Minotti Cerini Wilma, La luce del domani

Profumi d’aria, Introduzione a Wilma Minotti Cerini, La luce del domani, Milano, Prometheus, 1993.

 

Minotti Cerini, La luce del domani. Copertina

Testo della Introduzione

La poesia nasce sempre da una solitudine. Lo sguardo mnestico di sé, lo scavo esistenziale non hanno compagnia: la loro “essenza” è nel deserto. Ma proprio in questo orizzonte abbacinato, al confine tra il finito e l’infinito, scaturisce il profumo dei ricordi lontani che provengono dall’al di là del visibile e svelano i colori che nel mare della coscienza stupefatta avevano un tempo brillato: “ritrovo colori che credevo perduti” (La solitudine).

La poesia è dunque nascondimento al mondo, ma al contempo autorivelazione, scoperta della propria verità e della verità del mondo, ripresentazione del nascosto: “cercare / sorrisi nascosti / dimenticati” (Radici necessarie). In questo senso il suo cielo è più vasto di quello del cosmo; e più ancora che davanti alle stelle scomparse e alle stelle invisibili lo sguardo interiore si trova “davanti all’infinito che affascina” (La catena).

L’infinito umano ha essenzialmente i confini dell’amore: una scoperta che ogni cuore, sprofondato in quel fascino, scopre dentro di sé. Dentro e fuori: perché l’amore è cosmico, è una esistenzialità che non si esaurisce in nessuna cosa del mondo e in nessuna situazione dell’uomo. Ma anche l’amore, come ogni alito che spira nell’universo terreno e celeste, ha i suoi punti-forza:

“Le mani degli amanti
strette le une alle altre
ripetono all’infinito
promesse
a un sentimento che sempre si rinnova”,

in un ciclo infinito di tenerezza che assorbe le energie e le espande, le contrae e le diffonde, senza mai morire che della propria rinnovantesi vita, in un congiungimento di mani “come due elettroni al suo nucleo” (La catena). Dagli spazi infiniti dell’anelito ad esistere, l’amore, come la luce che non si afferra ma che afferra il bocciolo e lo genera, diventa quotidianità, crea situazioni di vita, diventa l’“anello / di una catena interminabile” (La catena).

Fedele alla sua ispirazione fondamentale, l’autrice in questa poesia, La catena, appunto, canta la natura, il sole, la vita: “Si distendono i petali il cui sonno notturno / ha racchiuso perle di rugiada. / Ecco il sole”, ecc. Ma sembra che in tutti gli aspetti del mondo reale si libri quel senso che è nel fondo di ogni cosa: appunto l’amore. E anche le immagini trasmettono – o tradiscono? – significati che direi erotici: laddove s’intenda per Eros l’“alma mater” generatrice di vita, la Venere del canto di Lucrezio sulla natura. I petali s’assopiscono al sonno d’amore, “il gallo ha cantato verso la campagna / arata e seminata / che si appresta a germogliare”, il sole s’alza “da abissali profondità / al di là dei monti”, “si rintanano i predatori notturni”.

Ma l’amore è soprattutto autoidentificazione: rende consapevoli di sé. Genera l’io. Prima che i frutti, genera l’albero stesso. Senza l’amore dell’altro – con l’altro e per l’altro –, il “nome” è un fatto del mondo, l’io è anagrafico: “Questo nome chiamato” è senza presenza, ma quando è pronunciato dall’altro-con-me

“mi pare rivestito d’aurora” (Il mio nome).

È il nascimento.

Conforme alla vita della natura è anche l’animo umano: “in attesa”. Il domani avrà la sua luce, e la poesia ha proprio questa funzione:

“Lasciate che gli occhi miei rifuggano
dalla notte dei tempi” (La luce del domani).

La poesia è la forza di non naufragare. La vita non è infatti sempre dolcezza: è anche il mugghiare delle onde in tempesta che scuotono gli scogli flagellati. Ma su tutto

“Esperia brilla lassù”
come
“per una ritrovata ragione d’essere e d’amare” (Esperia).

Non fa meraviglia dunque che la poesia, come è stato detto altre volte, è la dote dei piccoli: perché solo i piccoli sanno meravigliarsi del mondo, vedere e non solo guardare, “allungare una mano” e “stupirsi ancora / perché la luce offrendosi / porterà i suoi doni”:

“Sentire la vita pulsare
farsi più leggero il respiro
e constatare guardando
di vedere” (Perché).

Ma dicevo che la caratteristica principale della poesia di Wilma Minotti Cerini è il canto della natura. Se tutti i sentimenti sono espressi attraverso la natura, è soprattutto la sensazione d’esser felice nel mondo naturalistico a offrire l’ispirazione essenziale. E allora sembra che la felicità sia lì, nelle ombrose foglie che baciano la terra dispensatrice di vita, nella frescura in cui il corpo distende le membra impigrite, sulla rugosa scorza accarezzata come se fosse virente,

mentre

“saltella un pettirosso incuriosito” (Tiglio).

Come in una “tavolozza di un pittore / invaghito del suo più caldo amore”, il mondo si colora di iridi un po’ per tutta la raccolta, da quelli solari e aurei a quelli argentati, ma la lirica che ne raccoglie le sfumature più sottili è Autunno a Glion, in cui un arcobaleno sembra si stagli sulle stagioni e sulle foglie in una “esplosione di colori”:

“Rosso tendente al giallo, giallo ocra
verdegiallo, tutto verde, sempre verde,
letto colorato […], verde pallido
erba di una novella primavera?”.

Ogni prospettiva, soprattutto quella della rinascita e della speranza, è affidata alla complice presenza della natura, e una poesia che racchiude questa simbiosi affascinante, sia nelle immagini che nel vissuto, è Risveglio:

“Voglio arrivare a primavera,
con tenere foglie di pallido verde
e userò l’azzurro del cielo a cornice”.

È un sogno che accompagna tutta l’esistenza di una donna, fin dalla prigionia della scuola (“I banchi di scuola imprigionavano / le mie gambe e la mia fantasia”):

“Sognavo le capriole nei prati
aprire le braccia come le farfalle
dormire nell’erba avvinghiata alla terra
e aprirmi come fanno i fiori all’alba
per tuffarmi nella rugiada” (Come fanno i fiori).

Dall’alba della vita alla evanescenza dei giorni: ogni giorno “siamo sempre più vecchi”, ma anche in questo fluire di aurore, giorno dopo giorno, le mani si sciolgono, nella notte, perché filtri tra le “rattrappite dita” il sogno della vita che si rinnova insieme alla natura generatrice di speranza.

Morte e speranza – una speranza che “va oltre” il tempo? – è il tema profondo e ardito dell’ultima lirica, diversa dalle altre nella struttura e nei contenuti ma in realtà ad esse collegata per quell’atmosfera di “sogni” spezzati: è la poesia, tragica e storica, dei bambini ebrei deportati da Praha, che nel 1941 “partirono” per non tornare mai più (Disegni). Qui l’autrice si fa al contempo cronista e madre. L’itinerario va dal trastullo infantile, con un indugio narrativo, che sembra voler soffermare quei “disegni” sul limitar di Dite – per dirla col Foscolo –, alla morte, dalle illusioni spezzate ai grandi incubi della storia accecante: quando venne a rompere di colpo i loro giocattoli che i bimbi non potevano neppure capire. Con una mano stringendo la mamma e il papà e con l’altra le matite colorate, questa pietà – come non pensare alla “Pietà” di Michelangelo? – del nostro secolo è scolpita nella pietra di mille “dolcissimi nomi”. Una voce di silenzio che domanda il pianto, e che chiede che il mondo diventi migliore (pagine 5-10). [Francesco di Ciaccia]

 

 

 

 

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