Recensioni, Umiltà e francescanità

Recensioni e segnalazioni, in ordine cronologico di pubblicazione

 

Redazionale, «Studi e ricerche francescane», 1-4 (1997-1998), pp. 576-577.

Nel 1984 questa rivista «Studi e ricerche francescane» pubblicava il saggio Gli umili nei «Promessi sposi», che costituiscono i primi due capitoli del volume che segnaliamo ai nostri lettori. Fu particolarmente questo saggio a riscuotere il plauso di molti critici, sia a livello nazionale che internazionale, poiché l’autore dimostra di conoscere perfettamente il Manzoni e i suoi scritti. Ma anche gli altri articoli pubblicati su «L’Italia Francescana», su «Frate Francesco» e su «Giovinezza nostra» (ma specie i primi) ora costituenti gli altri capitoli del presente volume, non valgono di meno. Plaudiamo anche noi al noto professore milanese in questa nostra breve segnalazione.

 

Pompeo Giannantonio, «L’osservatore romano», 27 gennaio 1988, pagina 3.

Con la rivoluzione industriale sul piano sociale e con il dibattito illuministico sul piano culturale si poneva con forza l’attenzione dei popoli al problema dei diseredati. Le trasformazioni dell’economia agricola e le frantumazioni dei ceti tradizionali imponevano nuovi parametri di vita alla comunità umana, per cui le consolidate stratificazioni di norme e di costumi non potevano più rispondere alle esigenze delle nazioni moderne né soddisfare ai bisogni della società civile. La miseria non era solo un problema etico, quindi, ma investiva le medesime strutture della convivenza umana coinvolgendo le istituzioni e richiamando come non mai l’interesse degli intellettuali, pensosi del destino della comunità umana e della sorte del progresso civile.

Anche Manzoni per vocazione morale, per curiosità culturale e per convinzioni religiose ebbe chiara coscienza del fenomeno e quando si accinse a scrivere pensò di dare una soluzione al problema, interrogando il proprio mondo etico, confrontandosi con le sue nozioni spirituali e concordando con le personali esperienze cristiane. La Chiesa, d’altra parte, per precetto evangelico aveva sempre atteso alla redenzione materiale e morale dei diseredati, promuovendo nel corso della sua storia millenaria iniziative caritative di grande rilevanza, che incisero profondamente nel tessuto sociale dei popoli e nella cultura collettiva delle genti. L’indigenza, d’altra parte, per la dottrina cristiana non è solo una condizione economica o uno stato sociale, ma anche e più di tutta una categoria dello spirito, perché l’umiliazione terrena prepara e favorisce il premio celeste. Il discorso sulla miseria, perciò, non si esaurisce con il Manzoni nell’ambito delle rivendicazioni salariali o della giustizia sociale; ma investe le valutazioni morali e le implicazioni religiose in una prospettiva che coinvolge la parabola esistenziale e il destino umano. L’attenzione manzoniana per gli umili apre nuovi orizzonti e si differenzia dai coetanei o successivi interventi per la sua sensibilità morale e per la sua proiezione religiosa, che legano il contingente all’eterno in un inscindibile rapporto di causalità e di continuità.

Nella cristianità gli ordini mendicanti interpretano in modo corretto questa dimensione umana e divina della miseria e, segnatamente, Francesco d’Assisi promosse un movimento che ha mostrato nel corso dei secoli la validità di una contemporanea sollecitudine terrena e celeste per gli indigenti. Manzoni nelle sue riflessioni su questa area del vivere non poteva ignorare il contributo del francescanesimo nella soluzione del perenne problema e pose a modello di una società migliore e laboriosa i cappuccini che con abnegazione e premura sollevano gli umili dalle ambasce esistenziali.

Rimeditare su questi temi come ben fa Francesco Di Ciaccia (Umiltà e francescanità nei «Promessi Sposi», Pisa, Giardini, 1987), è quanto mai utile, anche perché spesso le discussioni critiche hanno smarrito le vere scaturigini e l’esatto orientamento del problema, che va collocato nella sua atmosfera di fede cristiana e di proiezione metafisica. Intatti l’opera manzoniana non si può catalogare nel contesto comune della narrativa romantica, perché ha una peculiarità che la differenziano da altre, situandosi nel panorama letterario con proprie caratterizzazioni non solo artistiche ma anche etiche. I suoi umili, che pure vivono nel clima del rinnovamento sociale, promosso dall’industrializzazione ottocentesca, si distinguono dagli straccioni degradati del naturalismo, dagli indigenti protestatari dell’operaismo o dai diseredati sconfitti del verismo, manifestando una dignità nella miseria e una speranza nel riscatto, che va oltre le contingenze e la sfera dell’umano.

Ma la condizione di umile nell’opera manzoniana si estende a tutte le espressioni del vivere, privilegiando le manifestazioni dello spirito e i rapporti tra le persone poiché pervade ogni piega dell’esistenza e trasforma ogni umano sentire. Infatti le vicende del romanzo sono consegnate più ai gesti di quotidiana solidarietà che all’ostentazione di eroiche imprese, tanto che l’azione tenace e benefica di padre Cristoforo si sviluppa sul metro delle consuetudini domestiche e si avvale dei rapporti di modesti personaggi o di usuali strumenti. Anche la morale ubbidisce alle esigenze di un mondo che accomuna aristocratici e popolari in una paritaria dimensione di uomini uguali dinanzi al precetto evangelico e distinti solo per meriti personali e non per censo, poiché la vita è pratica di virtù e non sfoggio di privilegi. In tale ottica l’insegnamento e il modello non muovono dal ruolo sociale dell’individuo, ma dalla bontà dell’attore per cui Cristoforo disquisisce dottamente sul voto di verginità, ma Lucia lo «conquide» con la sua cieca fiducia nella Provvidenza, strappando su tale terreno anche l’ammirazione del Cardinale Federigo. Al potere e all’arroganza il Manzoni contrappone la solidarietà in una condizione sociale di uguaglianza e di sollecitudine con l’intento di una convinta prospettiva di amore per il prossimo e di compartecipazione ai suoi travagli.

Questa morale, nutrita di cristianità e di francescanità, permea la struttura sociale e il clima comunitario del romanzo, che si colloca, anche per questo verso, in antitesi alla predominante narrativa coeva, ostile e denigratoria dell’ambiente cattolico. I preti e i frati, che una letteratura di area protestante additava all’esecrazione, perché fomentatori di vizi e di delitti, ritrovano nel Manzoni la loro veritiera dimensione di apostoli e di benefattori dell’umanità secondo il modello francescano. Cristoforo, infatti, è il penitente e il paladino in una nobile missione di affrancamento di Lucia dalle torbide voglie di un prepotente e la sua opera si conclude con il trionfo della giustizia e il suo supremo olocausto. Federigo, su altro versante, interpreta l’eroismo della fede cattolica, mentre Abbondio ne raffigura l’aspetto negativo per codardia ed egoismo in una contrapposizione che meglio evidenzia lo scarto tra il bene e il male, la carità e la grettezza. Cristoforo annulla le individuali esigenze e si propone messaggero di una dinamica condotta caritativa esponendosi al ricatto e alle vendette dei malfattori e mostrando una superiore spiritualità in consonanza con l’insegnamento di Francesco.

Dal santo di Assisi si origina appunto quel sentimento di umiltà che informa il romanzo poiché Renzo, confidando nella Provvidenza, offriva al povero tutto il cibo che possedeva senza contropartite e senza tornaconti, Federigo esultando per la visita dell’Innominato si sentiva immeritevole di tale grazia divina, Lucia cedendo alle argomentazioni del frate sul voto abbandonando una decisione meditata in spirito di sottomissione. Il cristianesimo, perciò, filtrato attraverso il modello francescano, impegna la cultura del Manzoni, che rivive con animo moderno e con consapevole adesione l’insegnamento del santo di Assisi non solo per consonanza spirituale ma anche per razionale conquista di un esempio impareggiabile. [Pompeo Giannantonio]

 

Res [Rosario Esposito], «Vita pastorale», Anno LXXVI, n. 2, febbraio 1988, pagina 133.

La bibliografia manzoniana si arricchisce con un apporto la cui caratteristica fondamentale ci sembra l’interdisciplinarietà. L’A., ferratissimo nelle questioni concernenti l’opera manzoniana, realizza una sua lettura onnicomprensiva: l’aspetto letterario è indubbiamente la piattaforma sostanziale, e si può dire che tutta la critica degli ultimi cinquant’anni sia da lui passata al vaglio, con notazioni di consenso o di dissenso (si pensi alle pagine polemiche nei confronti di Moravia, Cordero, Musatti e altri) che sono motivate non solo dalla rilettura del testo, bensì da tutta la massa di informazioni e di ricerca che le sta dietro. A noi però interessa soprattutto la dimensione pastorale di un lavoro che è severamente fondato sull’analisi globale delle situazioni, alcune delle quali vengono sottoposte a un esame minuzioso, che tuttavia mai dà l’impressione della pedanteria: si pensi alle espressioni di Renzo e Lucia, alla figura di fra Galdino, ai portinai di don Rodrigo, Pescarenico, Monza, per non parlare dei personaggi di primo piano. Anche in questo caso il Di Ciaccia non percorre i sentieri usuali, ma collega i contenuti storici, sempre attentamente studiati dal Manzoni ma non espressi ripetitivamente, bensì inserendoli in un progetto-messaggio che trasfigura la storia e la indirizza alla costruzione d’un mondo non solo “diverso” da quello che ha provocato tante sofferenze, ma “migliore”. L’interpretazione interdisciplinare della peste in questo senso ha un significato straordinariamente spesso e vibrante. Le due opere meritano amplissima attenzione e offrono una lettura erudita e brillante (Res).

 

Eugenio Bronzetti, «L’Italia francescana», Anno 63, n. 3-4, maggio-agosto 1988, pagine 364-365.

Il titolo fa ben capire che soprattutto umiltà e francescanità sono stati i temi ricercati e commentati dall’a., ma ognuno leggendo ben si accorge che ogni aspetto morale è messo in risalto e all’occorrenza difeso da false o inesatte interpretazioni. Comunque umiltà e francescanità, sottolinea l’a., più abbondantemente risultano nel romanzo, nei personaggi più importanti e minori, e si fa ben capire che disattendere tali virtù non è solo danno per i francescani-cappuccini, ma per la chiesa e società intera in quanto quelle due virtù sono una via maestra per arginare prepotenze e soprusi, per promuovere generosità e servizio, e soprattutto per aiutare chi soffre.

In 5 densi capitoli – Gli umili come «significante», I personaggi minori francescani, La missione inutile di Fra Galdino, Francescanità nei Promessi Sposi, Un messaggio francescano con Lucia, Renzo e P. Cristoforo – si fa capire come siano specialmente questi i messaggi che il Manzoni ha voluto dare a francescani e non francescani, e fa ben intravedere come siano dolorose e dannose le conseguenze quando da quegli ideali ci si allontana poco o molto. Meraviglia la tanta erudizione, la completa conoscenza, possiamo dire, di tutto ciò che è stato scritto sul Manzoni, sulle sue intenzioni e insegnamenti in ogni episodio e personaggio e affermazione; logicamente con competenza e decisione vengono rigettate le false idee attribuite al Manzoni o i difetti o insinuazioni viste soprattutto da chi poco conosce o poco simpatia ha per la fede, la morale e l’ascesi cattolica. Le tiratine di orecchi il Manzoni indubbiamente le dà alle varie persone, ai loro non sempre perfetti comportamenti, ma sempre sano e luminoso ogni suo messaggio, splendido per contenuti e forma. L’umiltà e la francescanità più genuina hanno una parte dominante nel romanzo, ma in esse è evidente che vi è inclusa fermezza nel bene e nel dovere, costi quel che costi, vi è illimitato amore, povertà, altruismo, martirio gioioso per amore di Cristo e dei fratelli, vi è l’annientarsi per dare e salvare. Ciò risulta più chiaramente in P. Cristoforo e gli altri cappuccini a servizio degli appestati, ma anche moltissimo in Lucia, Renzo, il Card. Federigo e altri. Tanto, in conclusione, le riflessioni, le evidenziature morali e le esortazioni e avvertimenti: lo studio del Di Ciaccia è veramente interessante. Lo stile, in realtà, è alquanto duro, ogni periodo è pieno di particolari e precisazioni e distinzioni e sottili concetti che obbligano a lettura attenta e ripetuta. Ci congratuliamo comunque con l’a. per un libro così sostanzioso che tra l’altro rivela la profonda ammirazione per il Manzoni quale maestro genialissimo di morale e perfezione. [Eugenio Bronzetti]

 

Mariella Malaspina, «Letture», anno 43, quaderno 448, giugno luglio (1988) pp. 578-579.

Il volume è costituito da cinque capitoli: «Gli umili come significante» ; «I personaggi minori francescani» ; «La missione inutile di fra Galdino»; «Francescanità nei Promessi Sposi» ; «Un messaggio francescano con Lucia, Renzo e il padre Cristoforo». Tutti concorrono a scoprire se, quanto e come nel mondo manzoniano scorra l’umiltà francescana: nel primo capitolo, infatti, il critico ne stabilisce il significato secondo la concezione cristiana e individua negli umili del romanzo l’idea dell’«abbassamento per amore» e non già soltanto dell’abbassamento per censo. Ciò vuoi dire che gli umili manzoniani sono «significanti»: sono «segno» di un valore e non una semplice «situazione del mondo». Il discorso è condotto con il rigore della critica testuale e, senza guardare polemicamente in faccia a nessuno – pur portando nutriti ragguagli bibliografici -, attraverso alcuni episodi e personaggi dimostra quanto positivo sia il messaggio affidato dal romanziere ai suoi simili. Da qui la parola s’apre su un universo particolare, quello dei Cappuccini minori, prolungato, dopo il capitolo n, nel terzo con fra Galdino. A parte la tesi di fondo, sempre vigile nell’intervenire a discriminare il positivo e il negativo dei personaggi nell’ordine dell’interiorità umile, questa parte del libro ha un taglio specificamente interpretativo. L’autore, con strumenti storici e concettuali tratti dalla realtà cappuccina e muovendosi con imperturbata padronanza, rifonda interpretazioni critiche, ribaltandone molte, compiendo scavi del testo particolarmente puntualizzati e incisivi. La rigidità scientifica, però, non mortifica una partecipazione ponderata, per cui alcuni disegni narrativi – come quello di fra Fazio e di fra Galdino – diventano godibili riletture degli uomini in saio dell’invenzione manzoniana. L’ermeneutica si allarga e si approfondisce quando, nel capitolo IV, si vuoi decidere della francescanità o meno del Manzoni. Del Manzoni come persona, è escluso, conclude il di Ciaccia: due caratteri agli antipodi. Francescano è invece il romanziere nell’atto in cui intuisce in sé ciò che scavalca il suo io, la coscienza nell’atto poetico. E il critico lo dimostra scavando nel personaggio francescano maggiore, fra Cristoforo. Ne vien fuori una tipologia non ignota alla critica, ma certamente inchiodata all’unica cosa che, francescanamente, vale: il proprio «niente». L’immedesimazione del romanziere con il mondo del suo personaggio è tale – sostiene il saggista – che il Manzoni, senza debiti letterali almeno consapevoli, ha riprodotto il meglio dell’ideale di umiltà francescano, quale è testimoniato dai testi antichi: fino allo splendido, luminoso, magistrale quadro della « perfetta letizia ». Qui l’antifrance-scano lombardo, abitualmente preoccupato di sé, si affianca a un Francesco che lo è così poco da amare la sconfitta; un Francesco che tutto aveva perso, ma tutto guadagnato, cioè guadagnando l’unica cosa che conta. Quale sia, è detto chiaramente nel libro. [mariella malaspina]

 

Luciano Bottoni, «Lettere Italiane», 3 (1988) pp. 450-457.

I due volumi raccolgono una serie di saggi pubblicati dal 1983 al 1986 in «L’Italia francescana» e in «Studi e ricerche francescane». Nessun dubbio quindi sulla matrice ideologica dell’autore che in tutta franchezza rivendica alla propria vis polemica il diritto di «contraddittorio» e il dovere di non scendere ad alcuna compromissione. Già con il capitolo iniziale (Gli umili come «significante») le puntigliose analisi polemiche del [di] Ciaccia hanno buon gioco nel dimostrare quanto poco si convengano le sommarie qualifiche di «borghese» o «populista» ad un romanzo dove l’autentica giustizia non può essere quella retributiva operante attraverso «provvidenziali punizioni». Questa, se mai, è la giustizia vista dalla prospettiva «carnale» di don Abbondio. Nel romanzo la giustizia appartiene agli umili – allo stesso cardinal Borromeo che si umilia davanti al suo sacerdote renitente – ed opera per mezzo della conversione come carità, come umiltà del servizio fraterno. In rapporto all’instaurazione della giustizia, nell’universo romanzesco, si salva soltanto – rileva il [di] Ciaccia – chi sa patire la sua negazione «contrapponendovi il diritto e il fatto della giustizia stessa» (p. 16-18). Così Lucia rimanda sempre a questa verità, ne è un «significante» nella misura in cui la sua vicenda riesce a porre la fiducia e la speranza in Dio al di sopra di ogni accadimento. La significanza del personaggio è data appunto dal suo resistere e combattere per l’innocenza, dal suo saper perdonate e rassegnarsi. Proprio come insegnava il Russo – è sempre lei che resiste in tutto il romanzo sino agli affettuosi dissensi con il Renzo dell’ultimo capitolo. Così la significanza di Renzo, dal punto di vista assoluto della giustizia-carità, è incrementata dall’intreccio che riconduce una seconda volta a Milano il personaggio in cerca di Lucia. Prima di ritrovare la sua giovane compagna Renzo deve restituire, a chi patisce una maggiore necessità, «i due pani» che gli ricordano quelli trovati «vicino alla croce», nell’altra sua entrata a Milano» (cap. XXXIV, 19-20).

Sul piano ideologico – ossia nella coscienza del narratore – il gesto quasi rituale di Renzo assume il valore specifico di un’opera di misericordia valida in assoluto: come qualcuno ha sagacemente osservato, potrebbe anche sembrare che il personaggio sia chiamato un’altra volta nell’inferno della città più per compiere quest’opera che per ritrovare Lucia (pp. 58-59).

Dedicando il secondo capitolo ai personaggi «minori» francescani, il [di] Ciaccia ridisegna con sottile competenza le immagini di una sfaccettata coscienzialità religiosa che si individualizza e vive nei diversi rappresentanti dell’Ordine dei Cappuccini. A livello pre-letterario l’insufficienza pastorale di padre Cristoforo – cui si lega il «mistero» della sua grandezza – può essere riequilibrata dall’esperienza invisibile d’un fra Galdino: nella situazione critica di Agnese e Lucia la sua favola miracolistica di fatto rivelerebbe – argomenta il critico – «un nascondimento del Verbo, che si è fatto idiota per affetto» (p. 93). D’altronde, a proposito della bonaria indifferenza con cui il frate cercatore informa Agnese della «obbedienza» (cap. XVIII), già il Donadoni sospettava che fra Galdino conoscesse lo spirito «imprudentemente democratico» del padre Cristoforo ben più di quanto non dicessero le sue parole.

Anche l’allontanamento di un frate da parte del suo superiore potrebbe di per sé rientrare nelle transazioni d’una «diplomazia senza peccato» giacché, per il Provinciale alle prese con il conte Zio, «il peccato senza diplomazia» consiste nel conculcamento della carità, nel venir meno alla propria coscienza morale. La «bagatella» dietro cui si cela la transazione è l’abbandono d’un suddito innocente, sacrificato per egoistica premura di non trovarsi in pasticci giuridici con il potere civile, in pasticci diplomatici con il potere ecclesiastico. Se il realismo manzoniano rappresenta le lacune dell’Ordine in alcune contraddizioni della sua vita istituzionale, questo non esclude – nella prospettiva «teologica» del critico – che l’intentio habitualis dei suoi rappresentanti non consenta loro di far vivere intimamente il senso profondo delle azioni compiute. È il caso della «umiltà disinvolta» con cui il padre guardiano si presenta al fratello del gentiluomo ucciso da Lodovico: «non è affettazione per far credere quello che non era vero – scrive acutamente il [di] Ciaccia -, né per far credere di credere quello cui non credeva… è anche disinvoltura di una certezza, di un’«umiltà» che sa di non fare il gioco di colui che la esprime, ma di servire colui a cui essa è espressa. Pur dannosa, sempre, al convento, un’umiliazione della famiglia era uno scorno per la famiglia stessa».

Mentre il terzo capitolo torna agli episodi che vedono in scena fra Galdino e ravvisa nella «semplicità» l’attitudine fondamentale della prassi francescana, il capitolo successivo affronta il problema del «francescanesimo» nei Promessi Sposi specificandone alcuni aspetti peculiari. Di immediata evidenza è che si tratta d’un francescanesimo ricostruito attraverso la letteratura fiorettistica, cronachistica, biografica, memorialistica e giuridica del Seicento; l’istituzionalizzazione dell’Ordine comportava quasi ineluttabilmente qualche forma di abitudinarietà, qualche stasi di idealità nel rapportarsi intersoggettivo degli stessi cappuccini. L’ideologia manzoniana tendeva inoltre ad una religiosità che istituzionalizzasse le istanze evangeliche e quindi il narratore non aveva alternative tra un frate combattivo, che come padre Cristoforo prefigurasse un Ordine «di democrazia evangelica» ed un ingenuo «giullare di Dio», legato all’arcaico profetismo francescano. Per il critico, che scruta in una dolorosa biografia la morte preziosamente cristiana di don Alessandro, la sua ansia di giustíficazione confermerebbe uno spirito caratteriologicamente «economico»: un evangelismo «borghese» del tutto antitetico all’esorbitanza espansiva di san Francesco che, morente, vede ed esige tout-court il perdono.

Benché chi scrive sia affascinato dalla intelligenza di queste sottili ermeneutiche, sospese tra caratterologia e psicanalisi, deve confessare – da lettore laico – una certa perplessità di fronte a certe «coincidenze fattuali» che inducono l’autore a ravvisare nell’alone di benignità del Borromeo qualcosa «da fioretti» (p. 180).

A nostro avviso l’unico modo per evitare le insidiose amplificazioni delle «peculiarità francescane» resta quello di attenersi alla ludica avvertenza del Crispolti, giustamente perentorio – come osserva il [di] Ciaccia – nell’affermare che il Manzoni fu «francescano» nel derivare le virtù non dai santi, ma direttamente dal Vangelo.

Così non riesce a convincerci un’analogia che si instaurerebbe quando alla sollecitudine spirituale di fra Cristoforo risponde alla perfezione «l’obbedienza di Lucia come quella di Chiara alla meditazione di Francesco… » (p. 201). E ancora ci sembra che se la risposta di Cristoforo sulla questione cavalleresca è «utopica», se alla sua semplicità francescana non è estranea la «vera letizia» («sorella della sapienza, e madre della giustizia»), non va neppure dimenticato come nella logica romanzesca la coscienza confusa di Lodovico-Cristoforo sia stata sconvolta proprio da un omicidio legato ad una questione cavalleresca. Per di più – a considerare il sistema dei personaggi che nel romanzo si rivelano gli uni attraverso gli altri – fra Cristoforo sale al castello in sostituzione di Renzo cui – come una sorta di doppio paterno – interdirà la vendetta; e resterebbe da valutare, nella scala assiologica dell’universo romanzesco, la correlazione del personaggio con don Abbondio, la sua figura antitetica.

Detto questo, non resta che compiacersi della passione intellettuale, che anima la prospettiva critica e la scrupolosa accuratezza dell’indagine. La storia della critica ai Promessi è anche – bisogna ammetterlo – una storia di appropriazioni, più o meno intenzionali, ove talora i ruoli si invertono per una sorta di ironica e altalenante imprevedibilità.

Sono ben note le accuse di un don Albertario che nel «cattolicesimo» liberale del Manzoni continuava a vedere il modello, «l’archetipo di quello che i liberali pretendono dovrebbero essere i cattolici: subire la rivoluzione e acconsentire alle sue enormezze»; e ciò accadeva quando già l’anno prima le ultime Lezioni di letteratura italiana (1872) del Settembrini avevano scandalizzato i benpensanti liberali affermando che i Promessi erano «il libro della Reazione, della reazione religiosa, la quale anche oggi si specchia in esso fatta bella dall’arte del poeta». A detta del Dossi sembra che il vecchio don Alessandro avesse ancora sufficiente spirito sarcastico per commentare: «Vun che l’è staa ai pè de la forca, el gha el diritto de di tutt quel ch’el voeur». Nel romanzo la distanza ironica del narratore è attivata anche nei confronti della «francescanità» proprio perché nell’ironia s’accende l’intelligenza segreta del racconto. Basta verificare come nella sfera semantica umile-umiltà l’«umiltà disinvolta» del padre guardiano o i «ringraziamenti umili e sviscerati» di don Abbondio si contrappongono al «contegno d’umiltà» dell’Ordine o alla «riflessione d’umiltà» di Cristoforo.

E abbiamo il viso «tutto umile, tutto ridente, tutto amoroso» di Ferrer, la voce «forzatamente umile» della vecchia al castello dell’Innomínato, la carità «umile» del nuovo marchese che non era «un portento d’umiltà»; sul versante della contrapposizione, infine, stando alle disinvolte parole del conte Attilio, «per adoperarlo a proposito, il cordone di san Francesco, non è necessario d’averlo intorno alla pancia» (cap. XVIII).

Nei saggi di La parola e il silenzio certe antiche contrapposioni pregiudiziali o ideologiche riaffiorano in termini di reticenza/verità storica per essere superate da un’ermeneutica più attenta alle ragioni «letterarie» del testo. Con metodica circolarità l’indagine si articola di pagina in pagina aprendosi, in ogni momento, ai problemi di contenuto e alla referenzialità storica degli eventi narrati.

Il lungo capitolo iniziale sulla peste nei Promessi focalizza, nel segno della «sollecitudine» evangelica, e grandi figure del Borromeo e di padre Felice; al primo F. M. Ferro addebita la responsabilità d’una farneticante saldatura tra «peccato e castigo della peste», al secondo il Cordero rinfaccia la denuncia, quale untore, d’un infelice ricoverato al lazzaretto (La fabbrica della peste, Bari 1984), Con pazienza meticolosa, con la caparbietà d’una polemica che non è mai fine a se stessa e non rinuncia all’intelligenza delle posizioni altrui, il «contraddittorio» esamina e ritorce tutti i capi d’accusa.

Per i lettori del romanzo non dovrebbe tanto interessare la straordinaria difesa del [di] Ciaccia – abile sino a sfiorare la capziosa ipotesi d’una «discrezione dei torturatori», p. 21 – quanto la paziente ricostruzione di una parola propositiva che illustra, nel gioco romanzesco del mondo «inventato», l’opera della Chiesa, il servizio come ministero dei cappuccini. Nei Promessi non è in discussione se il Borromeo avvertisse di più l’esigenza della riforma rispetto a quella dell’annuncio. Da una lettera al Fauriel, dell’agosto 1823, sappiamo infatti che il cardinale rappresentava, per il suo narratore moderno, uno di quei «caratteri dotati di una virtù forte e originale in proporzione agli ostacoli, ai contrasti, e in ragione della loro resistenza, o qualche volta del loro assoggettamento alle idee comuni».

Con il ritratto-biografia del capitolo XXII il personaggio prende appunto rilievo sullo sfondo della propria epoca, soprattutto nella misura in cui vive il messaggio evangelico rifiutando di «conformarsi al secolo»: la divisa etica di Federigo è quella del cristiano «libero» dalle tentazioni d’ipocrisie dei galantuomini del ne quid nimis».

Si tratta d’una prospettiva «apologetica» deliberatamente introdotta nel romanzo; ma nella stessa scrittura romanzesca il narratore introduce una distanza giudicante («Non dobbiamo però dissimulare che tenne con ferma persuasione, e sostenne in pratica, con lunga costanza, opinioni, che al giorno d’oggi…») e si differenzia perciò sia dalle scelte culturali o storico-pragmatiche del personaggio, sia dalle possibili giustificazioni interpretative da parte di difensori beneintenzionati.

Nell’ultima parte del ritratto le zone d’ombra di una vita «limpida» riaffiorano inesorabili proprio perché il narratore non vuole e non può eliminare il problema della responsabilità di fronte ad «errori» che hanno prodotto la sofferenza di altri uomini.

A nessun lettore può sfuggire che i tragici pregiudizi del secolo contro streghe, untori ed eretici – di fatto condivisi dal Borromeo – restano appena attenuati dietro la velatura d’una formula, espressiva come «opinioni strane che mal fondate». D’altronde uno dei nuclei ispiratori della Colonna Infame è che la responsabilità personale non viene mai cancellata dai pregiudizi collettivi. Al capitolo XXXII, poi, la credenza del Borromeo nel maleficio e nell’origine diabolica delle unzioni si rivela attraverso le stesse ipotesi del cardinale: «Si unguenta scelerata et unctores in urbe essent… Si non essent…».

Il narratore non elude affatto il problema della responsabilità, ma – chiedendosi se nel cedimento di Federigo al consentire la processione vi fosse «un po’ di debolezza della volontà» – finisce per incriminare l’intelletto se non la coscienza dell’alto prelato. Quindi anche per il personaggio del Borromeo il Manzoni si mantiene nel solco d’una prospettiva, prima etica che storiografica, il cui principio resta quello di non sottomettere la legge della giustizia all’implacabile corso degli eventi: negli eventi denuncia, quando occorre, il controsenso e la follia.

Lo stesso si può dire della persona storica di padre Felice Casati – la cui valenza romanzesca va cercata nel tempo «umano» d’un cronotopo storico, il lazzaretto, ove la benedizione di lode del cappuccino prepara Renzo ad una definitiva conversione al perdono e – come scrive puntuale il [di] Ciaccia – «congiunge nel lazzaretto non solo, romanzescamente, le avventure degli sposi, promessi, ma anche, idealmente, il messaggio di Lucia – poi, della «terrena» famiglia – con quello di Cristoforo» (p. 35).

La forma «antagonistica» della parola cappuccina – la rigorosa fedeltà ad una tradizione registrata dalle Memorie di Pio La Croce – trova un ulteriore riscontro nella biografia del padre Antonio da Modena e proprio quelle modalità retoriche che tanto infastidiscono un Moravia inverano, in un rito di fratellanza, le risorse spettacolari della oratoria secentesca.

Le parole di padre Felice amplificano il tema della confessione pubblica nel recitativo d’una coscienza che esce sublimata dal suo stesso umiliarsi. Il suo recitativo di benedizioni e la sua reiterata richiesta di perdono implicano un dialogo profondo con tutto il proprio «popolo» per commuoverlo e coinvolgerlo nella tensione d’uno stesso destino. Nell’uguaglianza d’una comunità fraterna la predica di padre Felice rappresenta per Renzo un intermezzo corale che si pone – giuste le puntualizzazioni del [di] Ciaccia – a compimento del perdono di don Rodrigo ma anche in opposizione romanzesca con l’oratoria macabra e ghignante dei monatti.

Concludendo il capitolo l’autore suggerisce una possibile associazione iconica tra la teoria dei visi pallidi e languenti, fissati da Renzo nella speranza di vedervi Lucia, e i visi gialli, «distrutti» degli appestati che invadono il sogno-incubo di don Rodrigo. La proposta ermeneutica concerne l’ingiunzione del profetico «verrà un giorno…» e l’emblematico iterarsi del gesto che riassume tutto il messaggio del lontano incontro al palazzotto. L’ambiguità della frase richiamata dal gesto – avverte il [di] Ciaccia – contiene l’ultimo augurale presagio di dolore giacché l’ingiuria della morte sarebbe ancora più ambigua se non fosse preparata dall’ingiuria della vita; il significato di cui si carica il gesto ingiuntivo è un significato ultimo di giustizia: «se, ora, capisci, per allora, l’accoglimento della giustizia allora rifiutata, puoi operarlo ora, ed essa ti vale anche per allora. Questa è misericordia. La giustizia non è senza misericordia» (p. 92).

Mentre nel romanzo la speranza è concessa pure agli uomini di volontà «non buona», nella Colonna Infame, a contesto dei processi giudiziari, il Manzoni non può salvare neppure gli uomini di buona volontà giacché la Chiesa, come sollecitudine nella carità, risulta assente da un universo in preda alla follia più atroce e alla coercizione più violenta.

I cappuccini che si ritirano davanti ad un condannato che li respinge danno l’immagine d’una assenza operativa, di un abbandono «storico» su cui entra in crisi la fiducia manzoniana nel «vero poetico»: questo il supporto interpretativo del secondo capitolo dedicato dal [di] Ciaccia alla peste nella Colonna Infame.

Quando vengono meno le dinamiche proiettive che il genere romanzesco consentiva, riguardo ai sentimenti e ai personaggi della vita quotidiana, lo spettacolo d’una storia infame – rimasta ai margini del romanzo – rende irrecuperabile e preclude definitivamente all’invenzione artistica l’inferno delle «cause cieche», il vortice storico del potere, della passione, dell’arbitrio, della menzogna complice e dell’abuso rabbioso.

Rispettando la complessa delicatezza dell’argomento, la razionalità interpretativa del critico ha modo di smontare il coacervo di sofismi e paralogismi gratuitamente condensati nel volume pamphlettistico del Cordero: una feroce storia di torture e di misfatti giudiziari non la si può liquidare, in nome di presunti garantismi, sottraendo al giudizio – come irrilevabile – la coscienzialità dei giudici (p. 127). Né si possono cancellare le scorrettezze processuali denunciate dal Manzoni – osserva sarcastico il [di] Ciaccia – in quanto altro non sarebbero che «Tipica mediazione da intellettuale organico: timidissimo, anzi tremebondo, diffidente, alquanto malevolo, davanti al pubblico adatto e avendo Sancta Mater alle spalle, rugge profeticamente » (p. 155). Di argomentazione in argomentazione il [di] Ciaccia mobilita così tutta la critica manzoniana più agguerrita e impegnata, dal Baldi, al Nigro, allo Spinazzola al Marchese; il rapporto fra i Promessi e il romanzo-inchiesta investe direttamente la «componente sociologica» dei due testi: se anche gli umili vengono travolti entro l’«infamia», nel cerchio di pregiudizi che sotto una reciproca minaccia salda potenti e «popolo», si incrina anche il concetto di «populismo» che vorrebbe estranea la «gente di nessuno» alle degenerazioni dei potenti.

Il nucleo propositivo del saggio è quello di recuperare lo spessore storico-scientifico della Colonna Infame entro la struttura dei Promessi proprio perché la tensione etica dell’investigazione giuridica e giudiziaria accende la tensione teleologica del romanzo. Non bisogna dimenticare – scrive il [di] Ciaccia – «che il Manzoni, pur frastornato da quella “specie di disperazione” che lo avrebbe potuto affrontare a proposito dei racconti sulla peste “infame”», continua il romanzo, lo ricorregge, lo pubblica» (p. 190). Dopo l’esperienza d’una perversione storica, l’unica possibile ricomposizione poteva essere la storia della peste nei Promessi ove risorge la presenza ecclesiale, la sollecitudine nella carità dei cappuccini. Quindi sono i capitoli finali del romanzo, che andrebbero letti a conclusione della Colonna. Se questa consegna alla coscienza turbata il romanzo dell’infamia, se dimostra come il peccato restasse nel cuore di uomini che pur dovevano «essere onesti», nei Promessi il male è posto antagonisticamente di fronte alla presenza altrettanto storica del bene, di una Chiesa cioè che può togliere il peccato nell’intimo (p. 197).

Le pagine di congedo spettano infine a Lucia, alla sua «parola soave» come presenza sommessa che nel silenzio si sottrae alla prevaricazione della sessualità-sensualità. Pur consentendo che l’ironia del romanzo abbia corroso dall’interno le convinzioni dell’innamoramento, il [di] Ciaccia rileva come le spiritosaggini arbasiniane su una Lucia promessa a «Miss Broncio» – in parallelo ad un presunto masochismo di don Rodrigo – risultino del tutto inadeguate quando si voglia valutare l’effettiva sovversione dei tradizionali moduli narrativi. Neppure la rassegnazione di Lucia, la sua coscienza quasi «teologale» del voto, riesce a stornare il suo pudico ma insopprimibile amore per Renzo: la sua coscienzialità sincera ed assoluta salva, nella preterizione, il dinamismo psicologico della sua idealità esistenziale. Così i rossori della giovane compagna di Renzo sottolineano un sentimento, una affettività tanto più vera quanto più rinuncia ad «esprimersi». Questa chiave di lettura, la prospettiva dell’«eros come attesa discreta», fa giustizia di tante sommarie semplificazioni; forse non vale neppure la pena di ricordare che ancora negli anni Settanta, sull’onda della polemica di costume, giornalisti e scrittori si esercitavano in assurde attualizzazioni del personaggio: per un Pasolini in Lucia si cristallizzava un’immagine materna che non poteva avere rapporti con Renzo a causa d’una inconscia tendenza omosessuale del Manzoni; per le femministe Lucia era «il simbolo dell’obbedienza» con «tutte le virtù di una serva»; per i rappresentanti della FGCI l’eroina manzoniana poteva invece rappresentare «una donna politica in tutta la forza del termine» perché creava utili alleanze con fra Cristoforo.

In effetti sin dall’inizio della storia – quando Lucia rivela ai familiari l’agguato di don Rodrigo, cap. III – il rossore caratterizza costantemente la sua interiorità; i suoi turbamenti schivi tradiscono un amore che purifica la passione d’ogni sensualità. Il narratore non esclude la sensualità, semplicemente la tace o la allude: è don Abbondio che parla del «bruciore addosso». In Lucia – come altrove si è avuto modo di dire – la fede verginale diventa comportamento etico in cui autocensura e giovinezza coincidono.

Le osservazioni del [di] Ciaccia ci ricordano quelle altrettanto puntuali e argute di un commentatore come il Negri, puntigliosamente impegnato – già agli inizi del Novecento – nel dimostrare che l’amore dei due promessi esclude la «legge delle membra» di cui parla l’Apostolo. Nel romanzo Lucia alterna, con straordinaria intensità fisica, la speranza allo sgomento: dall’altalena di timori e di disperato coraggio (cap. VII) alle sensazioni tumultuose e caotiche della grande notte degli imbrogli (cap. VIII), dagli impacciati rossori davanti ad una monaca «singolare» (cap. IX) al «ribollimento» di pensieri nel ricordo del voto (cap. XXIV), alle lacrime senza pianto che lasciano costernata la povera Agnese (cap. XXVI).

Non per nulla il «sugo di tutta la storia» viene affidato al sorriso «soave» di Lucia: è il momento in cui la sua esplicita dichiarazione d’amore – l’arguzia idiomatica del suo «sproposito» – riversa sul romanzo ormai concluso il segno affettuoso d’una ironia esistenziale. LUCIANO BOTTONI

 

Mario Masini O.S.M., Inesauribili risorse dell’opera d’arte e suggestioni del vero vestito a nuovo. Il valore degli «umili» nel romanzo manzoniano, «Palestra del clero», Anno 67, n. 13, 1 luglio 1988, pagine 804-807.

Idealmente, il nuovo saggio del di Ciaccia sul Manzoni si rapporta a quello edito precedentemente e qui già recensito, La parola e il silenzio. In questo secondo volume viene studiata infatti quell’attitudine interiore che rende possibile il servizio di bene, la disponibilità verso gli altri ed il rifiuto di ogni sopraffazione: fenomenologie che, appunto, erano oggetto di La parola e il silenzio, o in quanto affermate, o in quanto negate dai vari personaggi. In Umiltà e francescanità nei «Promessi Sposi», la prima parte insegna il senso dell’umiltà nel romanzo e lo illustra attraverso alcune figure. L’autore sostiene che il valore dell’umiltà nei Promessi Sposi non va inquadrato sociologicamente: cioè, non è da rinvenirsi nella condizione sociale di subalternanza. Con ciò egli solleva il Manzoni dalla denuncia di populismo, già mossagli da Gramsci e ripresa e perfezionata da altri.

Il romanziere infatti ha assentito, è vero, alle «virtù del popolo» con sentimento di ammirazione – ad esempio, nei confronti soprattutto di Lucia, ma anche di altri personaggi -; e per contro, egli ha stigmatizzato alcuni comportamenti del «popolo», ad esempio durante il tumulto di San Martino; oppure ha ironizzato su alcune qualità o presunzioni dei deboli e dei poveri, ad esempio sulle velleità di Renzo; ed ha ridimensionato la bontà di certi personaggi semplici e generosi, come l’altruismo di Bortolo, cugino di Renzo e suo benefattore.

Di costui appunto osserva che l’aiuto offerto al cugino era, certamente, dettato da pietà umana e da spirito di solidarietà, ma comportava anche un ritorno di utile a vantaggio della azienda. Ora, l’accusa di populismo paternalistico mossa al Manzoni consiste in ciò: egli avrebbe esaltato gli umili, ma lo avrebbe fatto come un aristrocatico che plaude agli inferiori, cioè con compiacente superiorità e quindi con sorriso benevolo sulle limitatezze dei suoi subalterni. Orbene: tale giudizio è falso, conclude il di Ciaccia. Si consideri, ad esempio, che un identico ridimensionamento della virtuosità dei personaggi è operato nei confronti del Marchese, successore di Rodrigo e grande risarcitore dei danni patiti dagli «sposi promessi». È una pennellata stupenda, quella del romanziere, in cui egli mostra come, tutto sommato, l’aristocratico benefattore fosse, quanto ad umiltà, più un volenteroso, dai risultati insoddisfacenti, che non un buon praticante. L’ironia dunque, che riequilibria il peso dei meriti di ciascuno, non è rivolta solo alla gente di bassa condizione sociale, ma a tutti indistintamente: da Prassede al Borromeo.

D’altra parte, se l’umiltà è assegnata principalmente agli umili sociali, ciò non comporta affatto esaltazione ideologica tendente politicamente a mantenere i subalterni nella loro inferiorità di classe. L’umiltà invero è posta a fondamento dell’operato di un Borromeo, alto prelato e grande aristocratico: l’umiltà, dunque, è una condizione dell’animo, grazie alla quale, esclusivamente ed assolutamente, ciò che l’uomo compie, qualunque cosa compia di buono, può esser buono davvero. Di Ciaccia dedica tre serrati paragrafi, in effetti, al colloquio tra Federico e don Abbondio e tra Federico e l’Innominato: e tutto ciò chiarisce quale sia la sostanza reale dell’umiltà secondo il romanziere.

Essa è la consapevolezza che non è l’uomo colui che è buono, ma solo Dio, e che l’uomo in tanto vale, in quanto, facendo tutto ciò che ha il dovere di fare, attribuisce gloria e lode solo al Signore. Orbene, questa è l’essenza dell’umiltà che è dal critico scorta, con puntuali analisi del testo, nel meccanismo psicologico e nell’attitudine di spirito sia del sarto e di sua moglie, sia di Lucia e, in qualche caso (nella «restituzione dei pani»), di Renzo.

Ecco dunque raggiunta la tesi: l’umiltà è nel romanzo un valore evangelico, e gli «umili» secondo il mondo non ne sono che eventuali portatori. In caso, portatori privilegiati: ma non perché privilegio spirituale sia quello dello stato sociale umile. La condizione sociale è solo situazione occasionale, non già necessaria, perché un uomo sia umile di cuore. Ed era stata proprio questa l’idea di san Francesco d’Assisi – pur in contesti storici e sociali diversi da quelli ottocenteschi manzoniani.

Il discorso sul rapporto del Manzoni con il fantasma di san Francesco è dunque d’obbligo, instaurato dalla stessa riflessione sulla umiltà nel romanzo. Di Ciaccia, con originale e a volte avvincente «filmato» sulle ultime battute della vita di Alessandro e di Francesco, mostra, sul filo dello scrutamento psicologico, come le due anime si distanzino sul piano psico-vegetativo, cioè nel carattere, negli impulsi inconsci, nelle tendenze acquisite. Alessandro è un calcolatore: figlio mai affezionato di un padre affettivamente lontano, ma che, comunque, era trasmettitore pedagogico di una prassi economicistica – in questo senso erano famosi i Manzoni, in Lombardia! -; uomo sottoposto alle pressioni attanaglianti d’un’ossessività fobica che lo inchiodava al timore e al tremore del dubbio incerto, Alessandro fu distante da uno che, come Francesco, anche quando ruppe con il papà, lo fece alla grande; da uno che, come Francesco, battagliò da sveglio e da addormentato – con il gusto del cavaliere ardimentoso, reale o immaginario, fortunato o sfortunato che fosse; da uno che, esistenzialmente, era comunque prodigo sempre, sempre profuso di sé, tanto nel convivio giovanile quanto nell’esultanza, più ponderata, dell’adulto; nel gioco come, poi, nel dolore – che lo assimilò ad un Cristo vivo -; nella corrispondenza d’affettuosi sensi creaturali così come, al tempo della vita borghese, nella ricerca della bella brigata.

Insomma, Francesco fu un semplice e grandioso cantore del «mio Signore» – come il severo amatore soleva dire -; Alessandro fu, quantomeno spesso, preoccupato di fare il calcolo del suo dovere, un ragioniere del paradiso, e non poteva intuire l’abbandono del servo il quale, essendo servo ed essendo peccatore al servizio del giusto Signore, è per ciò stesso sempre uno sbagliato, sempre un errabondo con i propri cenci verso il Re, ma che, proprio per lo stesso motivo, è sempre un felice, sempre uno che è già arrivato: che non si preoccupa se «arriva alla fine». Francesco fu un espropriato che tutto possiede; Alessandro un possidente che tiene il conto di quanto deve ancora dare (intendo, al Signore). Francesco diede tutto, come chi ha già tutto perduto; Alessandro diede tutto anche lui, può darsi: ma, non essendosi abbandonato e perso nella gioia di non poter dare niente di suo al Signore, fatica a dare tutto. Ed ovviamente!

Due brav’uomini, dunque – conclude il critico -: ma completamente diversi nel carattere. Dove Manzoni si reduplica sui contorni di san Francesco “è nel dominio dell’arte, cioè nell’atto creativo per cui lo scrittore, sorpassandosi nell’intuizione dell’umiltà dei suoi personaggi partoriti, sente e s’immedesima, vive poeticamente, con le sue creature viventi nel suo fondo, la letizia della debolezza, la gioia di perdere.

Da ciò inizia la vita in comunione con i personaggi cappuccini dell’opera d’arte. Il critico svolge un puntualissimo studio delle figure francescane del romanzo, ribalta alcuni giudizi tradizionalmente accreditati dai commentatori, scopre novità storiche e documentarie, penetra in molti aspetti dell’universo fratesco: dallo spirito di amicizia a quello della fraternità, dal senso dell’obbedienza a quello della carità, e focalizza infine il «peccato» contro l’umile servizio.

L’autore non tralascia mai d’essere attento al testo: il suo saggio è dunque, alla fin fine, svelamento e spiegazione del romanzo. Egli ne coglie aspetti evangelici e francescani reconditi, ed ottiene questo esito delineando con esattezza e con freschezza i minimi particolari degli episodi concernenti i Cappuccini manzoniani. Si può ben asserire che il libro, importante per gli studiosi del Manzoni, indispensabile per i Cappuccini, è anche utile per il clero.

 

G. B. [Giuseppe Bertagna], «Nuova Secondaria», 15 settembre (1988) p. 110.

Francesco Di Ciaccia, in Umiltà e francescanità nei “Promessi Sposi”, rivaluta, contro certe esecrazioni protestantiche, il ruolo del modello francescano e mostra come il Manzoni si sia ad esso ispirato.

 

Redazionale, Due saggi sul Manzoni, «Turinscuola», n. 1, a. 1 del 13.10.1988, n.i.p.

Si tratta dei volumi di F. Di Ciaccia, La parola e il silenzio. Peste carestia ed eros nel romanzo manzoniano, pp. 284 e Umiltà e francescanità nei «Promessi Sposi», pp. 226, ambedue di Giardini editori, Pisa 1987. Già recensiti sia in riviste critiche che su quotidiani ed insigniti della medaglia d’oro del Premio Città di Alanno, trattano delle figure positive e negative a proposito dei temi, di cui nei titoli.

Sulla peste, indagata nei Promessi Sposi e nella Colonna infame, l’autore compie un’analisi serrata sul piano testuale ed inoltre aggiunge informazioni nuove per delineare l’immagine degli inservienti al Lazzaretto. Particolarmente interessante appare poi lo studio sull’eros: esso muove dalle composizioni giovanili del poeta innamorato, per portarsi sul rapporto sentimentale tra Renzo e Lucia, che egli vede focalizzato dal romanziere sull’aspetto «affettivo» dell’eros.

Il libro sulla francescanità nei Promessi Sposi consta essere assolutamente originale: mentre dimostra l’opposizione caratteriale tra Manzoni e l’Assisiate, scopre consonanze d’’intuizione estetica tra i due. Ne discendono interpretazioni molto differenti da quelle consuete, con spaziose ed avvincenti rivisitazioni di diversi personaggi.

 

Mario Masini O.S.M., «L’Italia francescana», anno 63, n. 6, novembre-dicembre 1988, pagine 632-634.

Il presente volume è fondamentalmente incentrato sulle figure dei Cappuccini nel romanzo manzoniano, ad eccezione di quella del padre Felice Casati, oggetto del precedente tomo, La parola e il silenzio. Peste carestia ed eros nel romanzo manzoniano (Giardini editori, Pisa 1987).

Un primo capitolo puntualizza, tuttavia, il valore generale dell’umiltà nel romanzo del Manzoni e ne stabilisce il senso all’interno dello spirito evangelico. Con tale interpretazione il saggista si colloca nella linea critica che, pur affermando lo specifico interesse del Lombardo alla questione sociale nel quadro di un’impostazione liberale e borghese, non richiude l’umiltà nell’ambito sociologico. I personaggi appartenenti alle classi inferiori non sarebbero, dunque, solo espressione di una cultura sociologicamente subalterna, ma sarebbero anche espressione di atteggiamenti spiritualmente superiori: quelli dell’umiltà secondo la visione cristiana. A questo punto, però, il critico avverte che il Manzoni non applica affatto un’equazione tra umili sociali e umili di spirito. Tutt’altro: Manzoni non è populista, come alcuni ritengono. E lo dimostra proprio il fatto che, tra umili e superbi, non c’è uno spartiacque, nel romanzo, in base al ceto, cioè alla condizione di deboli o di potenti secondo il mondo. «La discriminante è in base alla carità. Di Ciaccia esamina dunque alcune figure di umili, come Lucia, Renzo, il sarto e la moglie del sarto. Per menzionare gli aspetti che interessano qui, ricordo le analisi su Lucia e su Renzo: la prima è vista in rapporto a Cristoforo, insieme discepola e modello: il secondo è studiato per la «restituzione dei pani» secondo un concetto che rientra nella giustizia della carità di francescana memoria.

Il critico conclude che l’umiltà rappresenta addirittura non già una virtù tra le altre, ma la virtù che dà forma a tutte quante e che distingue, nel romanzo, l’opera buona dall’opera non buona. Infatti, Manzoni sottolinea un preciso antagonismo, con riflessi anche concreti: l’atteggiamento che si oppone al prossimo, imperversando con il proprio io orgoglioso – dai più piccoli affronti alle più grandi angherie –, e l’atteggiamento che si fa servitore del prossimo. Umiltà e carità, dunque: tutt’uno. Con questo criterio è avvalorato lo spirito francescano; e a proposito dei personaggi cappuccini il critico osserva come i fratelli non chierici, detti laici, non esprimono, neppure essi, di per sé, il valore dell’umiltà. Tuttavia, essi sono in parte favoriti in questo senso, a causa dell’abitudine agli impieghi materialmente più semplici. Di Ciaccia ne delinea un attento panorama in base al testo manzoniano, corredato però dalle Cronache dell’Ordine ed avallato anche dalla legislazione cappuccina.

In questo campo egli modifica profondamente le interpretazioni critiche, che del resto solo in alcuni casi e con sguardo sintetico, negli ultimi anni hanno dimostrato più equa e giusta attenzione. In particolare egli studia la dinamica dell’amicizia francescana nell’Ordine cappuccino, attraverso la figura del padre guardiano di Monza; lo spirito di rustica e saggia fraternità, attraverso il portinaio del convento di Milano; la coscienza delle regole conventuali e insieme la disponibilità d’animo, con spirito di carità, attraverso fra Fazio; la semplicità di cuore, attraverso fra Galdino: il grande ideale apostolico, attraverso padre Cristoforo.

Nell’insieme emerge un’idea di fondo: la forza dei Cappuccini manzoniani consiste nel custodire le tradizioni spirituali di austerità, di sacrificio, di obbedienza e di umiltà: aperte non già al mondo, ma alla fraternità, la quale sola sa scoprire il giusto equilibrio tra l’antico e il moderno.

In concreto: le immagini negative dei Cappuccini manzoniani non derivano da quegli aspetti nei quali finora è parso intravedersi una macchia oscura: ad esempio, nella «curiosità» di fra Galdino (sull’imminente «matrimonio») e nel suo «egoistico» assillo delle «noci» (portar roba in convento!); oppure, nella grettezza mentale di fra Fazio (quello impaurito dalle… donne); oppure, nella battuta mondanetta del guardiano di Monza (quello un po’ euforico per le… donne!); oppure, nella diplomazia traditrice del padre provinciale. Il negativo deriva – sempre secondo il critico – dal tradimento dell’umile fraternità: dove non sopravvince questo sentimento, che può essere gioia, può essere impegno, i personaggi dei Promessi Sposi scivolano verso la logica della sopraffazione: Renzo, nel «vortice» del confusionario coinvolgimento in «piazza»; il padre provinciale nell’interessata «conclusione» egoistica circa il destino d’un confratello. Analisi psicologicamente serrate e al contempo narrativamente godibili svelano il «peccato» del padre provinciale: forte nel difendere l’incriminato, è vinto quando, alla fin fine, difende se stesso.

Di Ciaccia concepisce il limite di alcuni personaggi cappuccini, rispetto al «maggiore» padre Cristoforo, non già come contrapposizione tra «grettezza» e «grandezza», ma come distinzione tra realismo della quotidianità e idealismo dell’eccezionalità. In tal modo egli cambia la prospettiva dei critici che individuavano due mondi in opposizione: quello meschino, o ridicolo, e quello «eroico» di padre Cristoforo. Il mondo francescano è identico, nei Promessi Sposi: che si sfaccetta negli aspetti poveri e semplici, concretati di problemi spiccioli, e nelle dimensioni straordinarie, nelle occasioni difficili. Le due facce si integrano: e non è detto – precisa il critico – che si staglino con nettezza, come fa pensare l’apparenza. Nelle semplicionerie il Manzoni può aver trasmesso un indizio di sapienza francescana, mentre nelle altitudini può avere insinuato qualcosa di insufficiente.

L’indagine perviene a punte di alta tensione descrittive quando affronta il problema della francescanità del Manzoni: come uomo, un Manzoni agli antipodi del carattere di san Francesco; come «poeta», al contrario, all’unisono con l’umiltà dell’Assisiate. Quanto e come lo spirito francescano sia penetrato nelle vene dell’«invenzione» manzoniana è spiegato con riferimento agli incontri tra il cardinale e i diversissimi Abbondio e l’Innominato, ma soprattutto nelle dure sconfitte di padre Cristoforo. Esemplari chiose degli insegnamenti di san Francesco. Mario Masini O.S.M.

 

Angelo Colombo, «Otto/Novecento», Anno XIII, n. 2, marzo-aprile 1989, pagine 269-270.

I due volumi del Di Ciaccia, giunti al pubblico insieme per felice concomitanza di tempi editoriali, offrono un contributo di indubbio interesse per lo studio di una dimensione particolare nello sviluppo narrativo dell’opera massima manzoniana: dalla speciale angolazione costituita dalle presenze cappuccine nell’ordito del romanzo – voci e cose, e ancora libri e memorie omiletiche rimesse in circolo attraverso il Prato fiorito inviso al Porta, per fornire linfa alla vicenda non meno che alla cultura delle ‘genti meccaniche e vili’ – il Di Ciaccia agevola l’affioramento di quanto, all’ingrosso, si potrebbe designare come una ‘teologia francescana’ deposta dal Manzoni accanto ai suoi innumerevoli materiali di lavoro; la duplice ricerca, quindi, esibisce – quasi sempre per la prima volta – una nutrita documentazione della (forzando una titolazione più cauta) francescanità del romanzo, accanto al quale è del resto convocato l’importante teste a carico della Colonna infame.

L’operazione si rivela in tutta la sua consistenza qualora si pensi alla scarsa attenzione – o al vaglio non sempre equanime – prestata dalla critica ai personaggi francescani dei Promessi, con l’ovvia eccezione della figura di Cristoforo. La memoria non può che andare alle pagine finissime di un esegeta come Giovanni Getto, pur sensibile nel cogliere, quasi dall’interno, la psicologia dei personaggi soggetti alle più drammatiche e travagliate conversioni, e tuttavia non così benevolo, si ricorderà, davanti alla figura – e, in specie, alle parole – di fra Galdino. Quanto di ciarlatanesco e di fuorviante può apparire nell’‘esempio predicabile’ del frate cercatore trova, grazie alla disamina attenta del Di Ciaccia e alla serrata discussione imbastita con pagine non meno note di Ezio Raimondi, una sua giustificazione nelle misure proprie del narrare fabulatorio-miracolistico di Galdino e nella visione «paradigmatica» della realtà ad esso sottesa; ad Arnese spetta dunque una visione critica delle cose, al «capitano» Cristoforo una aggressiva, a Galdino il ruolo di svelare, stornando l’attenzione dalla matassa del presente, il piano provvidenziale e divino nei destini del mondo. Nondimeno credo lecito rammentare che, come asserisce, questa volta, un gesuita, Emanuele Tesauro, coevo di Galdino e Cristoforo, il divino si manifesta in aenigmate, attraverso le misure discrete e segmentane dell’exemplum, o ancor più, secentescamente, dell’emblema, del geroglifico, della metafora (che sarà di diverso tra un’autentica allegoria del disegno salvifico di Dio sopra gli ‘impicci’ e le ‘sventure’ umane, del resto, e il miracolo delle noci, incardinato all’opposizione giusto-ingiusto, pio-empio?).

Si consenta un secondo indugio, a fornire una nuova prova dell’ampiezza e delle ragionate proposte ermeneutiche di cui le analisi del Di Ciaccia si sostanziano. Anche in tal caso, l’attenzione si sofferma su una pagina celeberrima del romanzo, riletta a partire da un’equilibrata revisione delle indagini di uno studioso benemerito, Giorgio Bàrberi Squarotti: l’episodio della vigna di Renzo – un originario locus amoenus convertito, mi pare, ai colori di un paesaggista romantico, e nel cap. XXXI posseduto infine dal male, o emblema stesso, tesaurianamente, di un maligno insediato naturaliter nelle cose. Il Di Ciaccia procura una sinossi persuasiva fra il passo in esame e uno stralcio del cap. XXXIII (la descrizione del lazzaretto), grazie alla quale si rivelano le concordanze di accenti e di lessico fra l’intrico botanico attraverso cui sopravvivono le vestigia della vigna e la distorsione – o il coacervo babelico – del vivere societario nella segregazione, governata dai cappuccini, del lazzaretto milanese. Mi pare necessario solo precisare che, come non poteva non accadere nel caso della vigna di Renzo, anche nel quadro turbato su cui Manzoni indugia nel XXXIII dei Promessi Sposi il romanziere fornisce una lettura in chiave esplicitamente astorica, privilegiando quindi, mediante le filigrane del cap. XXXI depositate nella sena del lazzaretto, l’immagine del ‘naturale’ quale luogo del disordine, del dissonante, della molteplicità – emblema del male nel mondo come nel poema cristiano della Gerusalemme (il binomio Tasso-Manzoni, riproposto in anni vicini da Sergio Zatti, potrebbe in definitiva farsi garante di nuovi acquisti anche in questa direzione).

Varrà da ultimo, quale incombenza propria del recensore, sacrificare al rendiconto sommario dei temi trattati nei due volumi il piacere di intervenire su altri luoghi stimolanti della ricerca, da riservare perciò al solo lettore attento o a diversa circostanza di discussione. Il primo saggio, che si apre con una lunga analisi delle pagine manzoniane sulla pestilenza milanese nei Promessi Sposi e nella Colonna infame (capp. I e II: già editi in rivista nel 1985), concede spazio allo studio della carestia (cap. III) e dell’eros nel romanzo maggiore (cap. IV: pubblicato, come il precedente, nel 1986 in rivista). Il secondo volume, che si apre (cap. I: su rivista nel 1984) con pagine efficaci sugli «umili» – riannodando i fili del dibattito attorno a un oggetto caro a un altro manzonista di valore, quale Umberto Colombo –, si sofferma sui personaggi «minori» francescani (cap. I), edito originariamente con il cap. I (nella medesima sede), sulla missione di fra Galdino (cap. III: pubblicato nel 1983), infine – capp. IV (1985) e V (da due articoli, rifusi, del 1984) – sulla «francescanità» nei Promessi Sposi; il saggio dunque, pur articolandosi in forma pressoché monografica attorno al tema dell’umiltà «cappuccinesca» e ai personaggi dei frati minori, appare, per efficacia di rinvii e di intagli, complemento naturale del volume cui si è accompagnato in queste note sommarie di presentazione. (Angelo Colombo)

 

Redazionale, «Premio Letterario Nazareno», Edizione 1988, Anno XIII, Aprile 1989, pp. 2-3.

L’Autore, fecondo studioso manzoniano, affronta in quest’opera un tema forse insolito perché mai analizzato con una certa competenza, ma molto interessante: l’umiltà e la francescanità nel Romanzo del Manzoni.

L’opera è divisa in cinque capitoli. I primi due («Gli umili come “significante”» e «I personaggi minori» francescani) sono la esatta riproduzione del saggio «Gli umili nei Promessi Sposi» della Rivista «Studi e Ricerche francescane» 1984; il terzo ed il quarto ripresentano due studi editi in «Italia francescana» di cui il di Ciaccia è il direttore [sic! In realtà, vicedirettore]; mentre il quinto è composto da due articoli del 1984.

È praticamente una raccolta ch l’Autore ha voluto fare essenzialmente a scopo didattico.

I primi due capitoli sono suddivisi in numerosi argomenti dai quali il di Ciaccia trae «l’umiltà» attraverso una severa analisi dei personaggi da Renzo a Lucia, da Frà Galdino al Guardiano di Monza.

Il quarto invece è dedicato propriamente alla francescanità. E qui l’autore, docente universitario, stila interessanti paralleli tra i personaggi: lo incontro tra Don Abbondio ed il Cardinal Federigo, tra costui e l’Innominato; Frà Cristoforo e San Francesco («se fosse possibile»), Cristoforo e Don Rodrigo.

Il quinto è un vero messaggio francescano: il perdono. Un momento di questo capitolo è quello che il di Ciaccia chiama «voce interiore» di Renzo: Frà Cristoforo.

L’opera, seria e meditata, risente un po’ dei varii periodi in cui i capitoli, che in origine capitoli non erano (come si è detto poc’anzi), sono stati scritti, ed è naturalmente ricca, come ricorda l’Autore, di ripetizioni, che però fanno comprendere il personaggio da angolature diverse.

Ciascuna pagina è molto ricca e feconda di citazioni e di note esplicative, bibliografiche (anche di testi antichi) e religiose; da ciò emerge la passione dell’Autore per questi temi e la sua erudizione.

Infine, a nostro avviso, quest’opera è molto utile per gli studenti che intendono approfondire il Romanzo manzoniano sotto questo aspetto, cioè l’umiltà, in vista di esami scolastici ed universitari. E di questo dobbiamo essere grati al professor Francesco di Ciaccia.

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