2001 – Manifestazioni demoniache
Federico Borromeo, Manifestazioni demoniache, Prefazione di Franco Buzzi, Postfazione di Gabriella Cattaneo, Traduzione e note di Francesco di Ciaccia, Milano, Terziaria (Testi 7, Collana diretta da Francesco di Ciaccia), 2001, pp. 140.
In copertina: Disegno di Stefano Martino (gruppo Bonelli)
Copertina colorata da Gianmauro Cozzi
Presentazione
[Alcuni appunti ai diavoli del cardinal Federigo, dalla Postfazione di Gabriella Cattaneo]
La conoscenza del mondo extraeuropeo era, a quei tempi, limitata e soprattutto mediata attraverso testi e cronache poco precisi e saturi di preconcetti, non molto diversi dal capostipite Milione di Marco Polo; testi che, però, erano presi sul serio. La meticolosità di Federigo nel cercare e citare le sue fonti sull’Asia, l’Africa e le Americhe risulta, perciò, vanificata dall’inattendibilità delle notizie e delle descrizioni antropologiche cui egli attribuisce piena fiducia.
Ecco, quindi, comparire popoli afflitti da licantropi, considerati sotto influsso demoniaco, in un vago Settentrione, in cui pare che i Lapponi sintetizzino tutti gli orrori possibili e immaginabili. Eppure, tra improbabili lotte tra streghe e licantropi fomentati dai diavoli, emerge un’interessante ipotesi: che possano essere dei maghi a trasformarsi in lupi. Nella mitologia di alcuni popoli, come i nativi americani, uno stregone che si è votato alla magia nera è in grado di trasformarsi in animale: i Navajo chiamano appunto gli stregoni “lupi navajo”, e analogo fenomeno esiste nell’immaginario dei lontani popoli delle pianure, come i Lakota.
Ecco popoli naturalmente atei, poiché mancavano due secoli alla nascita di un’antropologia religiosa che stabilisse che nessun popolo è naturalmente privo di religiosità. Ecco curiose notizie sui cinesi monoteisti che adorano un unico Re del Ciclo: notizia che per altro merita un approfondimento.
Non è forse possibile che tale credenza, diffusa nell’Europa secentesca, nascesse da una confusione geografica e si riferisse al mito indo-tibetano del Re del Mondo, abitante a Shambalah, la città fisica e metafisica nel contempo, collegata a tutti i luoghi del mondo e al di fuori di esso? Non è, per altro, improbabile che nella Cina, terra di diffusione missionaria dell’induismo-buddhismo, il mito fosse diffuso e che lì ne abbia avuto notizia qualche viaggiatore europeo.
Altrettanto diffusa quanto la licantropia del Settentrione sembra a Federigo l’antropofagia negli altri continenti; ed egli è certo che essa si colleghi alla presenza demoniaca. Probabilmente non poteva pensare diversamente due o tre secoli prima che l’antropologia spiegasse il cannibalismo come prevalente forma rituale, che permette a chi si ciba di determinate parti di un defunto di ereditarne i caratteri più ammirevoli, quali il coraggio in un nemico vinto o la saggezza in un antenato.
Altro elemento chiarito solo più tardi in sede antropologica è la valenza ancipite del serpente, mortale e salvifico, segno cosmico e totalizzante, scelto nel linguaggio veterotestamentario per significare la tentazione e il peccato di Adamo, e probabilmente non perché i serpenti sono fondamentalmente vermi come afferma l’autore, ipotesi originale anche dal punto di vista zoologico.
Un interessante elemento cui Federigo accenna, probabilmente senza poter possedere una precisa conoscenza della mitologia nordica, è quello degli “omiciattoli pelosi” presenti nelle miniere e da lui assimilati a demoni: essi, in realtà, sembrano somigliare molto al “Piccolo popolo” della tradizione celtica o forse ancor più ai folletti di quella sassone, custodi per l’appunto dei tesori custoditi sotto la terra, compreso l’oro delle miniere. Sia gli uni, sia gli altri, sono antropologicamente da assimilare a divinità ctonie. Anche se Federigo avesse potuto averne nozione, tuttavia, li avrebbe considerati demoni, come fa di tutte le divinità pagane.
È interessante osservare come Federigo, che pure fu grande studioso della cultura classifica, consideri divinità, semidivinità e personaggi classici come demoni: tali sono per lui tutti gli oracoli, i fauni. In questa visione egli si allinea con la più antica tradizione apologetica e patristica, che demonizzava tutti i culti pagani, se non riusciva a trovare nei miti una così forte analogia con il credo cristiano da assimilarveli (come nel caso di Perseo-S. Giorgio).
Vi è però una curiosa debolezza da umanista: l’affermazione apologetica nei confronti del mondo romano che non avrebbe praticato né permesso la magia. Ora, chi conosce l’opera degli scrittori latini più noti, da Orazio ad Apuleio al Satyricon, non può ignorare che il popolo romano era dedito ad ogni tipo di culti magici, bianchi e neri, e non sempre solo a livello popolare. Evidentemente Federigo ha idealizzato l’antica Roma, pur condannandone il paganesimo, e la vuole proporre come modello di società.
Altro aspetto in cui Federigo riprende la cultura classica è la ripartizione della parte principale del libretto, in cui la locazione dei diavoli è suddivisa tra gli elementi costitutivi del cosmo, quali li avevano ipotizzati già i filosofi presocratici: i suoi demoni della terra, dell’aria, dell’acqua e del fuoco apparirebbero essenzialmente degli “elementali” ad un alchimista o in generale a un esoterista, ma certo Federigo non sarebbe per niente soddisfatto di tale associazione…
Vi sono categorie di persone che Federigo aborre ed associa immediatamente alla presenza demoniaca: i cabbalisti, i medici empirici, i filosofi naturali.
Che cosa intenda per i primi rimane piuttosto oscuro: non sembra riferirsi all’antica numerologia babilonese, per altro assunta pienamente dall’Antico e dal Nuovo Testamento nell’uso simbolico dei numeri; e nemmeno alla Kabbalah come sapienza iniziatica di ambiente ebraico, sviluppatasi nell’era volgare. Forse usa il termine come sinonimo di magia? Di astromanzia o cartomanzia? Anche il termine “necromanzia” è usato impropriamente, ma nel senso comunemente attribuitogli già dal Rinascimento: II Negromante dell’Ariosto si riferisce già ad uno stregone nero, e non ad uno dedito alla rianimazione dei cadaveri grazie ad arti demoniache, come indica propriamente la definizione.
I medici empirici sono l’oggetto comune degli strali di tutta la cultura artistotelico-tomista del Seicento, come i filosofi naturali, ovviamente empirici e non aristotelici: la testimonianza migliore è data dall’opera di Galileo: Federigo, quindi, si allinea perfettamente alla cultura del suo tempo, cosa inevitabile per un uomo di fede per cui la cultura aristotelico-tomista è l’unica veridica ed ortodossa.
La condivisione dei presupposti culturali del tempo è evidente anche nella citazione della teoria degli umori, anche se il collegamento tra umore melanconico e pratica della necromanzia è un’osservazione aggiuntiva.
Perfettamente coerente nella sua logica, certo più secentesca che umanistica, è la concezione che i demoni siano brutti, sporchi e piuttosto schifosi, come gli idoli, naturalmente, perché vogliono farsi temere più che amare, per contrapporsi a Dio che desidera essere amato. La stessa concezione aveva spinto gli artisti medioevali a rappresentarli come mostri, draghi e minacciosi felini, mentre il Rinascimento aveva adottato una concezione opposta: quella della bellezza e del fascino del diavolo, certo più efficace per indurre l’uomo in tentazione rispetto all’orrore. Infatti nell’arte rinascimentale la testa di drago del serpente attorcigliato all’Albero della tentazione era stata sostituita da una graziosa testa umana e talora anche da un tantalizzante busto femminile (come in Paolo Uccello, van Eyck, Michelangelo e moltissimi altri).
Giorgio Cosmacini, Quando il diavolo era nemico della scienza, «Corriere della Sera» Elzeviro Federico Borromeo e l’aldilà, giovedì 2 agosto, 2001, p. 33.
II Seicento fu, com’è noto, il secolo che vide nascere quel movimento culturale che gli storici della scienza e delle idee definiscono «rivoluzione scientifica» (e associano, soprattutto in Italia, al nome di Galileo): un movimento di radicale trasformazione dei principi e dei metodi del sapere, che investì anche le scienze medico-naturali. Fu allora che la medicina incominciò ad acquisire quelle basi scientifiche che anche i medici di oggi pongono a fondamento della loro pratica clinica. Una logica stringente seppe aprirsi il varco fra le ridondanze esornative della retorica barocca; il rigore dell’esperimento e del ragionamento riuscì a farsi strada in una ridda di superfluità, d’iperboli, di orpelli, di bizzarrìe. Il Seicento, insomma, fu un secolo dalle molte ambiguità: antica dottrina degli umori corporei e nuova teoria del corpo macchina, pietra filosofale e chimica neonascente, magia da negromanti e filosofia di naturalisti, segreti cabalistici e divulgazione scientifica, dosi cospicue di ciarlataneria e prodromi di medicina sperimentale.
Fu anche il secolo delle grandi pestilenze, esemplificate dalla peste di Milano descritta da Manzoni e dalla peste di Londra descritta da Defoe. Dalla Biblioteca Ambrosiana di Milano fu tratta qualche anno fa la Vita di Federigo Borromeo manoscritta da Biagio Guenzati, che ci fece edotti della «sollecitudine» con cui il provvido arcivescovo milanese seppe «procurare il pubblico bene» in sintonia con l’«operanza de’ decreti che sortivano dal Tribunale della Sanità». Dalla stessa Biblioteca Ambrosiana esce ora, per opera di Francesco di Ciaccia, la limpida traduzione dal latino delle Manifestazioni demoniache (Terziaria editrice, 2001) vergate nel 1624 dalla mano dello stesso cardinale Federico. «In un secolo dominato da una specie di febbre satanica o di effervescenza diabolica», scrive il prefatore monsignor Franco Buzzi, il cardinale contraddice gli errori deliranti di una mentalità «che arrivava a vedere abbondantemente nei fatti più diversi la presenza malefica del diavolo». Quasi alfiere delle scienze medico-naturali, il Borromeo afferma che «gran parte dei casi che potrebbero ricondursi all’intervento demoniaco sono rapportabili anche a malattie fisiche».
Nello scritto borromaico si inquadrano «incongruenze» che sono proprie della «cultura del tempo, lontana anni luce dalla nostra», commenta nella postfazione Gabriella Cattaneo. «Le parti del mondo che differiscono completamente tra loro sono certamente il Meridione e il Settentrione», scrive il cardinale, che aggiunge: «II Settentrione ha cattiva fama per l’affluenza di Spiriti maligni»; esso «è la sede specifica dei demoni». Il Meridione non è da meno: «i meridionali», scrive, «sono più superstiziosi e ripongono maggior fiducia nella religione»; però in quella «scelleratissima materia» che è la «medicina empirica», che contesta la dottrina la dottrina medica imperante nelle cattedre, «i meridionali hanno prodotto una tale quantità di scritti che a mala pena si possono contare». Settentrionali o meridionali, «non ci si meravigli che i demoni abbiano un dominio così vario, per apprestare agli uni e agli altri una diversa occasione di peccato. Le pratiche stregonesche infatti sono state introdotte tra coloro che si riuniscono in nome del demonio; poi ci sono altri: quelli che si dilettano nelle scienze e nelle ricerche culturali; e altri, che godono nei conviti e nei piaceri libidinosi».
Non è in questa antropologia geografica equanime, che vede il Nord popolato da streghe e licantropi e il Sud da maghi e medici empirici, che può essere rintracciato l’«illuminato umanesimo cristiano» di cui fa cenno il prefatore. Ben più illuminato, come dimostrerà sei anni dopo con i suoi interventi contro la peste, il cardinale ci appare quando si sforza di rischiarare le menti e di placare gli animi, ottenebrati e turbati da testimonianze che parlano della capacità del Maligno di impadronirsi a suo piacimento di uomini e donne. «Credenze e dicerie», scrive il Borromeo, sono una «eco che rimbalza in valli e in monti» e che, quando «ha catturato le menti del popolo, più facilmente la gente presta fede alle visioni, va in cerca dell’arte dei maghi e allaccia rapporti coi demoni». La religiosità autentica, sembra dirci il cardinale, non si nutre di apparizioni, non è compatibile con pratiche miracolistiche, non ha niente da spartire con quei guaritori, sacri o profani, che vedono nei malati degli esseri posseduti dalle forze del demonio.
Il Borromeo crede nell’esistenza degli «ossessi» e nella virtù liberatoria degli esorcismi. Però cita Ippocrate: «Esistono malattie di tal genere per cui i malati ritengono di vedere i demoni che li assalgono». Sono malati «invasati o durante le fasi lunari, o per la bile nera, o per afflizioni». La demonologia federiciana si stempera e si problematizza nelle influenze dei ritmi naturali, del temperamento malinconico, della patologia mentale. Contro le deliranti credenze in voga, il cardinale Federico si assume, per certi aspetti, la luciferina parte del diavolo. [Giorgio Cosmacini]
Alessandro Zaccuri, Spettri, visioni e altre manifestazioni infernali in un testo del fondatore dell’Ambrosiana. Dylan Dog va a lezione dal cardinal Federico, «L’Avvenire», 29 agosto 2001, p. 21.
Chi l’avrebbe mai detto: anche il vampiro Lestat mastica un po’ di teologia. Lo scopriamo leggendo Il ladro di corpi di Anne Rice (Longanesi & C., pagine 480, lire 32.000), nel quale l’autrice più gothic-chic dei nostri anni costringe il suo tenebroso antieroe a destreggiarsi tra disquisizioni sulla natura dell’anima, dispute esegetiche sul Genesi e, più che altro, ardue ricognizioni nelle fonti dottrinali del Faust di Goethe. Una conferma, se mai ce ne fosse bisogno, del legame strettissimo che corre tra molta letteratura “di genere” e gli insegnamenti tradizionali della teologica cattolica, che non di rado capita di ritrovare – sia pure stravolti – nelle pagine di autori come la stessa Rice, una scrittrice che anche nella vita privata non disdegna pose da gran sacerdotessa di culti esoterici.
Non stupisce, quindi, che le illustrazioni della prima edizione italiana delle Manifestazioni demoniache del cardinale Federico Borromeo (Terziaria, pagine 140, lire 22.000) siano state affidate a Stefano Martino, uno dei disegnatori che solitamente fissano sulla carta le avventure dell’«indagatore dell’incubo» Dylan Dog. Ma la circostanza non deve trarre in inganno: tradotti e annotati da Francesco di Ciaccia (uno studioso che ha già dato importanti contributi di argomento secentesco), i Parallela cosmographica de sede et apparitionibus daemonum sono un‘opera che non concede nulla al gusto del macabro e ha anzi tra suoi obiettivi – come giustamente sottolinea nella sua introduzione monsignor Franco Buzzi – il superamento di ogni credenza superstiziosa, a tutto beneficio di un’interpretazione il più possibile «razionale» dei fenomeni presi in esame.
Non ci si poteva aspettare niente di diverso da un cardinale umanista come Federico, fondatore della Biblioteca Ambrosiana, ma anche pastore equilibrato e attento (sono, vale la pena di ricordarlo, gli stessi elementi che Manzoni mette in risalto nel celebre ritratto del Borromeo incastonato nei Promessi Sposi). Certo, anche il cardinale fu uomo del suo tempo, come dimostrano i pur rari processi per stregoneria celebrati nella diocesi ambrosiana durante il suo episcopato e come testimoniano anche numerose annotazioni delle Manifestazioni demoniache.
Il cardinal Federico, per esempio, non è disposto a credere che «gli spettri e le visioni che si presentano intorno alle miniere di metallo» possano essere spiegati facendo ricorso a «elementi e cause naturali», ma d’altro canto esamina con estrema prudenza leggende come quella del «Purgatorio di San Patrizio», la località irlandese dove – secondo la tradizione popolare – si troverebbe uno degli ingressi per accedere al mondo ultraterreno. In particolare, il Borromeo respinge dicerie e profezie sull’avvento dell’Anticristo, dimostrando di considerare ormai superata quella prospettiva apocalittica che, dopo essersi più volte affacciata nel corso del Medioevo, era di nuovo tornata con prepotenza sulla scena all’epoca della Riforma luterana.
Sarà anche vero (come annota in conclusione la storica dell’arte Gabriella Cattaneo) che le Manifestazioni demoniache sono un testo di «carattere eurocentrico», privo cioè di qualsiasi cautela antropologica nella valutazione di notizie provenienti da contesti culturali diversi. Ma si tratta, ancora una volta, di un elemento che appartiene a tutta la stagione di cui il cardinale Federico fu protagonista e interprete. Ancora un paio di secoli (l’opera andò in stampa per la prima volta nel 1624) e le rigorose argomentazioni da lui addotte avrebbero finito per alimentare la grande officina del romanzo gotico. Non senza essere passate attraverso l’insospettabile laboratorio del dottor Faust, lo stesso personaggio che, nel Ladro di corpi, attira l’attenzione dell’inquietante Lestat. [Alessandro Zaccuri]
Luca Orsenigo, L’artiglio del demonio dietro maghi e fattucchiere, «Il Gazzetino», 2 ottobre (2001) p. 1 di Cultura & Società.
Non c’erano solo maghi e fattucchiere nel 1600 ad incarnare ogni male. A monte viveva e prolificava il demonio, che si manifestava sotto le forme più diverse e comunque sempre in modo tangibile per quanto subdolo, perché se le epoche ancora precedenti ebbero un maggior numero di maghi, è perché allora, nel 1600, “più che per l’addietro, si dispongono misure punitive contro tal genia d’individui, Costoro un tempo agivano con tanta libertà, da istituire scuole pubbliche di questa dannosissima arte nefanda”. Lo afferma, o meglio lo affermava, il Cardinal Federico Borromeo, quello ritratto dal Manzoni per intendersi, nel suo “Manifestazioni demoniache” (Terziaria ASEFI) datato appunto 1624 e preceduto da una dotta introduzione di Monsignor Franco Buzzi dell’Ambrosiana di Milano. Si tratta della prima traduzione dal latino del “Parallela cosmographica de sede et apparitionibus daemonum”.
Liber unus, che se certo riveste interesse per gli studiosi, ai profani può sembrare nient’altro che un divertente libretto sulle credenze degli antichi.
E insomma non siamo molto lontani dal vero a ben guardare. È certo che di Federico qui appare anche “lo spirito di serena valutazione, di innato senso della misura”, da buon umanista, e che infine è necessario fare i conti con la cultura di quei tempi senza voler chiedere l’impossibile, ma è anche vero che da un dottore della Chiesa è richiesto qualcosa di più della codificazione della vox populi e dell’ipse dixit della filosofia aristotelica, anche e soprattutto attorno a temi delicati come la salvezza delle anime, qui viste sostanzialmente come sottoposte a continua e indomita tentazione, con buona pace della misericordia divina.
Il mondo appare infatti popolato da streghe e demoni in misura esponenziale più ci si allontana dalle terre conosciute, tanto che se non si è saldamente ancorati al centro dell’Europa, (e della cristianità) ma si abitano lande desolate e, soprattutto sconosciute anche al Borromeo, si è non solo più facilmente preda di incantesimi e malefici, ma se ne incarna in qualche misura lo statuto e poco manca a essere considerati demoni tout court a causa del luogo in cui ci si è trovati a vivere, privati magari della luce del cattolicesimo. Così, nel lodevole tentativo di elencare quei comportamenti dietro i quali si celerebbe l’opera del maligno, si fa d’ogni erba un fascio e della generalizzazione vuota affermando magari che “gli orientali hanno di più la tendenza all’ira, all’odio, alla rissa; gli occidentali, alla lussuosità e alla libidine. L’avarizia è maggiore nel Settentrione che nel Meridione…”, o che “la disgraziata genia degli zingari mai si è diffusa nel Settentrione, ma sempre nel meridione, e da questa zona trae l’inclinazione a rubare e l’istinto di imbrogliare”. E i diavoli in persona? Loro, “come godono tanto dello squallore delle lande desolate, così cercano luoghi sozzi e sporchi con non minore bramosia” ma abitano le case della gente perbene si direbbe, perché le loro manifestazioni sono più evidenti “proprio là, dove si conduce una vita più santa e pura”. Meglio non fare del bene allora se non si vuole essere tentati di fare del male per rimediarvi, non è vero? L[uca] O[rsenico]
Andrea Rognoni, Il cardinale che andava a caccia di fantasmi, «laPadania», sezione «Nord Cultura», martedì 13 novembre 2001, p. 12.
Francesco di Ciaccia è sicuramente uno degli studiosi di storia della spiritualità più originali e fecondi. Cacciatore di testi semisconosciuti, obliati o per troppo tempo ritenuti marginali, ha saputo ricostruire, tra l’altro, l’umore culturale ed ideologico che animava la Chiesa del Seicento nelle terre padane. L’ultima fatica riguarda appunto l’illustrazione della “dotta ossessione” del cardinal Borromeo per tutti quei demoni che infestano i comuni mortali.
A partire dal basso Medioevo ricercatori ed inquisitori, sia laici che ecclesiastici, si sono affannati a comprendere e classificare tutte le forme di quel curioso fenomeno che ancora oggi viene chiamato “possessione diabolica”. Secondo l’interpretazione psicologica e teologica di quegli illustri demonologi le forze del male non si limiterebbero a tentare le creature, ma arriverebbero a impregnare aria, case e luoghi naturali della loro essenza pervertitrice, riuscendo in certi casi ad entrare nel corpo di alcune “vittime”, pronte per una serie di mancanze e debolezze ad accettare la conquista fisica e mentale da parie di Belzebù e affiliati.
Ancora oggi i posseduti devono ricorrere ai cosidetti “esorcismi”, praticati da figure che in virtù della tonaca che portano possono per mettersi in forma e ruolo esclusivi di intrattenere una sfibrante sfida col Nemico, per scacciarlo definitivamente dai poveri corpi a suon di formule catechistiche.
All’inizio dell’età moderna, la lotta contro Satana si era fatta acerrima ed esiziale per il destino dell’Intera comunità dei fedeli (giustamente gli storici delle religioni hanno parlato di “città assediata”): cosi nell’agone decisero di entrare gli stessi responsabili di diocesi ed arcivescovati, arrivando a scrivere profondi trattati sui meccanismi “infestanti”.
Le “Manifestazioni demonlache” di Federico Borromeo (edizioni Asefi, 2001, lire 22.000, con prefazione di Franco Buzzi e postfazione di Gabriella Cattaneo) vengono tradotte dal latino (titolo originale “Parallela cosmographica de sede et apparitionibus daemonum”) e puntualmente commentate dal Di Ciaccia, con note che ci riportano volta per volta alla fonte classica o alla fonte biblica, sottolineando anche lo sforzo di serietà scientifica attuato da un cardinale che è diventato famoso grazie soprattutto alla parentela con Carlo e alla lotta caritatevole contro povertà, carestia e peste raccontata nei Promessi Sposi.
Borromeo spiega tempi e luoghi infestati dal demonio ed i suoi servi. Certi particolari risultano davvero illuminanti: «Evitano le cime dei monti, perché gli infelici che essi conducono con sé non facciano troppa fatica per la dura salita…». Ecco invece i demoni padroni dei luoghi solitari e sporchi. Ad esempio agiscono «immersi nelle cloache e negli stagni fetenti». Ma la residenza preferita è costituita dalle miniere di metallo.
Il cardinale illustra poi il modo col quale i fantasmi malvagi si insinuano nelle acque che beviamo nell’aria che respiriamo.
La parte del libro sicuramente più interessante è quella finale, in cui viene spiegata la diversa predisposizione dei vari popoli che abitano la terra all’infestazione e possessione diabolica.
L’opposizione psicofisica e caratteriale tra popoli settentrionali e popoli meridionali sarebbe stata studiata da Belzebù con la stessa cura impiegata dal medico o dallo psicologo per agire con più efficacia nel suoi interventi chirurgici a seconda di indole e costituzione. Cosi ad esempio si scopre che gli indiani cadono maggiormente nelle trappole delle “tentazioni diaboliche” legate alla carne e al sesso rispetto gli europei, riuscendo perfino a contagiare di ingordigia i “poveri occidentali” che hanno avuto la malaugurata idea di frequentare le loro terre. [Andrea Rognoni]
Redazionale, «Jonathan Steele», N.° 32, Novembre 2001, p. 4.
E ora, spazio a una segnalazione. Ci piace farvi conoscere una curiosa iniziativa che coinvolge anche un disegnatore della nostra Casa editrice. Si tratta di Stefano Martino, attualmente alle prese con le avventure di Legs Weaver ma che, in passato, ha fatto parte dello staff di Jonathan Steele. L’iniziativa è quella della prima edizione in italiano delle “Manifestazioni demoniache” del cardinale Federico Borromeo, un trattato in cui l’alto prelato (vissuto tra il XVI e il XVII secolo) cercava di spiegare molti casi, apparentemente imputabili a un intervento demoniaco, con l’ausilio della scienza e della medicina. Il testo, davvero interessante, è accompagnato dalle illustrazioni del nostro Martino e si può chiedere ad ASEFI Editoriale. Siamo sicuri che risulterà una lettura illuminante persino nel mondo magico e pieno di strane creature in cui vive Jonathan Steele.
Attilio Agnoletto, «Terra Ambrosiana», N.° 5, Anno XLII/settembre-ottobre 2001, pp. 70-71.
La figura del cardinale Federico Borromeo, entrata nell’immaginario collettivo degli italiani come personaggio manzoniano, è stata sempre concretamente viva, nella cultura milanese, grazie alla Biblioteca Ambrosiana da lui creata. E spesso, nei suoi scritti, Federico fa riferimento a codici e a volumi “che si trovano – così si esprime – nella nostra Biblioteca”: lo fa anche in questo agile scritto, Parallela cosmographica de sede et apparitionibus daemonum. Liber unus, edito nel 1624 ed ora in prima traduzione italiana compiuta sul testo, catalogato “Borromeo 76”, della medesima Biblioteca.
La memoria di Federico Borromeo ha conosciuto un ulteriore impulso negli anni intorno al 1985, in occasione del secondo centenario della nascita del Manzoni. Molti furono gli scritti sul Cardinale, sia come personaggio d’arte, sia come personalità storica, ma ebbe il merito di avvicinarlo al gran pubblico lo studioso Armando Torno con la nuova traduzione del De Pestilentia di Federico, edita da Rusconi nel 1987 con il titolo La peste di Milano. L’opera registrò un vasto consenso di pubblico (due edizioni in due mesi), anche perché il tema è strettamente connesso con l’immagine federiciana del romanzo manzoniano. Da quel libro, grazie al bel saggio introduttivo del curatore Armando Torno, i lettori appresero anche quanto fosse fecondo il cardinale, in fatto di scritti. Federico Borromeo, amante degli studi fin da giovane, amò sempre dedicarsi alla lettura e alla scrittura: lo confidava egli stesso, nelle sue lettere e le sue numerose opere edite lo dimostrano. Ma ebbe poca fortuna, quanto alla divulgazione e traduzione dei suoi lavori, come ricorda del resto anche il Manzoni. Eppure, la sua penna, alacre ed insonne, ebbe modo di spaziare in tutti i campi, sia dello scibile, sia dei temi più scottanti nella sua epoca. Non è esagerato affermare che l’“Opera omnia” di Federico Borromeo rappresenta la “mappa” di un largo filone di pensiero del suo tempo. Molte sue opinioni apparivano già al Manzoni “piuttosto strane” o persino “malfondate”; né sembra che lo stesso Manzoni si accontentasse di “quella scusa così corrente e ricevuta, ch’erano errori del suo tempo, piuttosto che suoi”. Nella post-fazione al presente libro, Gabriella Cananeo, esperta di scienze religiose, ma anche di cultura classica ed umanistica, da una parte si rapporta alle idee dell’epoca federiciana, e dall’altra non cela le “incongruenze” del pensiero e dei ragionamenti del Cardinale, soprattutto in riferimento ai dati della cultura classica riguardo al demoniaco. Si può inoltre aggiungere che Federico ebbe a scrivere fin troppo, spesso ripetendosi. Ciò non toglie che diverse sue opere siano importanti: sia come documento storico-culturale, sia come testimonianza della ricerca della verità. Quest’ultimo aspetto è messo in risalto nell’Introduzione, erudita ed ampia, di mons. Franco Buzzi, dottore della Biblioteca Ambrosiana: Oltre l’angoscia di Satana. Il titolo stesso però focalizza l’immagine soprattutto del Borromeo “cristiano”: l’affidamento dell’uomo a Dio è un sicuro baluardo contro non solo i pericoli, ma anche contro la paura nei confronti del demoniaco. In un impianto più fenomenologico, il punto di vista è condiviso da Sergio Cosmacini, storico della medicina, nell’interpretazione esposta nel suo Elzeviro, “Quando il diavolo era nemico della scienza” (“Corriere della Sera”, 2 agosto 2001), in cui egli prende in esame il libro. Lo studioso termina l’intervento con questa frase scultorea: “Contro le deliranti credenze in voga, il cardinale Federico si assume, per certi aspetti, la luciferina parte del diavolo”.
Si deve dunque plaudire all’operazione editoriale che porta alla luce il breve scritto del Cardinale sul tema demoniaco (94 pagine, quelle dell’edito borromaico). Un tema molto sentito, all’epoca; ma ancor oggi diffuso. E anche oggi tra un mare di convincimenti diversi, di credenze magmatiche, di idee le più disparate. A leggere un consistente filone dell’odierna letteratura, sembra sembra che ci sia voglia del diavolo! Ma in questo scritto federiciano non si tratta del diavolo tentatore, del diavolo “con le corna”, cioè a immagine umana, come è nell’iconografìa più comune. Programmaticamente, qui è preso in considerazione l’apparire del demonio come “trasformazione”, o metamorfosi, dai quattro elementi: terra (suolo e sottosuolo), fuoco (vulcani compresi), acqua, aria. Non stupisce perciò, come osserva Alessandro Zaccuri nella sua recensione (“L’Avvenire”, 29 agosto 2002), che il libro sia corredato di disegni di Stefano Martino, che lavora per i fumetti dell’Editrice Bonelli: disegni di grande efficacia, anche per la giusta aderenza alle rappresentazioni demoniache esposte nel testo. Qui Federico soprattutto racconta: e nella sua scrittura il narrare è certamente il registro che lo rende più vivo, efficace. Sono credenze o fenomeni riferiti da terre lontane e vicine, in tempi recenti e in tempi passati: si gode anche di una considerevole fetta di letteratura delle superstizioni e degli esploratori nelle due Indie, nella Cina di Marco Polo, nell’Africa. La lettura è piacevole: la traduzione è estremamente rigorosa, filologica, corredata in nota delle varianti al testo edito, vergate di proprio pugno dal Cardinale. Ma è anche una prosa da “scrittore”, in cui il traduttore ha già dato, ormai, diverse prove in altri suoi lavori. [Attilio Agnoletto]
Luca Ceriotti, «Studia Borromaica», N. 15, 2001, pp. 273-277.
Chi desiderasse una edizione critica dei Parallela cosmographica de sede et apparitionibus daemonum di Federico Borromeo dovrà rivolgersi altrove. Non che si tratti di una pretesa gratuita, benché formulata a proposito di un testo regolarmente uscito alle stampe, a Milano nel 1624. Dopo aver letto il contributo che Franco Buzzi affida a questo numero di «Studia Borromaica», appare chiaro infatti come il Borromeo non operasse una netta distinzione concettuale tra redazione manoscritta e versione a stampa dei propri lavori, quanto piuttosto tra stampa e pubblicazione. Si possono pertanto considerare – ed egli stesso le considerava – le edizioni a stampa apparse durante la vita del cardinale o immediatamente dopo la sua morte quali stesure intermedie delle sue opere, sulle quali egli ancora insisteva con ripetuti interventi di affinamento e rielaborazione in vista di una ulteriore edizione, definitiva e postuma, che sola avrebbe dovuto essere diffusa tra i dotti, essere cioè resa pubblica. Poiché non sempre coloro i quali raccolsero l’eredità culturale del cardinale umanista portarono a compimento con adeguato puntiglio il progetto borromaico di pubblicazione dei propri scritti, si renderebbe dunque necessario un sistematico lavorio di integrazione dell’edito con le successive aggiunte e correzioni di mano dell’autore; lavorio che, nel caso dei Parallela cosmographica, si traduce almeno nella metodica collazione degli esemplari ambrosiani Borromeo.77 e Borromeo.76, entrambi impreziositi da un corredo non trascurabile di postille autografe (tra le quali, probabilmente, quelle di Borromeo.77 preludono alle altre di Borromeo.76).
L’iniziativa editoriale coordinata da Francesco di Ciaccia, tuttavia, non si prefigge tale compito, che non potrebbe prescindere tra l’altro da una introduzione critica in grado di far luce sulla storia del testo, indagando le istanze intellettuali che spinsero il Borromeo a cimentarsi in quelle pagine come pure le finalità che così egli si proponeva di raggiungere, e precisando magari, data appunto la limitatissima tiratura che caratterizzò l’editio princeps, la reperibilità degli esemplari superstiti. Il volume che qui si intende segnalare opta invece per una più agile divulgazione, offrendo al posto dell’originale latino la relativa traduzione italiana, peraltro annotata, anche tenendo conto in qualche misura dei marginalia di Borromeo.76, e accompagnata da due brani di commento, che rispondono allo scopo di suggerire una prima collocazione del breve trattato federiciano: da un lato, nella prefazione di Franco Buzzi, nel quadro delle timorose chiusure con cui tra Cinque e Seicento si affrontavano i temi dell’occulto, in confronto alle quali il cardinale dell’Ambrosiana dimostra una peculiare serenità di giudizio; dall’altro, nella postfazione di Gabriella Cattaneo, ricorrendo quale termine di paragone alla mentalità del XXI secolo, rispetto a cui il connotato di sobrietà proprio della visione federiciana appare ovviamente ben più vacillante.
Di là da quanto si possa, o meno, concordare con le scelte editoriali del curatore, gli va riconosciuto come un risultato importante sia stato comunque raggiunto: e non solo nel proporre nuovamente alla lettura un’opera che, come molte altre del prelato manzoniano, sembrava ormai irrimediabilmente obliata, ma anche nell’averlo fatto secondo una veste, sia grafica, sia linguistica, che non scoraggia coloro che non siano specialisti del periodo borromaico, né tantomeno quelli che non hanno particolare dimestichezza con il contorto latino del secolo barocco. Lo stringato, ma denso, scritto federiciano si apre così facilmente a una serie di considerazioni.
Innazitutto, già da una prima fugace lettura si ha la conferma di quanto Franco Buzzi avvertiva nell’articolo citato: quello dei Parallela cosmographica non è un testo definitivo. Da un lato, esso si interrompe tanto bruscamente, e senza avanzare qualsiasi conclusione, da sembrare pressoché mutilo. Non di rado, poi, si riscontra una scarsa aderenza tra l’intitolazione dei capitoli e il loro contenuto. Ancora, non mancano le incoerenze, per esempio in merito alla questione, che per il Borromeo non è certamente risibile, se le manifestazioni demoniache siano più frequenti oppure no nell’epoca a lui contemporanea e nei domini della cristianità (si confrontino in proposito le discordanti prospettive illuminate nei capitoli IV e XX).
Più in generale, lo svolgimento seguito dai Parallela cosmographica, talvolta criptico, quasi mai piano, costituisce un segnale della provvisorietà di una stesura che vuole essere ancora ripetutamente limata. Ed è questo un sicuro retaggio del metodo federiciano, che perviene alla redazione definitiva di un testo attraverso il reiterato riordino di una cospicua messe di appunti e citazioni, pur anche rappresentando con precisione la cifra stilistica del cardinale umanista, certamente più incisivo nell’afferrare allusivamente un pensiero o una immagine di quanto non lo sia nel sistemare organicamente una materia complessa; davvero brillante nella difficile arte di plasmare aforismi (quelli, per esempio, che costellano la Miscellanea adnotationum variarum), ma assai meno a suo agio nel progettare un trattato, quale i Parallela cosmographica vorrebbero essere.
In ogni caso, per quanto imperfetta (nel senso di non conclusa, si intende), l’opera federiciana induce a una serie di riflessioni. In primo luogo, viene da chiedersi, perché il cardinale la scrisse? Si possono avanzare alcune scontate osservazioni preliminari, ripensando alla celebre curiosità enciclopedica, che spronava il secondo Borromeo, e alla sua abitudine quasi maniacale di prendere appunti su qualsiasi argomento: si potrebbe inferire, un po’ banalmente, che il mecenate dell’Ambrosiana, avendo radunato sufficiente materiale in tema di demonologia, si fosse deciso a ordinarlo un po’ meglio (del resto, è questa una tecnica piuttosto diffusa tra i poligrafi cinque e seicenteschi; vi fa sovente ricorso, per esempio, Gerolamo Cardano).
D’altro canto il coinvolgimento borromaico con il paranormale non si esaurisce nei Parallela cosmographica. È del 1616 la stampa dei quattro «libri» De ecstaticis mulieribus et illusis (qualche anno fa anch’essi tradotti da Francesco di Ciaccia, sotto il titolo Da Dio a Satana. L’opera di Federico Borromeo sul «Misticismo vero e falso delle donne», Milano 1988), dominati dall’esigenza federiciana di distinguere la ‘vera estasi’ al cospetto del divino, dalla ‘illusione dell’estasi’ che il demonio talvolta induce nelle donne. Escono nel ’17, invece, i due «libri» De naturali ecstasi e De vario revelationum et illusionum genere. Pressoché in contemporanea con i Parallela cosmographica, nel ‘24 viene consegnato ai torchi tipografici il De cogitationibus quas habent demones. Ancora, sono del ‘27 i De cabbalisticis. inventis libri duo. E così via. Insomma, «occasionale» è un aggettivo inutilizzabile per connotare l’interesse che il cardinale Federico nutriva nei confronti dell’occulto. Ma, detto questo, bisogna anche segnalare come nei Parallela cosmographica una spiegazione compiuta delle ragioni di tale acribia non sia possibile rintracciarla.
Comunque, se poco si può dire sul perché Federico torni a più riprese su questi argomenti, qualcosa di più si può aggiungere sul come egli li affronta. Sono, questi, temi estremamente delicati e nel trattarli la prima cura di un vescovo della controriforma è non deragliare dai binari dell’ortodossia cattolica, al punto da ribadire espressamente la necessità di «lasciare il giudizio definitivo all’autorità della Chiesa e al sommo pontefice» (p. 37), restando «fuori discussione che non si intende allontanarsi dalla sua volontà in nessun caso» (p. 40). Per ulteriore precauzione, Federico sembra abdicare al desiderio di manifestare una posizione innovativa – in perfetta consonanza, comunque, con lo spirito di un’epoca che antepone il rispetto della auctoritas alla ricerca della novitas -, rifugiandosi piuttosto, e volontariamente, dietro a un approccio di natura compilativa.
In questo senso, assume particolare valore la gerarchia delle fonti, che il cardinale fa propria: al primo posto, come è ovvio, la Sacra Scrittura; poi gli antichi, classici e cristiani, rispetto ai quali, ancora una volta, egli dimostra una amplissima conoscenza; poi le opere degli storici, antichi e moderni, le descrizioni dei paesi di recente scoperta, i resoconti dei geografi e dei viaggiatori. Anche in questo caso, come sempre, l’universo delle letture federiciane si rivela strabiliante: il cardinale compulsa le carte di Abramo Ortelio (1527-1598), l’artefice del Theatrum orbis terrarum, frequenta le descrizioni di Olao Magno (1490-1557), legge la storia polacca di Martin Cromer (1512-1589), ritorna sul Milione, sulle narrazioni di Niccolo de’ Conti (1395-1469), sui racconti di Antonio Pigafetta (1480 c.-1536 c.), il compagno di Magellano; soprattutto, il cardinale raccoglie ed esamina tutto quanto si può trovare a proposito delle Indie e di altri esotici paesi, dagli scritti di Pietro Martire d’Anghiera (1457-1526), a quelli di Gonzalo Fernandéz de Oviedo (1478-1557) e Bartolomé Carreño (sec. XVI).
Massime la Bibbia, dunque, con qualche lieve precauzione gli antichi, non indiscriminatamente i moderni, tutte queste fonti contribuiscono a rimpinguare il sostanzioso coacervo di informazioni su cui il Borromeo costruisce le proprie osservazioni. Non che, al loro cospetto, egli rinunci completamente a esercitare un certo acume critico, sebbene, a proposito della Sacra Scrittura, ciò non possa esprimersi oltre un laconico ammonimento a scansare le «interpretazioni erronee» del testo, lanciato attraverso un significativo elogio della filologia (p. 45). Ciò nonostante, l’attendibilità e l’efficacia probatoria di quanto emerge da quelle fonti raramente divengono oggetto di disquisizione. Così per esempio, sulla base dell’autorità di Aristotele, per il cardinale Federico diventa indiscutibile l’asserzione che dalla neve imputridita possano nascere vermi (pp. 70 e 87; ma, come è noto, il succedasi di teorie sulla generazione spontanea della vita sarebbe andato ben oltre l’età federiciana: l’imputare al Borromeo l’aberrazione delle sue convinzioni naturalistiche sarebbe un peccato di antistoricità). Oppure, passando in rassegna alcune delle innumerevoli narrazioni che raccontano di terrificanti fortunali scatenati da demoni e di prodigiosi salvataggi di vascelli dovuti al provvidenziale intervento di angeli e santi (cap. XII, intitolato a Le acque), benché la plausibilità delle singole ricostruzioni sia spesso sottoposta a verifica, per linee più generali la reale possibilità che tali eventi si verifichino viene assunta dall’arcivescovo di Milano quale incontestabile a priori; mentre, altrove in Europa, vi era già chi riduceva tali contesti agli ambiti dell’immaginario, ricavandone preziosi escamotage letterari, come nella shakespeariana Tempesta.
A questo punto si rende opportuno sgombrare il campo da una questione di fondo: il cardinale Borromeo credeva nell’esistenza dei demoni e nell’effettivo ripetersi delle loro manifestazioni. E così era perché lo attestavano tanto le Sacre Scritture (Mt 12,43, citato a p. 59), quanto l’autorità della Chiesa (p. 85). Ma ciò non impediva a Federico di professarsi profondamente scettico in relazione a una molteplicità di fenomeni, cercando il più delle volte di raggiungere una spiegazione antropologica per quanto credenze e dicerie (che, rossinianamente, «si moltiplicano a partire da una sola voce, come avviene per l’eco che rimbalza in valli e monti», p. 63) solevano attribuire all’azione di forze oscure. Lo scetticismo federiciano si applica quindi ripetutamente, ma caso per caso, secondo un metodo collaudato, che egli stesso si cura di esplicitare: «Ho intenzione di narrare un altro episodio, e una volta narrato ci chiederemo se sia potuto essere vero un fatto cui ormai l’opinione comune da credito» (p. 81).
Si sarebbe tentati di azzardare un’ipotesi: che Federico, uomo di Chiesa e di cultura, viva intensamente il dissidio tra le ragioni della fede, che gli impongono di credere al discorso biblico cristiano sul demonio, e la fede in una ragione, che gli prescrive di discernere tra realtà e superstizione. Ma fare di Federico, in qualche modo, un razionalista ante litteram sarebbe davvero un azzardo. Anche perché si dovrebbe poi dire di lui che ostenta la tipica credulità degli scettici, tanto indaffarati nell’applicare l’elaborato strumentario delle loro erudite intelligenze per smantellare ogni singola fantasticheria, da non accorgersi di condividerne appieno i presupposti ideologici di base.
Altrimenti, si dovrà riconoscere che, per quanto colto, avveduto e scrupoloso, Federico è comunque un uomo del suo tempo. Si spiegherà così perché egli sappia affrontare con sereno distacco un tema scabroso quale è quello delle manifestazioni demoniache (andando, come ben sintetizza Franco Buzzi, «oltre l’angoscia di Satana»); si capirà come egli sia in grado di abbracciare nel contesto della trattazione tutto il mondo conosciuto, senza invece limitarsi ai soli confini della cristianità. Ancora, si comprenderà la sua acrimonia nel perseguire coloro che – i «medici empirici», in primo luogo – operando al di fuori della scienza ufficiale si approfittano della timorosa superstizione popolare (p. 105); mentre si intuiranno le ragioni del suo ritenere la stregoneria una male sì esistito e in qualche luogo ancora esistente, ma ormai, alle soglie del XVII secolo, in Italia pressoché debellato (non così nel resto d’Europa, però; p. 95). Si comprenderà, d’altro canto, come un personaggio capace di tali e altre aperture, complete o parziali che fossero, non si dimostrasse poi in grado di estraniarsi dai più vieti luoghi comuni razziali (p. 103, per esempio), né di distinguere tra superstizione, idolatria e religiosità politeista di alcuni popoli extraeuropei. Qualcuno dirà che non sapere accettare la diversità, soprattutto in ambito religioso, è il segno di un atteggiamento retrivo. Ma volere anche questo, da un pastore della controriforma, sarebbe davvero pretendere troppo. [Luca Ceriotti]
Paolo Poli, Quel Borromeo, «Studi cattolici», n. 489, Novembre 2001, p. 824.
I biografi di Federico Borromeo, Rivola e Ripamonti su tutti, ci informano con dovizia di particolari sull’attività di studio del cardinale umanista, che letteralmente non aveva tregua; egli, per esempio, si era fatto apprestare una bibliotechina portatile che lo seguiva durante le visite pastorali e perfino durante le sedute di tonsura continuava nel suo lavoro, correndo il rischio «di essere offeso col rasoio per lo continuo moto del leggere e dello scrivere». Sappiamo inoltre, per sua stessa ammissione, che le modalità del governo della sua sete di conoscenza erano uno dei temi ricorrenti nei colloqui con il suo direttore spirituale, san Filippo Neri. Non stupisce dunque che alla morte di Federico Borromeo si siano potuti raccogliere ben 146 volumi di manoscritti, dai quali, nel corso degli anni, sono già stati tratti 127 libri a stampa, sugli argomenti più vari, a testimonianza dei multiformi interessi del cardinale. Un esempio eloquente dei lati meno noti, ma indubbiamente suggestivi, della produzione federiciana è questo Parallela cosmographica de sede et de apparitionibus daemonum. Liber unus, pubblicato a Milano nel 1624, che appare ora in prima traduzione italiana per opera di Francesco di Ciaccia, già traduttore del De estaticis mulieribus et illusis. Il testo è arricchito da puntuali note redatte dallo stesso traduttore in buon stile divulgativo ed è presentato da una significativa prefazione di mons. Franco Buzzi, Direttore dell’Accademia di San Carlo e Dottore della Biblioteca Ambrosiana; nelle ultime pagine del libro si legge infine una postfazione di Gabriella Cattaneo, docente presso l’Istituto di Scienze Religiose di Milano. Una menzione particolare merita la veste editoriale del volume che attualizza il testo seicentesco attraverso alcuni efficaci accorgimenti, primo tra tutti l’inserzione di cinque tavole illustrate, realizzate in chiave fantasy da Stefano Martino, un disegnatore dell’editrice Bonelli (Dylan Dog, Martin Mystere…). In questa stessa linea è forse da interpretare la contrazione del titolo italiano che tuttavia, nella nuova versione, non dà conto del vero tono dell’originale; esso infatti sviluppa riflessioni quasi più di carattere psicologico, antropologico ed etnologico che strettamente demonologico. Il demone indagato è sempre un demone di un luogo, sia esso inteso come ambiente (paludi, montagne, mari, boschi o deserti) o regione (Settentrione, Meridione, Oriente). Il cardinale ragiona con finezza e ricchezza di fonti in merito alla plausibilità delle manifestazioni attestate, applicando di volta in volta concetti di psicologia delle percezioni, nozioni di scienze naturali, considerazioni spirituali di ascendenza ignaziana, sottili analisi di antropologia culturale quale quella, sostanzialmente bipartisan, sulla differenza tra settentrionali e meridionali proposta ai capp. XIV e XV. Su tutto traspare poi un buon senso tutto ambrosiano che non manca, in qualche occasione, di assumere tonalità bonariamente umoristiche. [Paolo Poli]
Attilio Agnoletto, «Humanitas», 3 (2002), pp. 511-512.
Sembra doveroso ed utile segnalare questa opera raramente conosciuta di Federico Borromeo, che nel testo originale suona Parallela cosmographica de sede et apparitionibus daemonum, nella agile e preziosa traduzione di Francesco di Ciaccia. Il libro, pubblicato dalla Terziaria, è prefato da mons. Franco Buzzi e reca una pregevole postfazione della professoressa Gabriella Cattaneo.
È interessante notare che Buzzi insiste sul «profondo ottimismo cristiano» di Federico Borromeo (p. II). «Infatti», egli dice, «ogni lato oscuro della realtà è destinato, nella visione sostanzialmente serena di Federico, a lasciarsi illuminare dalle ricerche della ragione e dalla luce soprannaturale della rivelazione» (p. II). Ecco quindi, per Franco Buzzi, Federico umanista, che ha qui «fiducia nei progressi della scienza». A questa visione, diremo quasi serena, di un mondo sconosciuto per l’uomo e, da secoli, oggetto di curiosità, si contrappone la postfazione oltremodo interessante della storica dell’arte Gabriella Cattaneo che, come afferma ella stessa, facendo «la parte del diavolo» (p. 131), vanifica l’attendibilità delle fonti di cui si avvale Federico Borromeo, definendole «testi e cronache poco precisi e saturi di preconcetti», inserendo completamente l’Autore nella cultura del Seicento e nella scuola aristotelico-tomista, definendo la sua logica «più secentesca che umanistica» (p. 134).
In questi due autorevoli giudizi, Federico appare di fronte a noi come una personalità complessa e, vorremmo dire, a volte contraddittoria. Il Manzoni, che tanto aveva esaminato questa singolare figura, ci dice ne I promessi sposi: «Se volessimo lasciarci andare al piacere di raccogliere i tratti notabili del suo carattere, ne risulterebbe certamente un complesso singolare di meriti in apparenza opposti, e certo difficili a trovarsi insieme […] Non dobbiamo però dissimulare che tenne con ferma persuasione, e sostenne in pratica, con lunga costanza, opinioni, che al giorno d’oggi parrebbero a ognuno piuttosto strane che mal fondate; dico anche a coloro che avrebbero una gran voglia di trovarle giuste. Chi lo vorrebbe difendere in questo, ci sarebbe quella scusa così corrente e ricevuta, ch’erano errori del suo tempo, piuttosto che suoi, scusa che, per certe cose, e quando risultano dall’esame particolare dei fatti, può avere qualche valore, o anche molto; ma che applicata così nuda e alla cieca, come si fa d’ordinario, non significa proprio nulla. E perciò, non volendo risolvere con formole semplici questioni complicate, né allungar troppo un episodio, tralasceremo d’esporle […]» (cap. XXII, p. 539).
Il Buzzi accenna un cammino per una indagine il più possibile completa e sottile del carattere di Federico Borromeo: ringraziando il di Ciaccia, curatore dell’opera e «profondo studioso di storia religiosa della prima età moderna», ne indica un’altra traduzione di un’opera federiciana: De ecstaticis mulieribus et illusis. Il volume, pubblicato da Xenia nel 1988, sembra puntualizzare sottilmente, secondo la scienza del tempo, il fenomeno mistico delle donne, soprattutto nelle claustrali, esaminandolo sotto l’aspetto «psico-fisiologico».
Questo scritto del Cardinale aggiunge luci ed ombre nella complessa personalità, soprattutto se si pensa che Federico Borromeo fu il biografo più attendibile di una mistica senese: suor Caterina Vannini. A questo proposito, il Borromeo, proprio per quanto riguarda i demoni e le apparizioni, scrive nel volume che presento: «[…] possiamo affermare che l’incursione e le infestazioni dei demoni sono manifeste proprio là, dove si conduce una vita più santa e pura. Lo dimostrano gli esempi dei monaci antichi, anche quando si trovavano in mezzo alla gente in città. Né tralascerei ciò di cui siamo venuti a conoscere in tanti anni trascorsi nella guida di questa Chiesa: quei monasteri delle sacre vergini dove fioriscono in sommo grado la santità di vita, la disciplina religiosa e tutte le virtù, sono infestati da malefici, incantesimi, strepito di demoni, tentazioni strabilianti: al contrario, dove la condotta di vita è più rilassata, quasi nulla del genere succede» (pp. 54-55).
Va ricordato qui, con una certa mia perplessità, che nel carteggio Borromeo-Vannini (conservato presso la Biblioteca Ambrosiana) mancano le lettere del Cardinale. Ho inteso tracciare una linea che ricostruisse o, almeno, desse una logica a questa personalità prettamente secentesca. Vorremmo terminare citando il cap. XX («Gli ossessi»), in cui il Cardinale afferma «l’esistenza dei demoni» (p. 122).
Il demone o «assedia e circonda il corpo dell’uomo», procurando così l’ossessione, o «entra nel corpo dell’uomo, vi abita, si serve delle sue membra facendogli compiere cose insolite», procurando la possessione (cfr. nota 1, p. 121). Il simbolo dell’ambivalenza bene-male, Dio-Satana può essere esemplificato nelle pagine riguardanti i licantropi: «Infatti», dice Federico Borromeo, «per astuzia del reprobo demonio, per la quale alimentano in perpetuo la guerra tra maghe e licantropi, i licantropi combattono di continuo le donne, e sferzano, uccidono, feriscono le maghe, atrocemente. Penso che in questa faccenda i demoni si servano di tale macchinazione, certamente per convincere i licantropi di avere a cuore la salvezza degli uomini e che quella vendetta [contro le maghe] è la preoccupazione di animi generosi […]».
Giochi di immagini in uno specchio, sembianze che appaiono operando nell’occulto: non soltanto nella credenza secentesca, ma anche, e soprattutto nell’animo umano, fino ai nostri giorni. [attilio agnoletto]
Luciano Nanni, Literary.it, 3 (2012).
Il ‘Parallela cosmographica de sede, et apparitionibus dæmonum’. – Liber unus’ apparve a Milano nel 1624: nove anni dopo Galileo veniva processato per eresia. L’opera va quindi inquadrata nell’ottica del tempo. In bilico tra due tendenze, tuttavia il Borromeo mostra alcuni tratti di buonsenso a proposito dei ‘deliri dei cabbalisti’ (La notte e il giorno), in dubbio se non altro ‘tra testimonianze serie e la ragione umana’ (Le acque). Siamo quindi in un punto di ‘equilibrio’, poiché l’illuminismo è ancora di là da venire. In sostanza, un dato continuo emerge: i demoni sono nemici dell’umanità. Inoltre sembra che l’arte poetica sia lontana da ‘queste sciocchezze delle arti maligne’ (Umori del corpo e indole dell’animo). Utile e opportuno l’indice dei vari nomi: persone, luoghi, popoli e religioni.
Menzioni: Luca Ceriotti, Federica Dallasta, Il posto di Caifa. L’Inquisizione a Parma negli anni dei Farnese, Milano, Franco Angeli, 2008, p. 165, nota 97.
«([il breve trattato di Federico Borromeo, Parallela [in realtà Paralella] cosmographica de sede et apparitionibus daemonum, Roma, Bulzoni, 2006] ora reperibile sia in edizione critica, a cura di Francesco Di Ciaccia, Roma, Bulzoni, 2006, sia in versione italiana corrente, sotto il titolo di Manifestazioni demoniache, sempre a cura di Francesco Di Ciaccia, Milano, Terziaria, 2001), cui possiamo naturalmente affiancare, a ulteriore testimonianza della curiositas dell’arcivescovo milanese verso i temi dell’occulto, i suoi altri trattati, De ecstaticis mulieribus et illusis, s.e., 1916 (anch’essi tradotti da Francesco di Ciaccia, Da Dio a Satana. L’opera di Federico Borromeo sul “Misticismo vero e falso delle donne”, Milano, Xenia, 1988), De cognitionibus quas habent daemones, s.e., 1614, e così via».
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