1985 – Sollecitudine e delirio nella peste manzoniana
Sollecitudine e delirio nella peste manzoniana, Napoli, Studi e Ricerche Francescane, 1985, pp. 257.
Presentazione
La narrazione della peste ne I promessi sposi e soprattutto ne La colonna infame, che del romanzo costituisce strutturalmente la continuazione, tende a illustrare le opposte tendenze, sia consapevoli, sia inconsapevoli, cioè soggettive o oggettive, che sembrano aver guidato gli eventi e condizionato i destini: l’amore del prossimo, portato fino alla dedizione della propria vita, e l’ingordia del potere, che conduce all’oscuramento della ragione. Il Manzoni ha voluto narrare – ne I promessi sposi – e dimostrare – ne La colonna infame – questa duplice pulsione attraverso le reali e storiche, effettive e concrete vicende legate alla famosa peste milanese del 1630.
Recensioni e segnalazioni
Mariella Malaspina, «Letture», febbraio 1986, Anno 41°, quaderno 424, pagine 176-177, recensione di Francesco di Ciaccia, Sollecitudine e delirio nella peste manzoniana, Napoli, Studi e Ricerche Francescane, 1985, pp. 247.
II volume tratta della peste ne I Promessi Sposi e ne La colonna infame, individuando, sulla scorta del testo, i fattori tanto dell’intervento benefico quanto del conturbamento esasperato. Nell’insieme, il lavoro critico è orientato a rispondere al fondamentale quesito sulle ragioni della crisi in cui il Manzoni sarebbe incorso a proposito della peste, già al tempo della stesura del romanzo – un assunto affermato pure da altri citati dal Di Ciaccia – che tuttavia egli continuò a svolgere a livello storico ne I Promessi Sposi. Non basta: la disperazione (una «specie di disperazione», a dirla con il Manzoni) coinvolgeva tutta la storia, dove essa implicasse problemi relativi alla Provvidenza, in quanto storicamente epifanica, precisa il Di Ciaccia nell’introduzione. Ora, quale brano di storia non è tale che non solo non imponga una impietosa analisi oggettiva, ma anche non presupponga una rivisitazione, diremmo specialistica, della provvidenza teologica intorno alla fattualità? Un lavoro del genere non sarebbe stato insostenibile neppure per il Manzoni se egli non fosse stato difeso da un timore tendenzialmente scrupoloso, da perfezionista – come già rilevato dall’approfondimento, tra gli altri, di Giancarlo Vigorelli -, e sospinto da un amore più efficiente, che è nel silenzio. Questa ultima idea, già rilevata ottimamente da illustri critici, è tradotta in termini di «preghiera».
Ma andiamo con ordine. Infatti è interpretativo questo esito: il Manzoni cessò di percorrere i sentieri non solo romanzeschi, ma anche storiografici, salvo eccezioni pur esse significative, per l’antico bisogno di «meditar». Forse il critico non ha voluto dire che il Manzoni, ad un certo momento, ritenne più utile pregare che scrivere. Ammessa pure l’ipotesi, sarebbe più sensato, se mai, indagare come il Manzoni avesse capito ciò e, di conseguenza, quale significato letterario assumesse il silenzio. Dobbiamo perciò fecalizzare l’inizio del saggio, al quale l’ultimo brano si congiunge come è dichiarato nella lettera introduttiva all’indirizzo del Direttore, per quella circolarità estetico-ideologica che vede nell’opera religioso-ecclesiale la spiegazione del perché la traccia letteraria della peste sia andata avanti, pur fra mani vacillanti.
La prima parte del volume (pp. 8-112) studia l’assistenza volontaria al lazzaretto, anticipata da brevissimi scorci ambrosiani concernenti le figure menzionate dal romanziere. La tesi dimostrata è che la sollecitudine non è falsificabile e che carità non è parola ambigua: approfondimento, questo, cui il Di Ciaccia è pervenuto grazie al determinante apporto di Franco Cordero, il quale sostiene esattamente il contrario e al quale perciò il nostro attribuisce la maggior parte del valore del proprio lavoro. Per un dettaglio meno sbrigativo, è doveroso segnalare qualche elemento di questa sezione. In essa è seguita, con analiticità cronachistica, la vicenda genetica-istituzionale dell’assistenza al lazzaretto. Grazie al conforto legislativo secentesco, viene dimostrato attendibile l’elogio del Lombardo circa gli assistenti, non solo spirituali – un paragrafo a parte è dedicato all’assistenza propriamente spirituale, assurdamente tacciata di sadismo da qualcuno. Il puntiglioso svolgimento analitico si alterna a disamine globali, atte ad enucleare i presupposti etici del lavoro manzoniano, con considerazioni, ad esempio, sui «gradi della coscienza» emergenti dal racconto. Raccolti alcuni risultati della critica, anch’essi sottoposti a vaglio, l’autore procede ad ulteriori valutazioni.
La seconda parte si appunta su problemi letterari specificamente circoscritti, e tende a una formulazione interpretativa della Colonna Infame. Il critico sostiene l’esigenza illuministica di tale opera, ne difende il genere saggistico, al contempo svelandone le movenze narrative-romanzesche e definendone l’assetto morale. Benché necessariamente selettivo, il saggio-racconto manzoniano rivela, secondo il Di Ciaccia, se non una competenza giuridica specifica nel Manzoni – che di fatto egli non possedeva -, certamente un acuto senso del diritto applicato non solo, o non tanto, all’excursus giurisprudenziale, quanto soprattutto all’indagine storiografica sui rapporti tra giustizia formale e giustizia morale. Vero è che la «macchina giudiziaria» ha una propria logica operativa deterministica, capace di stritolare, con il colpevole, anche l’incolpevole, ma ciò non è umanamente né giuridicamente senza profondo turbamento per la specie umana, della quale il Lombardo si è andato facendo voce e parola.
In questo campo il Di Ciaccia è stato molto duro, in considerazione di chi ha attaccato polemicamente La colonna infame, oltre che per altri motivi, proprio perché il Manzoni non avrebbe «capito», o quanto meno accettato, il meccanismo cinico dei procedimenti penali. La problematica penale poi coinvolge quella inquisitoriale di marca ecclesiastica, ed è evidente che il Manzoni ha sorvolato sull’argomento: la questione è stabilire per quali ragioni lo abbia fatto. In ogni caso, il Di Ciaccia mostra di contestare, a suo avviso sulle orme del Manzoni, l’attribuzione ecclesiastica della responsabilità, almeno totale o anche solo prevalente, in tutta questa faccenda «infame». A scandagliare come avvenga questo fenomeno e perché, non basta la teologia. [Mariella Malaspina]
Ermanno Paccagnini, La peste e dintorni. Rassegna bibliografica, «Il Ragguaglio librario», Nuova Serie, Anno 53, febbraio 1986, n. 4, pagina 58, recensione comulativa di Francesco di Ciaccia, Gli umili ne “I promessi sposi”, Napoli, Studi e Ricerche francescane, 1984, e di Francesco di Ciaccia, Sollecitudine e delirio nella peste manzoniana, Napoli, Studi e Ricerche Francescane, 1985.
Dopo le verriane Osservazioni sulla tortura edite da Serra e Riva a cura di Gennaro Barbarisi e le numerose riproposte della manzoniana Storia della colonna infame, la peste milanese del 1630 ritorna al centro di contributi che affrontano il problema da angolazioni differenti, spesso lontane, talora complementari. Da segnalare innanzitutto la riedizione della testimonianza di Federico Borromeo e del suo De pestilentia quae Mediolani anno MDCXXX magnam stragem edidit: ne è curatore Armando Torno, giovane studioso che non disdegna talvolta sortite dal campo della logica matematica per addentrarsi nel mondo della bibliofilia (suoi un Mirabilia edito da Bocca e una riedizione della Papessa Giovanna del Boccaccio presso la raffinatissima Philobyblon). Il volume borromaico non si presenta quale semplice riproposizione di passate edizioni (Saba del 1932 e Muzzoli del 1962); Torno si è riaccostato al manoscritto federiciano per una nuova lettura, e ne sono significativi segni le varianti che corredano l’opera. Le novità non si fermano qui: meritano di essere segnalate le osservazioni sulla grafia di Federico e sulla sua modalità compositiva; in particolare, le ipotesi sulla grafia del manoscritto del De Pestilentia: contraddicendo tutta una tradizione pro-Federico che va dall’Argelati al Saba, sulla scorta di preziose segnalazioni il curatore propende per l’attribuzione a un segretario, scrivente sotto dettatura. A un volume che si presenta a buon diritto come la più attendibile edizione dell’opera di Federico (corredata di una scorrevole traduzione italiana) Torno premette anche una essenziale quanto puntuale ricostruzione della vicenda umana e culturale del prelato milanese. Tra le numerose opere di questi (e non vanno dimenticati altri due suoi opuscoli di argomento pestilenziale: un ordine al clero e istruzioni al clero e al popolo), un volume più menzionato che letto è il Liber inscriptus Argumenta n. 209, meglio conosciuto come Miscellanea adnotationum variarum: si tratta di un’opera di sapore autobiografico, stesa in forma di appunti a partire dalle ore 21 del 30 ottobre 1594 e corredata di indice analitico composto dallo stesso Federico. Non è facile darne un resoconto, perché si va dalla sentenziosità di un Studia obliterant curas, alla citazione d’autore, alla breve narrazione (cfr. il commosso resoconto della morte dell’amico e padre spirituale san Filippo Neri). L’ardua opera di trascrizione del manoscritto è stata condotta «con coraggio», e con apprezzabili risultati, da un gruppo di studenti coordinati da padre Roberto Caloni, che hanno corredato il volume di una traduzione delle parti latine e di utilissime note esplicative riguardanti i numerosi personaggi ricordati. Federico Borromeo si presenta con aspetti biografici che ascrivono al gruppo dei potenti; non è questo il caso dei cappuccini, che a buon diritto rivendicano il proprio ruolo tra gli umili. In tale veste essi ritornano al centro dell’indagine di Francesco di Ciaccia, che per il suo saggio Gli umili ne «I Promessi Sposi» ha avuto modo di attingere a ricche e inedite documentazioni riservate dell’Ordine cappuccino: ciò gli ha permesso di affrontare un problema, spesso studiato, da un’angolazione diversa e privilegiata, talvolta nuova, e di proporre soluzioni critiche in qualche caso contrastanti con acquisizioni codificate. Oltre che di questo saggio – pur interessante nella disamina delle figure di fra Fazio, fra Galdino, padre Provinciale, il padre guardiano di Pescarenico e quello di Monza –, di Ciaccia è autore di Sollecitudine e delirio nella peste manzoniana. Qui i documenti degli archivi cappuccineschi dovevano essere utilizzati in direzione di più difficile disamina: la figura di Padre Felice Casati e la sua «esperienza di potere» nel governo del Lazzaretto. Non v’è dubbio che la documentazione, abbondante e di prima mano, concorra solidalmente a fornire a padre Felice un’immagine più di servizio che di potere: da una visuale bibliografica il saggio del Di Ciaccia si offre poi come strumento indispensabile per un’indagine completa del settore. A nuocergli è il tono talora pamphletario: suo obiettivo, il discutibile volume di Cordero La fabbrica della peste, costruito sulla tematica a questi consueta dell’opposizione individuo-società. Se dimensione politica vi è stata nella gestione della peste (una peste grande soprattutto per la menzione manzoniana e per la degenerazione processuale a proposito delle unzioni, non certo per il numero dei morti, per le tensioni sociali che l’hanno preceduta o per le conseguenze sull’economia dello stato), se conflitto di potere si è verificato, questo ha interessato un organo quale il Senato, che ha individuato nella peste «l’occasione per riaffermare il suo ruolo egemone nella città e nello stato» e per recuperare il ruolo di primo piano del quale aveva goduto in passato. La prospettiva, nuova nell’ambito degli studi sulla peste del 1630 e di ben altra profondità di indagine rispetto a Cordero (vi risultano nuove acquisizioni d’archivio), è di Romano Canosa, di professione giudice, ma studioso di singoli momenti che concorrono ad una storia sociale della giustizia e dell’impiego dei meccanismi del potere contro «umili» e «oppressi». Dopo uno studioso di diritto come Cordero e un giudice come Canosa, anche il ministro della Giustizia Martinazzoli si è avvicinato al problema-peste: non direttamente, ma attraverso la manzoniana Storia della colonna infame. Il volume dell’editore Grafo Pretesti per una requisitoria manzoniana, corredato da disegni di Giuseppe Repossi, raccoglie, con rielaborazioni e amplimenti, la lettura del volumetto manzoniano che Martinazzoli ha proposto in più sedi a partire dal convegno di Boario Terme: si tratta di una lettura non solo giuridica (come era lecito attendersi) ma anche culturale (come diveniva doveroso pretendere una volta appreso del suo discepolato presso Cesare Angelini); una lettura soprattutto non disdegnosa di attenzione alle tensioni attuali. «Confesso che, tra i pretesti di queste chiose – confessa Martinazzoli – quello che più mi sollecita verte intorno a un sospetto di inattualità frequentemente sussurrato a proposito di Manzoni. Al contrario, scrive Martinazzoli – e il suggerimento merita certo di essere accolto -, «Bisognerebbe paragonarsi un poco su questo modello: non tanto sulle risposte, ma sul coraggio delle domande, in un tempo che mostra scarse propensioni ad inseguire un pensiero sino in fondo, a verificare, insomma, i nessi che stringono le cause e gli effetti, i comportamenti e gli avvenimenti». E. P.
Vittorio Dornetti, «Studi e Fonti di Storia Lombarda. Quaderni milanesi», 12, 1987, pagine 148-149, recensione di Francesco di Ciaccia, Ragione e carità nella “peste manzoniana” – Follia e “silenzio” letterario: analisi de “La colonna infame”, in «Studi e ricerche francescane», Rivista Trimestrale dell’Istituto Meridionale di Francescanesimo, XIV (1985), pp. 245 [poi in Sollecitudine e delirio nella peste manzoniana, Napoli, Studi e Ricerche Francescane, 1985, pp. 247].
La rivista “Studi e ricerche francescane” ha riservato, in occasione del bicentenario manzoniano, un numero unico ad un ampio saggio di Francesco di Ciaccia, dedicato a problemi di interpretazione manzoniana. L’intervento dello studioso, che è stato edito anche a parte in volume, verte più precisamente su due aspetti della ricerca dello scrittore milanese; aspetti che, trattati separatamente dal critico, rimandano però l’uno all’altro.
Nella prima sezione il Di Ciaccia analizza i capitoli conclusivi dei Promessi Sposi, concentrando il suo interesse critico sulla tematica della peste e soprattutto sull’azione di carità e di conforto svolta dai Cappuccini a favore degli appestati. L’autore parte da una disamina storica del problema, utilizzando varie fonti e dimostrando la sostanziale verità delle pagine del Manzoni. Al centro della sua indagine è poi il discorso di padre Felice Casati, che costituisce forse il momento ideologico più importante del romanzo: la carità e la fede attiva dei religiosi sono un’alternativa efficace, a livello storico, all’incuria e alla colpevole leggerezza del potere politico laico. II Di Ciaccia interpreta il discorso di padre Felice alla luce di una lunga tradizione morale e teologica e dimostrandone la perfetta congruenza con la Regola francescana. Proprio per questo, per il fatto di servirsi di fonti generalmente trascurate dalla critica letteraria e storica (e invece molto pertinenti per comprendere il Manzoni, il quale certamente le conobbe e se ne servì), lo studioso offre al lettore indicazioni nuove ed originali.
La seconda parte del volume affronta particolarmente la problematica connessa alla “Storia della colonna infame”, opera che ha goduto recentemente di un vivo e rinnovato interesse critico. Il Di Ciaccia mira prima di tutto a ristabilire il valore storico dell’operetta e l’attendibilità della tesi manzoniana: entrambi negati sarcasticamente e in modo polemico da Franco Cordero nel suo recente La fabbrica della peste. L’autore si presta a ribattere, forse con eccessiva insistenza, tutte le varie obiezioni dello scrittore cuneese, la cui vis polemica sollecita continui approfondimenti, aggiustamenti, smentite, ironie di rimando.
Più interessante risulta la lettura della “Storia della colonna infame” come esempio di storiografia morale, volta a giudicare e a sottoporre a vaglio critico colpe schiettamente umane, ma anche come opera allegorica che, attraverso vicende storiche reali, scandaglia il male assoluto nella storia e nella società umana. Sviluppando un’indicazione di Moravia, il Di Ciaccia ammette il significato simbolico della peste “corruzione”, cataclisma, “piaga d’Egitto”. In questo senso il processo ai supposti untori assume il significato di una sinistra prevaricazione del potere sull’individuo, della violenza sulla debolezza, dell’egoismo sull’umanità indifesa: il male assoluto verificato, appunto, nella storia. «Le scene di dolore sono diventate “figura”: strappate dal documento con l’ansia e l’angoscia dell’autore del libro di Giobbe» afferma con indubbia suggestione l’autore: e ciascuno può vedere quanto siano opportuni, e pertinenti alla cultura cattolica del Manzoni, i numerosi rimandi del Di Ciaccia alle Scritture. Proprio perché scandaglia il male universale che non conosce l’alternativa di bene concretizzatasi storicamente nel padre Casati e nei Cappuccini, la “Colonna infame” si situa in una cupa zona d’ombra, lontana dalla luce.
Non ci appare però motivato il rimando da questa operetta ai ‘‘Promessi Sposi”: non convince (e non sembra sufficientemente motivato) che Manzoni volesse additare ad ogni costo una soluzione positiva al problema del male nel mondo e che quindi la “Colonna infame”, che rappresenta lo scacco della ragione umana abbandonata a se stessa, rimandi alla carità risolutiva del romanzo maggiore. In realtà, la “Storia della colonna infame” rampolla dal romanzo, ne costituisce uno sviluppo particolare e successivo (come ha ribadito di recente anche Carla Riccardi nella sua eccellente prefazione all’edizione mondadoriana della “Colonna infame”); si pone quindi, a rigore di cronologia, come una conclusione e un approdo, non come un punto di partenza. E l’approdo coincide appunto con la consapevolezza di un male necessario e invincibile che le sole forze umane, per quanto agguerrite e armate di verità, non valgono a debellare. Da qui la scelta del silenzio, e la ricerca della soluzione nell’ambito esclusivo della fede e della preghiera. Vittorio Dornetti
Eugenio Bronzetti, «L’Italia francescana», Anno 64, n. 4, luglio-agosto 1989, pagina 459, recensione di Sollecitudine e delirio nella peste manzoniana, Napoli, Studi e Ricerche Francescane, 1985, pp. 247.
Più volte la nostra rivista ha ospitato articoli del Ch.mo Di Ciaccia su argomenti vari; ma ancora più volte abbiamo presentato molti suoi libri, specie riguardanti il Manzoni e questioni manzoniane. Ripetiamo anche ora che l‘a. è competentissimo sullo scrittore lombardo, forse ne è il migliore conoscitore, sia per quanto riguarda i suoi scritti e in particolare i Promessi Sposi, sia per tutto ciò che è stato scritto su di lui, prò o contra, in studi più o meno seri, in articoli di riviste, giornali, libri che in qualche modo hanno parlato di lui o hanno espresso qualche giudizio su qualche sua idea o insegnamento.
Ammiratore entusiasta del Manzoni, è particolarmente forte e chiaro contro falsi suoi interpreti o denigratori. Basta leggere solo qualcuno dei tanti capitoli o temi trattati in questo libro per rendersene conto, e si resta ammirati per la moltitudine di autori o scritti che cita in ogni pagina, o per confermare quanto egli espone o per far notare come essi sbagliano o sono imprecisi o ingiusti nell’avanzare certi giudizi e certe interpretazioni.
Sì, soprattutto quando in qualche fatto o in qualche insegnamento il Manzoni è criticato – e qualche volta malevolmente o, per partito preso… denigrato – l’a. insorge con dignità e fortezza: sembra che per il nostro Di Ciaccia una quasi sacralità abbia il Manzoni, specie nel suo grande romanzo, per cui ogni infondata critica gli sembra profanazione e ignobilità. Lo ammiriamo per la sua tenacia nel collocare, nella giusta luce, fatti, personaggi e nel difenderli, facendo sempre capire il giusto messaggio umano e cristiano che il Manzoni ha voluto darci in ogni pagina, anzi con ogni dettaglio di ciò che narra e descrive. In particolare noi Cappuccini lo ringraziamo per quanto, conforme al Manzoni, ha voluto sottolineare, perché in essi venga riconosciuta la speciale incarnazione del messaggio cristiano di carità e umiltà, che è beneficio sempre, ma è l’unico utile, anzi necessario quando le calamità, come la peste, infuriano e fanno strage. È evidente tale messaggio nei Promessi Sposi; ma senza il lume della ragione e un minimo di senso religioso-cristiano, è difficile capire questo; e difatti – l’a. lo fa ben intendere – molti non lo hanno capito o non lo vogliono capire… Eugenio Bronzetti