Barbieri, Sergio, Le rauche parole

L’ombra bianca, Introduzione a Sergio Barbieri, Le rauche parole, Milano, Prometheus (Eos 13), 1992.

 

Barbieri, Le rauche parole. Copertina

 

Testo della Introduzione

 

“Ombra”: così potrebbe definirsi la donna d’amore nell’esperienza poetica di Sergio Barbieri, emblematicamente fissata al primo verso di Nel ricordo di te:

“La tua ombra è qui
sopra le mie palpebre
chiuse […]”.

Ma “ombra” non vuole significare una negatività del concetto di amore né racchiude tutta la sua fenomenologia, che anzi nell’opera di Barbieri appare assai complessa e sottile. Vuole solo indicare la difficile, e radicale, congiunzione tra realtà e ricordo, la dialettica tra corposità e rarefazione, tra la presenza ed il “sogno” di uno dei più sublimi e misteriosi sentimenti umani. L’amore è cantato ai confini tra illusione e rimembranza, desiderio e indifferenza, bisogno e fatalità. In queste liriche non c’è mai il banale; anche la passione diventa un granello di sabbia rovente che nel deserto fa apparire i miraggi. I miraggi provocano brividi: anche se è sempre ombra che disseta.

Sergio Barbieri non è nuovo alla poesia rarefatta, insidiosa come il serpente e incisiva come una lapide. Già autore di premiate sillogi e sempre “teso – come ha scritto Mario Conti – verso l’esplorazione del proprio intimo, che è la costante caratteristica di tutta la sua produzione poetica”, egli ha compreso l’essenzialità della struttura lirica “che procede per immagini analogiche”.

Non è facile parlare di questo nostro cuore innamorato; e l’autore ne è consapevole:

“Amore, che scivoli e inciampi su questo
mio nuovo sentiero lastricato di parole
e frasi antiche e risapute […].
Presto guiderò una spedizione di parole nuove
ad inseguire la carovana di vecchie
e vetuste frasi” (Frasi antiche e risapute).

Su un tema così antico, i cui discorsi sono “polverizzati dal tempo” come “dune sabbiose” del deserto mai sazio di abbagli (Frasi antiche e risapute), la novità di Barbieri non è tanto nel linguaggio, pur “lastricato” di “parole nuove” in scarnificate immagini che spesso hanno l’eco di un tonfo nell’inconscio. L’originalità lessicologica e semantica è nell’esprimere l’arduo rapporto tra l’onirico e il concreto dell’amore. In questo raccordo, che oserei definire discordante, si evidenzia la forza della parola “nuova”. Qui circoscrivo una esemplificazione della scelta terminologica all’ambito delle tonalità cromatiche, che offrono una pregnanza concettuale specifica.

Il volto della donna, scolpito su “marmo bianco / nel nero / della mente”, esprime ad esempio l’irruzione dell’amore nelle tenebre dell’esistenza: la femminilità in queste poesie è bianchezza che si staglia sul “rosso” del ricordo, mentre il desiderio è di un “incandescente viola”. Man mano che l’esperienza trapassa dallo stato del sogno a quello della quotidianità, ecco che i colori si stemperano:

“Domani dipingerò i nostri
gemiti
su semplici sassi
grigi
di mare” (Ho scolpito il tuo volto).

Ho detto che femminilità è bianchezza: è candore (Alcione armonioso dei miei sogni). Lo è sempre, quando la voluttà è coniugata al sogno e ripropone l’innocenza primigenia dell’animo “fanciullo” che s’apre alla vita. Allora l’amore ha “candide vele” (Vele nel tempo), ha il “bianco calore della / sabbia senza orme” (La ragazza del deserto).

Il cammino errabondo, in cui l’uomo è teso alla ‘ricerca di tale identità, è “un giorno di pietra bianca calcinata” (Il volto del passato), ma l’incontro – l’atto in cui la purezza dell’attesa originaria si fa corporeità e diventa presenza dell’originario – è “un piccolo fiore rosso / che poco fa era l’attimo fuggente / che le nostre labbra hanno fermato” (Favolose primavere che saranno). Ed è allora che il sogno “si è / solidificato / in un fiore rosso” (Percorro il deserto): il colore di cui si veste il pensiero che ferma il transitorio:

“Una traccia rossa.
È il tuo fiore nella mia mente” (Una traccia rossa).
Un “fiore rosso
è tutto il passato
che mi rimane” (Un volto antico di pietra).

La caratteristica fondamentale del vissuto amoroso in queste poesie è di essere sogno: il “sogno” di “un piccolo fiore rosso” (Una traccia rossa).

Per comprendere questa dimensione esistenziale, bisogna tuttavia precisare che nel quadro dell’amore qui delineato non è disatteso l’aspetto realistico. Sotto tal riguardo, la poesia di Barbieri trova accenti di originalità, ma forse non sfugge sempre alla tirannia, se non delle “parole antiche”, magari delle immaginazioni “risapute”. L’affiatamento di due cuori si schiude “per i cieli turchini” di nuove speranze di vita. Ecco dunque l’iniziale potere dell’amore: far nascere un “nuovo giorno che la tua / bocca e le tue labbra hanno / riempito di nuove speranze” (Nuove speranze). Consueto, ma terribilmente splendido: “Avevo la bocca riarsa / e tu hai dissetato / questo abitante / di deserti” (Brillanti primavere).

A questo effetto scontato si aggiunge una considerazione di grande rilievo: si tratta del “ritorno al grembo / della natura abbandonata”, a quella originarietà di sé da cui un mondo di inautenticità ci tiene separati con “nere sbarre” di ferro (Speranza di vita).

Miraggio? Illusione di chi s’aggira stordito ed alieno per le deserte lande del bivaccare terrestre? Se lo è, è un miraggio unico; se lo è, è sublime illusione: prima di essa, “prima / che ci incontrassimo” (La nostra vita), c’era una eternità vuota. Dopo, e cioè “ora”, l’eternità si sveglia alla pienezza, a un contenuto integrale:

“assieme […] guardare
– oltre l’orizzonte che si curva –
l’eternità che ci appartiene
e ci unisce” (Favolose primavere che saranno).

È ben nota – lo si sa – la sensazione esistenziale d’essere da sempre e per sempre uniti con la persona amata, quando ad incontrarsi è l’amore che trasforma l’esistere:

“Io sapevo e volevo
e sognavo
da una vita la tua esistenza” (C’è stato un tempo).

C’è chi ha parlato di introiezione, portando in causa dinamiche dello psichismo oggettivo. E certamente il meccanismo non può radicarsi che nelle funzioni dell’inconscio. Ma il fatto di questa percezione, che ha lo spessore quasi della fisicità, resta fermo, ed era ben noto anche ai cantori delle favole cortesi medioevali, da Tristano e Isotta a Giulietta e Romeo. Nella poesia del Barbieri si può vedere riassunta questa esperienza nel verso:

“Tu che ieri ora domani
sei il mio presente” (Sonia tre).

L’amore di due cuori che si identificano ciascuno in se stesso e ciascuno nell’altro è la sutura tra passato e futuro.

Ora, se volessimo scandagliare oltre il dato esperienziale, direi che la ragione di questa “eternità” immaginifica è molto semplice e vera: attraverso l’esperienza d’amore, lo spirito si autorivela nella propria identità, cioè si identifica con il proprio e si sussume come io in una pienezza che trascende i termini del tempo fisico. Con l’amore, passiamo dalla opacità della incompleta consapevolezza di sé

“alla ricerca di noi stessi
alla ricerca del nostro vero passato
alla ricerca della nostra ultima
speranza di immortalità” (Vele nel Tempo).

L’essere si riconosce pienamente come io:

“Io ero io” (Il profumo della nostra gioventù). E solo allora vede il proprio tempo, capisce il proprio passato, si progetta in un futuro armonizzato. E l’avvenire non è un “domani”, ma un “oggi” che sta già nel “prima”. Sensazione d’eternità: che ci fa simili a Dio, come direbbe Agostino d’Ippona.

Ma come lo si incontra, l’amore? O meglio: come lo si riconosce? È la risposta a questo interrogativo che mi sembra particolarmente da considerare in questa raccolta:

“Un’ombra sale la collina. […]
È solo il mio ultimo
sogno
che mi raggiunge
in cima alla collina” (Commiato).

Il sogno non è il fantasticare. Non è il semplice desiderare. Il sogno, qui, è la verità. La verità si distingue dal fatto, cioè dal vero concreto. Il fatto è mendace, il reale è un falso che ha apparenze di pietra. Transitorio, esso non ha consistenza:

“sulle rive
dei nostri guanciali
[…] avremo inutilmente bruciato
le lente ore della notte”.

Il sogno invece crea. Crea la verità interiore delle cose:

“Devi esistere. / […]
Solo così
potrò raccontare / […] /
la favola di un
eterno ragazzo /[…]/
che si è creata una immagine reale
tutta per sé.
Che esiste.
E che ora gli siede accanto.
Mano nella mano” (Devi esistere).

Il sogno fissa per sempre la realtà. E la ricrea ancora:

“Ho riempito il vuoto / […] /
con sogni ad occhi aperti / […] /
Riesco a farti esistere: / […].
E a poco a poco emergi da un passato / […] /
e diverrai reale in un futuro” (Devi esistere).

Questa creatività del “sogno” ci rinvia alla visione dannunziana: la verità delle cose è nell’immaginifico. A nessuno D’Annunzio riconobbe consistenza più “vera” di quella che egli stesso attribuì a ciascuno mediante la sua “arte” che li aveva generati.

Ogni abbandono a questa dimensione immateriale ha il suo rischio. Barbieri ne è cosciente: egli sa di aver creato un “assurdo / universo / di sogni illusioni chimere”, che, riflesso “nell’iride concava dei / tuoi occhi cangianti”, è diventato “un’ombra vermiglia / dalla parvenza di un fiore”, da cui egli beve il nettare “posando / lieve le labbra / tra i miraggi delle tue ciglia” (Questo mio assurdo universo).

Tuttavia, il “sogno” nella semantica di Barbieri ha una connotazione ulteriore alla creatività immaginifica. Esso è la possibilità di andare sempre oltre il puro dato materiale. Il “sogno” è dunque la dimensione stessa della vita. La realtà è fiaba, ricordare è intingere “nei colori che si mescolano / sul fondo dei miei occhi / sperduto in un mondo di fiabe” (Ho dipinto il tuo ritratto):

“Ora hai capito
le mie parole
che creano un Passato” (Sonia tre).

Questa potenza del “sogno” si specifica, nella creatività immaginifica, come dimensione del vissuto amoroso: la fusione amorosa ha come pregiudiziale la capacità della donna di entrare ella stessa nell’orizzonte del “sogno”: “II tuo volto è qui / accanto al mio / – come nel sogno –. / Il tuo sguardo è dolce / e promettente / – come nel sogno –. / Ma la tua bocca ha labbra / di pietra […]. / Così io non ascolterò / mai / le parole di un sogno” (Le parole di un sogno). La donna è presente nella misura in cui trascende la pura presenza fisica e diventa

“Soffice più della nuvola
su cui inseguo i miei
sogni” (Soffice).

Se la donna consente a questa apertura verso l’irreale fiabesco, allora è possibile che “io sogni anche per te”, è possibile l’identificazione:

“[…] non chiudere i tuoi meravigliosi
estatici grandi occhi pieni di me.
Io sognerò anche per te” (Frasi antiche e risapute).

Altrimenti, il concreto distrugge la verità: “È nato un amore […]. Ma è morto un sogno” (La tua voce). Il distacco allora avviene quando “Tu non sai più / sognare con me” (Le orme che lasciano i miei sogni), quando tu “ascolti / solamente il mio corpo” (Il vuoto che ci circonda).

Di certo, questa fenomenologia dell’incontro non è rosea: “Ho ombreggiato i tuoi occhi / col colore grigio / della mia solitudine” (Ho dipinto il tuo ritratto). Il suo cammino si inoltra per una traccia che ha il bruciore dell’amore e l’arsura del deserto: il suo destino è la “infinita lontananza” (Una traccia rossa):

“La ragazza del deserto
mi ha chiamato a sé
ed io giro intorno
a me stesso per trovare
il sentiero
lastricato di illusioni” (La ragazza del deserto).

Il suo approccio è “sempre un poco / in ritardo / col tempo dell’amore”, il fiore carminio che egli posa sulla donna è sempre “un fiore appassito” (Percorro il deserto). Poi c’è sempre in agguato l’incomprensione, il senso di non appartenersi più:

“Che tristezza la lontananza
di due menti
che dopo essersi
specchiate
l’una nell’altra
più non si riconoscono” (Che tristezza).

L’amore reale è minacciato da una distanza incolmabile. C’è anche, sì, in queste poesie, il problema della disparità di età (Non c’è spazio tra noi, Polvere di tempo, Un muro ci divide)“E io bevo misticamente / ogni stilla […] / della tua giovinezza” (Una traccia rossa). Ma al fondo dell’esperienza affettiva c’è soprattutto l’inafferrabile presenza dell’altro: il sole, che verrà, vedrà due esseri che “tremano sempre quando / restano soli / insieme” (Le orme che lasciano i miei sogni).

L’amore concreto è dunque come un suono di “rauche parole”. Vagano nel “deserto arido / delle mie illusioni”: “Son tornato dove tu / avevi appoggiato il tuo / volto sulla mia spalla. / [..] / Son tornato… Son tornato / da solo / […]” (Son tornato).

In definitiva il mondo esistenziale di Sergio Barbieri si inquadra bene nel clima novecentesco, che ha già trovato in Ungarettì e soprattutto in Quasimodo una testimonianza illustre. Chi non ricorda la famosa lirica di Quasimodo Ed è subito sera? Anche per Barbieri l’uomo è inesorabilmente “solo”: trafitto da un “raggio di sole”. “Ed è subito sera” (pagine 5-17). [Francesco di Ciaccia]

 

 

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