’oggetto del desiderio s’allontana, si diventa abulici e più o meno anoressici, e così via. Fino a un certo punto è inevitabile: i sensi compartecipano al desiderio dell’animo. Dice Gertrude di Helfta, non sospetta di stranezze: “Tutte le mie forze si consacrino talmente all’amor tuo e i miei sensi si fondino e si stabiliscano in te, di maniera che con animo virile, benché di sesso fragile, io giunga a quel genere di amore che conduce al talamo intimo della tua perfetta unione. Ora, o amore, tienimi e abbimi come tua propria, perché non sono più capace di vivere se non in te”. Qui si tratta palesemente dell’amore teologale, e per “assorbimento dei sensi” si intende una dinamica di attrazione mentale che assoggetta anche la sensibilità alle esigenze dello spirito (“alienazione dei sensi”).

Di per sé, infatti, le ascensioni della mente comportano anche estraneamenti sensoriali, fino al limite dell’insensibilità fisica e addirittura dell’elevazione del corpo (“levitazione”). Dice Michel de Certeau: “L’esperienza mistica ha spesso l’andatura di un poema, che si ‘sente’ come (quella che si sente quando) si entra in una danza. Il corpo ne è modellato, si muove, si ferma, si contrae e si espande, prima ancora che l’intelligenza avverta ciò che vede e conosce. Il corpo cessa di essere regolato secondo le leggi della fisica, si frammenta e si sgretola, nello spazio e nel tempo, facendo posto alla ‘viva unità senza nome e senza volto’ ” (pp. 402-403).

Nei gradi più alti della vita mistica, il corpo partecipa all’esperienza quasi avesse già raggiunto la spiritualizzazione. Sono i gradi del cosiddetto fidanzamento mistico e dello sposalizio, che è l’unione trasformante. Per Veronica Giuliani, monaca cappuccina, ad esempio – ma il fenomeno è piuttosto consueto in casi simili -, la partecipazione fisica comportò la pressione dell’anello sponsale avvertita sul dito della mano destra: la sensazione era esattamente anche epidermica, corporale.

Veronica Giuliani (1660-1727) è un esempio particolarmente incisivo della connessione tra mistica e corporalità, in quanto la sua vita mistica – che in un mio articolo ho definito “della fisicità” – fu caratterizzata dalle sofferenze fisiche patite da Gesù Cristo stesso. Un accenno a tale grado di fisicità. Innanzitutto Veronica ricevette le stigmate – dal 5 aprile 1697 fino alla morte, secondo il riconoscimento da parte della Chiesa cattolica -: fu Gesù che le infisse la punta di una lancia nel suo petto, “e mi parve di sentire passare il cuore da banda a banda”; tempo dopo ebbe trapassate le mani e i piedi, e da allora si consacrò definitivamente al patire.

Alla sua morte il vescovo di Città di Castello chiese ai medici Giovanni Francesco Bordiga e Giovanni Francesco Gentili di controllare il cadavere e durante l’autopsia si osservò il cuore “trafitto da parte a parte” e sulle pareti dei ventricoli sarebbero stati rinvenuti i segni da lei tratteggiati nel disegno che ella aveva fatto obbedendo al suo direttore spirituale. In effetti, un suo disegno rappresentò alcuni oggetti – simboli della passione di Cristo – che, secondo lei, avrebbe avuto all’interno del corpo, indicando con precisione dove fossero.

Subì inoltre le flagellazioni, la coronazione di spine e tutti i dolori fisici dell’umanità di Cristo, ma soprattutto ne provò le angosce interiori, le pene per la dannazione delle anime, le umiliazioni di fronte al Padre, a cui Cristo, in quanto uomo, era soggetto. In altri termini, Veronica capì ed accettò la partecipazione alle sofferenze di Cristo, e la maniera di desiderarne sempre di più merita una qualche menzione. Poiché nulla è ottenibile se non “a costo di pene” e “a misura del patire”, più ella voleva ottenere grazia per sé e per tutta l’altra povera gente, più bisognava che ella “venisse a patibolo di più tormenti”. L’amore per i dolori divenne in lei, secondo la sua stessa ammissione, una fiamma ardente.

Contraffazione del misticismo

Si intende autorevolmente per contraffazione del misticismo ogni esperienza, per quanto mirabile, la quale non tenda strettamente a far intendere e “sentire” la verità essenziale di Dio (e dico “essenziale”, e non “particolare”).

Non è necessario, perché si abbia misticismo vero, che sia all’interno di una confessione religiosa. Quindi, due conclusioni. Sono estranee all’esperienza mistica tutte quelle “rivelazioni” (visioni, ispirazioni, locuzioni interiori, chiacchiere fatte al soggetto che passa per essere un mistico, ecc.), le quali offrono indicazioni sul mondo fenomenico, sia pure sul piano religioso e morale, come ad esempio le preveggenze o gli avvertimenti “celesti” su quando scoppierebbe la terza guerra mondiale, oppure su come e quanto recitare una determinata orazione, o sui mezzi devozionali per salvarsi e sulle “messe perpetue” per i defunti, e così via a non finire.

Sono allora falsificazioni? Non lo sto dicendo. Dico che sono cose che non hanno a che vedere con il misticismo. E che cosa sono? Non lo so. Potrebbero essere pettegolate di segretarie di Gesù e della Madonna, che trovano il buon tempo – e ne hanno, di tempo! – per “rivelare”, ad esempio, che cosa ha detto a cena Maria a Gesù o che cosa ha bisbigliato Gesù a qualche discepolo per le strade della Palestina. Libri di tal genere circolano a centinaia.

Quello che comunque è certo è che, se uno vi avverte: “Il Messia è là”, voi non ci andate; e se un altro vi rivela: “Il Messia è qui”, voi non ci andate. Operazione economica? Può darsi. Non ci sarebbe nulla di male. Basta ammettere le cose per quello che sono.

Alla fin fine, mistificazione è attribuire ad un genere di esperienza un fenomeno che non vi rientra.

La peggiore mistificazione è la confusione. [Francesco di Ciaccia]

Siglario dei testi citati

Bossuet: Jacques-Bénigne Bossuet, Instructions sur les états d’oration, in Oevres complètes, ed Lachat, t. 18.

de Certeau: Michel de Certeau, Fabula mistica, Bologna, Il Mulino, 1987.

Moraldi: Luigi Moraldi (a cura di), Detti segreti di Gesù, Milano, Mondadori, 1989.

Saba: Agostino Saba, Corrispondenza inedita di Caterina Vannini Monaca Convertita di Siena con F. Borromeo, in Idem, Federico Borromeo e i mistici del suo tempo, con la vita e la corrispondenza inedita di Caterina Vannini da Siena, Firenze, L. S. Olschki (Fontes Ambrosini 7), 1933.

Stadelmann: Rudolf Stadelmann, Il declino del Medioevo. Una crisi di valori, traduzione di Franco Bassani, Bologna, Il Mulino, 1978.

Surin, Corréspondence: Jean-Joseph Surin, Corréspondence, présentée et annotée par Michel de Certeau, préface de Julien Green, [Paris], Desclée de Brouwer, [1966].

Surin, Guide spirituelle: Jean-Joseph Surin, La Guide spirituelle pour la perfection, divisée en 7 parties. Ouvrage posthume du P. Surin, IV, Paris, Albanel, 1836.

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