1989 – Attrazioni e illusioni
Attrazioni e illusioni francescane in Gabriele D’Annunzio, Roma, L’Italia Francescana, 1989, pp. 106.
Presentazione
Un imperativo s’impone a un francescanista: capire il senso per D’Annunzio di quel suo fascino che l’attirava verso l’uomo d’Assisi, l’uomo della Porziuncola e del Roseto pungente, l’uomo di Chiara, l’uomo della pace che, suonando con un archetto di rami, credeva di suonare davvero; verso l’ardito che, senz’arma, si presenta al Soldano in campo nemico e in piena guerra tra Crociati e Musulmani; verso l’uomo che morendo canta la vita e vivendo canta alla morte «sorella». Di Ciaccia lo dice chiaramente: non illudetevi, D’Annunzio non ha avuto nessun rapporto seriamente morale con Francesco. La dimensione etica manca.
Eppure, proprio perché la premura dell’etica resta nel D’Annunzio assente, nel suo complesso, occorre capire dove e perché, allora, rientra in lui Francesco. Ed è qui che calza bene la consapevolezza di D’Annunzio di essere «multianima»: e Francesco gli rappresentava forse una delle anime contraddittorie a quella che egli viveva deliberatamente, o più consapevolmente delle altre, era una delle anime invisibili, anzi «inespresse». O addirittura inesprimibili? In alcuni casi, una delle anime, anzi, coscientemente respinte e rifiutate, come D’Annunzio afferma circa la povertà in Contemplazione della morte e in diversi casi nell’ultimo decennio di sua vita. D’altronde, D’Annunzio stesso era ben conscio di essere una «verità incomunicabile», di cui nessuno poteva stilare bianco su nero senza che il nero divenisse bianco.
Redazionale, «Messaggero di sant’Antonio», 14 luglio 1989, n. 12, pagina 67.
Infaticabile ricercatore di «francescanesimo», l’autore indaga anche nell’opera del «Comandante» offrendo, in una densa monografia, interessanti stimoli. In un momento in cui si auspica una nuova lettura ai fini dell’ammodernamento ma anche della divulgazione del poeta, un saggio come questo può aprire una pista feconda anche per gli scettici.
Mario Masini, Francescanità del D’Annunzio, «Palestra del clero», anno 68, n, 14, 1 Ottobre 1989, pagine 1187-1191.
Questo studio sul «francescanesimo» dannunziano (F. Di Ciaccia, «Attrazioni e illusioni francescane in Gabriele D’Annunzio», L’Italia Francescana, Roma 1989, pp. 106) è apparso quasi contemporaneamente, nella sua prima sede di Rivista, alla biografia su d’Annunzio di Ferruccio Ulivi, della quale il Di Ciaccia non si è potuto, quindi, servire. Ma alla raffigurazione della personalità dannunziana, offerta nell’analisi, sempre acuta e penetrante, dall’Ulivi, si può riferire l’intuizione del Di Ciaccia, entro la quale va collocata la «francescanità» del D’Annunzio.
L’Ulivi ha radiografato del D’Annunzio quel «segreto», offertogli in dono dalla natura, «di essere molti uomini in un unico individuo» (dal risvolto di copertina). Di Ciaccia insiste primieramente proprio sulla molteplicità delle «anime» di D’Annunzio, tanto che, accennando al «vivere inimitabile» del Poeta, lo definisce esattamente dal punto di vista psichico ed esistenziale: «Inimitabile è, sostanzialmente, l’unità dei contrari, la compresenza delle opposizioni… D’Annunzio percepiva in sé atteggiamenti opposti, vissuti come identici in una intrinseca interconnessione esistenziale» (p. 7). Altrettanto si dica per la «prodigalità» del vivere: che è, sì, a prima vista e banalmente, profusione dei mezzi materiali, ma che è, oltre l’effimero fenomenico, l’irresistibile impulso e trascendersi sempre, l’assoluta necessità di «dare sé (pur sempre a se stesso) prodigalmente», «senza» misura e senza limite, proprio in quanto il dono di sé a sé (o l’autorealizzazione) non può essere riduttiva e limitata.
Tali premesse, necessariamente sintetiche data la loro funzione di semplici avvertenze, servono al Di Ciaccia per non illudere il lettore sul «francescanesimo» dannunziano. Non illuderlo né deluderlo. In effetti l’autore, in primo luogo, sostiene senz’altro che la «sostanza dell’animo» di D’Annunzio non è religiosa, e in tal modo fa sua la dichiarazione di Tom Antongini, amico e anche temporaneo segretario del Poeta. Altrettanto, ritiene fin troppo scontato il giudizio perentorio di alcuni critici cattolici, che hanno liquidato il francescanesimo dannunziano come superficialità di adesione, come travestimento d’un estetismo proteiforme o addirittura come contaminazione sacrilega, che effettivamente D’Annunzio a volte da ansa di accreditare.
D’altra parte, c’è da ammettere un dato obiettivo: tra le figure reali, siano esse vive, siano esse morte, a cui D’Annunzio dedichi un pensiero o un gesto, quella di Francesco è forse quella di cui egli più frequentemente si rammenti, dopo le varie donne della sua passione; e comunque costituisce una delle sollecitazioni – immaginifiche, certamente – a cui abbia mostrato, pur senza riservare al personaggio un’opera in grande stile, di esser più sensibile, nell’arte e nella vita, sempre in subordine rispetto alla donna.
Un imperativo s’impone a un francescanista: capire il senso per D’Annunzio di quel suo fascino che l’attirava verso l’uomo d’Assisi, l’uomo della Porziuncola e del Roseto pungente, l’uomo di Chiara, l’uomo della pace che, suonando con un archetto di rami, credeva di suonare davvero; verso l’ardito che, senz’arma, si presenta al Soldano in campo nemico e in piena guerra tra Crociati e Musulmani; verso l’uomo che morendo canta la vita e vivendo canta alla morte «sorella». Di Ciaccia lo dice chiaramente: non illudetevi, D’Annunzio non ha avuto nessun rapporto seriamente morale con Francesco. La dimensione etica manca.
Eppure, proprio perché la premura dell’etica resta nel D’Annunzio assente, nel suo complesso, occorre capire dove e perché, allora, rientra in lui Francesco. Ed è qui che calza bene la consapevolezza di D’Annunzio di essere «multianima»: e Francesco gli rappresentava forse una delle anime contraddittorie a quella che egli viveva deliberatamente, o più consapevolmente delle altre, era una delle anime invisibili, anzi «inespresse». O addirittura inesprimibili? In alcuni casi, una delle anime, anzi, coscientemente respinte e rifiutate, come D’Annunzio afferma circa la povertà in Contemplazione della morte e in diversi casi nell’ultimo decennio di sua vita. D’altronde, D’Annunzio stesso era ben conscio di essere una «verità incomunicabile», di cui nessuno poteva stilare bianco su nero senza che il nero divenisse bianco.
E fin qui, abbiamo toccato un Francesco «in negativo», come un negativo fotografico, in D’Annunzio: un negativo che vale realmente, tuttavia, proprio come è l’immagine in positivo. Altrimenti, che senso avrebbe, in D’Annunzio, il fascino per la semplicità francescana? che senso il fantasma della povertà di Francesco, di cui più volte il Poeta parla, e in particolare a proposito di Miss Macy? Più concretamente, sul piano biografico: D’Annunzio frequentò – e non rarissimamente – i conventi francescani, intrattenendosi in semplicità di conversazione e traendone un qualche gusto – certo, sempre sensoriale! – di animo, solo ipocritamente? Forse per amor di semplice teatralità, per una teatralizzazione della semplicità antiteatrale? Oppure, oltre a ciò, D’Annunzio forse aveva in sé, come un’anima «inattuale», anche questo, per l’appunto, cioè l’amore della semplicità? Il medesimo interrogativo si ponga per la carnalità-spiritualità, cioè per la lussuria-castità. Giustamente Di Ciaccia inscrive l’«innocenza» dannunziana nel superomismo, per un verso, e nel panismo, per altro verso, così come la sua «irrefrenabile voluttà»; ma egli riflette anche su un altro quesito: è possibile che D’Annunzio non sentisse per niente vero ciò che diceva e faceva raffrontando i suoi amori (qualcuno materialmente «consacrato» nei luoghi francescani e, furtivamente o meno, financo nelle chiese d’Assisi) a quello di Francesco e Chiara? Non poté forse essere l’amore dei due santi l’altra «anima di sé», negata ma vissuta come tale, cioè come «altra anima di sé», così come egli vedeva nei due santi la passione «sensibile» (non carnale, tuttavia), che egli esaltava in sé e che poté vedere come l’«altra anima» dei due santi?
Poi, comunque, ci sono, più esplicitamente, le sollecitazioni in positivo, osserva Di Ciaccia. E proprio nell’ambito della sessualità, non poté essere solo un gioco poetico ed estetico l’intima intelligenza del D’Annunzio circa la tentazione carnale di Francesco. Anche il Santo ebbe il suo «serpente». Non è retorica: D’Annunzio indubbiamente proietta se stesso nel suo personaggio; è cosa certa, sì, ma è anche chiaro che il suo discorso è onesto, tormentato, trasparente. Tanto che egli è disposto a dichiarare la propria disarmonia rispetto al Santo: un Santo che lo turba, che è occasione di «autoconsapevolezza», annota il critico.
Il critico non ha alcun compito né di celebrazione né di censura orale; ma appunto, su un altro piano – quello della rappresentazione fantasmatica – il critico dimostra che lo stimolo francescano in D’Annunzio procedeva da un’immagine di san Francesco come personalità estremamente sollecitante in ciò, per l’esattezza e in generale: perché anche Francesco era un po’ un abisso di «verità incomunicabile». Questa è la tesi di fondo del Di Ciaccia. Poi il suo lavoro costituisce un sostanziale apporto, materiale ed oggettivo, di documentazione dei brani dannunziani riferentesi a san Francesco, presentati cronologicamente e al contempo tematicamente, contestualizzati nella biografia dannunziana con accenni alle opere letterarie.
Il critico segue il percorso dalla fase laudese e popolare, in cui Francesco appare il «cantore della natura» (pp. 34-37), fase commista all’altra faccia, quella del «tormento carnale» (pp. 39-47), in cui si colloca il sonetto Assisi; poi espone ed approfondisce il mistero del sacrificio di Cristo, accostato dal D’Annunzio alla morte di san Francesco (pp. 47-58); delinea il «Francesco benedicente, pacificatore e crociato» della Crociata degli innocenti (pp. 58-60), per poi mostrare la presenza francescana nei testi e nei detti dannunziani alla prima guerra mondiale fino a Fiume («San Francesco compassionevole e patriottico», pp. 60-69); percorre dal dopoguerra, come in una parabola breve e carica di sorprese, il periodo dell’infatuazione francescana di D’Annunzio, che usa il Santo per l’idea d’una crociata culturale contro l’imperialismo della plutocrazia occidentale (pp. 70-76); poi, «San Francesco “crociato” in Oriente» (pp. 80-84) e che, dopo la convinta difesa della causa del convento dei Frati Minori in Assisi (pp. 76-78), sfiora un’esaltazione da «odor di quasi santità francescana» (pp. 78-79), ormai acclamato e riconosciuto il miglior cantor di San Francesco.
Poi la discesa, nel ruolo pubblico del D’Annunzio francescano: il poeta non trova l’estro per progetti poetici, di ispirazione nuova, imperniati sul Santo («II Cantico di frate sole non cantato», pp. 84-90) e, tenuto lontano dalle celebrazioni per il settimo centenario della morte dell’Assisiate, inventa al Vittoriale un «Quarto Ordine francescano» (pp. 90-94), orientandosi sempre più decisamente verso un religiosità sincretica, in cui Francesco continua ad essere, ancora, in prima fila («I Nuovi Fioretti e il sincretismo religioso», pp. 94-106). In questa fase, più che mai, si capisce bene la complexio oppositorum, in cui le polarità si unificano: è la carne che è spirito consegnato alla morte, è lo spirito che si diffonde nella materialità, è la Pace che congiunge Male e Bene (come recita il motto francescan-dannunziano inciso anche sul marmo), è il dio invisibile che unisce Cristo e Budda: Francesco cavalca l’Elefante della religione indiana e Assisi diventa il simbolo di tutte le santità. Infine, il Lebbroso, di francescana memoria, che abbraccia D’Annunzio: estremo sforzo di riscattare la morte sublimando la corruzione del corpo.
Certo, «il mio Francesco non è quello di tutti», aveva scritto D’Annunzio al padre cappuccino Marcello da Intimiano, il 31 agosto 1926. E che così fosse non è in dubbio. Il critico conviene. Ma Di Ciaccia si pone una domanda dal sapore di vita: e se D’Annunzio avesse colto nel segno, mettendo tra le braccia del suo Francesco, quello della statua al Vittoriale, «la corta spada di Volontario?» se questa spada fosse simbolo di una battaglia culturale che muove le coscienze, non potrebbe aver ragione lui, a parte le sue idee così confuse, invece che altri, con idee chiare, ma sciapite, formalistiche e senza inventiva? fra Mario Masini OSM
Res [Rosario Esposito], «Vita Pastorale», N. 8-9, 1989, pagina 150.
La venerazione del Vate per il Poverello è ben nota: nel Vittoriale la presenza di san Francesco era indubbiamente la più abbondante, al punto che qualcuno la riteneva addirittura ingombrante. Generalmente questa “devozione” dannunziana non ha avuto buona stampa: la si riteneva pura moda estetizzante. Non si vuoi dire che fosse tutto oro colato, ma certamente non era pura formalità. L’A., in fatto di francescanesimo manzoniano, è una vera autorità; stavolta s’è impegnato a vederci chiaro nel francescanesimo dannunziano, senza pregiudizi, senza entusiasmo acritico, in piena obiettività. È un lavoro meritorio (Res).
Ottaviano Giovannetti, «Studi francescani», anno 87, 1990, n, 1-2, pagine 179-182.
Non è fuori luogo cercare tracce di Francesco d’Assisi nella più che vasta opera dannunziana: né si è delusi intraprenderlo con Francesco Di Ciaccia.
Nicoletta De Vecchi Pellati, nella biblioteca del Vittoriale, ha trovato ben 129 titoli che riportano a s. Francesco con libri, quadri ed oggetti vari. Dei libri sono segnalati: Speculum perfectionis, Legenda Trium Sociorum, Le mistiche nozze di San Francesco e Madonna Povertà, i Fioretti di San Francesco in nove edizioni diverse, la Vita del Sabatier, San Francesco d’Assisi… del P. Facchinetti, Saint François d’Assise di J. Jörgensen, Il patriottismo di Frate Francesco di A. D’Alessandro, ecc. Autori, curatori di opere inviarono a D’Annunzio 34 volumi con dedica e due con missiva (pp. 27-33).
Il Di Ciaccia, nel suo studio, permette di seguire nelle Opere e nel tempo il rapporto D’Annunzio-S. Francesco, e di ricostruirne i passaggi e le fasi.
Il D’Annunzio prende l’avvio dalla lirica del Carducci, dalla prosa del Verga e del naturalismo francese, dalle suggestioni e seduzioni della vita aristocratica romana. Presto lo scrittore ed il poeta palesarono un impressionismo sensuale e un gusto per la vita primordiale, ferina, paganeggiarne.
L’incontro di D’Annunzio con S. Francesco avvenne nel settembre 1897, quando il Poeta si reca in visita ad Assisi e dintorni in compagnia di Eleonora Duse. «La preghiera – annotò nei Taccuini – riempie i chiostri… L’anima del serafico si diffonde per tutta la valle, benedice tutte le soglie, conforta tutti i focolari…». Ammirare, contemplare erano gli atteggiamenti più frequenti del D’Annunzio; difficilmente egli andò oltre il visitatore attento (pp. 44-45).
Nel 1898 avrebbe voluto scrivere una tragedia francescana nei modi della poesia popolare umbra e delle antichissime laudi drammatiche, intitolata Frate Sole. Questo confidava a Georges Hérelle, suo traduttore francese, perché trovava in lui qualcosa di francescano (p. 36). In quegli anni aveva avuto in progetto di scrivere una biografia di Gesù Cristo, non solo sul piano storico, ma anche su quello gnoseologico e religioso, perché sosteneva di sentire «continua sopra il mondo» la presenza del sacrificio di Cristo (p. 54).
Ma il D’Annunzio aveva tutt’altra natura, e seguì altre vie ed altre ne volle tentare, senza stancarsi di sperimentare.
Credette all’animismo magico e ad una religiosità primitiva in opere composte nell’82 (Terra vergine), nell’84 (II libro delle vergini), nell’86 (San Pantaleone), nel 1904 (La figlia di Jorio). Seguì e giustificò il sensualismo: G. Aurispa, protagonista di Trionfo della morte (1894), contro ogni concezione platonica, afferma che «non può considerare l’amore se non come opera di senso» (p. 20); C. Cantelmo, protagonista di Le vergini delle rocce (1895), dichiara che l’essere umano può sottrarsi al mondo ma non al cuore. Accettò per episodio reale la figurazione di un quadro in cui S. Chiara scambia un bacio col Serafico (pp. 24-25).
Si dedicò (soprattutto in Le vergini delle rocce) a comporre il mito del superuomo, affidandogli il triplice compito di «condurre con diritto metodo il (suo) essere alla perfetta integrità del tipo latino; di adunare la più pura essenza del (suo) spirito e riprodurre la più profonda visione del suo universo in una sola e suprema opera d’arte; di preservare le ricchezze ideali della (sua) stirpe e le (sue) proprie conquiste in un figliuolo». Sperimentò (nel 1889) l’estetismo con Il piacere, convincendosi che l’arte è considerata come la forma più alta del nostro vivere pratico, e pertanto amò l’espressione più del pensiero. Ripeté il tentativo (nel 1900) con II fuoco, ricercando una libertà dal desiderio del senso, approdando soltanto al «connubio dell’arte con la vita», senza pertanto superare la sensualità (p. 34).
Nelle Laudi (a cui lavorò dal 1896 al 1903), dissolvendo il mito del superuomo, ritornò con maggiore maturità d’arte e di spirito alla sua sorgente di ispirazione più autentica e da cui scaturirono le migliori sue opere. Lo «sprofondarsi nella vita naturale» secondo A. Gargiulo, permise al D’Annunzio di attingere alll’«infinito desiderio», oltrepassando l’«infinito dominio». Queste espressioni, tuttavia, sono citate con diffidenza dal Di Ciaccia, secondo il quale la sensibilità poetica del Pescarese resta distante dalla spiritualità dell’Assisiate (p. 37); nel senso che quest’ultima è ridotta a letteratura.
Il panismo, nota ricorrente delle Laudi dannunziane, è da considerare inferiore allo stesso «panteismo», già negativo di per se stesso. Il Poeta, in definitiva, è attratto dalle virtù di Francesco: povertà, semplicità, carità, gioia, ma pur ammirandole, se ne serve come qualità esteriori (p. 45).
Nella Contemplazione della morte (1912) definì il Cristo «bellissimo nemico», ammettendo che il Divin Maestro lo «affascinava», ma anche lo «disturbava». Del resto non è possibile la «conversione» per chi come lui aveva dichiarato: «So che, per farmi nuovo, io non debbo obbedire ad una parola già detta, ma ad una parola non ancor detta»: attendeva un quinto Vangelo. Alla stessa maniera pensò che l’opera di S. Francesco non fosse completa: promise di scrivere i Nuovi Fioretti.
Durante la prima guerra mondiale, il D’Annunzio venne a contatto con il pericolo, la morte, sentì la fame, la povertà, la solitudine: S. Francesco gli fu più vicino, tuttavia usò il Santo prima di tutto per il suo impegno «militare e politico». Ne La preghiera di Doberdò (con la notazione Novena di S. Francesco d’Assisi, Settembre 1916) scrisse: «San Francesco lacero e logoro piange silenziosamente in ginocchio sul gradino spezzato dell’altare maggiore…; i feriti della notte colcati / su la paglia lungo il muro superstite della povera casa / di Dio… E il Santo si volge alla creatura di Dio, con / ferme su la faccia le lacrime come rugiada su la fo / glia è prima del sole. E tutte si volgono rapite alla mes- / saggera d’una stagione sublime le facce del glorioso / dolore» (pp. 65-66).
I Taccuini 1917 al 3 ottobre registrano una preghiera a S. Francesco «perché serbi il sereno fino a notte» durante una missione di guerra; e ricordando che il Santo recandosi in Terra Santa solcò il mare sul quale sarebbero volati gli aerei da Gioia del Colle contro le basi austriache alle Bocche del Cattaro, rivolge laudi al vento perché non li avversi, al fuoco perché non li arda, all’acqua perché non li affoghi (cit. a p. 62).
Nella Laude della Povertà, scritta a Fiume nel Natale del 1919, si legge: «I poveri di Fiume non sono i prediletti di santo Francesco? Come il serafico, essi hanno dato alla povertà l’aspetto raggiante della magnificenza» (cit. a p. 64). E su questo tema francescano, il Di Ciaccia conclude: «Io non sostengo che D’Annunzio non credesse davvero al valore della povertà proposta da san Francesco, ma dico che egli sapeva sfruttarla a tempo e luoghi opportuni, per un fine pratico ritenuto giusto» (p. 65).
Nel dopoguerra il Francesco del D’Annunzio «divenne un crociato ed un pacificatore sociale» (p. 71).
Negli articoli sul disarmo navale, pubblicati a New York tra il 1921 ed il 1922 vide il mondo «diviso in potenze plutocratiche ed in popoli ricchi di sola cultura e spiritualità» e commentava: «… se considero la presenza dell’Italia ‘poverella di Dio’ nel concilio dei potenti, mi viene in mente… S. Francesco, che approdò in Egitto e stette col suo semplice cordiglio e con la sua bisaccia vuota tra i baroni cristiani partitori di bottino. C’era la tavola delle dispute anche a Damietta. Conturbato e accorato, passò dal campo dei fedeli a quello degli infedeli. E per stabilire la sincerità e la superiorità della sua fede, propose al Soldano benigno di passare attraverso il fuoco se i servitori di Maometto fossero per fare altrettanto» (cit. a p. 80).
Uno dei punti più significativi e più sinceri si legge in Per l’Italia degli Italiani (dic. 1922): «Lasciate nitrire nel prato i bellicosi cavalli ormai concessi all’agricoltura paziente… Ma santo Francesco che seppe esser pedestre e celeste in tutta la sua milizia, mi rimormora in cuore: ‘L’azione senza grazia è una vecchia sella che da ogni cavalcatore è rimendata e rimbottita alla meglio o alla peggio» (cit. a p. 83). Negli anni delle violenze fasciste Francesco ispirò al Poeta del Vittoriale la tolleranza: «Dalla pazienza maschia, e non dalla impazienza irrequieta – rispondeva a Mussolini che cercava una sua approvazione – a noi verrà la salute» (p. 73).
Un ulteriore avvicinamento al Santo si sarebbe potuto verificare in occasione del settimo Centenario della morte nel 1926. In effetti il podestà di Assisi, Arnaldo Fortini, per tempo lo aveva invitato a tenere il discorso ufficiale, senonché la rappresentazione a Milano di Le martyre de saint Sébastien (1926), già censurato a Parigi e poi dalla S. Sede, consigliò al Fortini di non ripetere l’invito (p. 87).
Dal 1925 aveva preso come uso di firmarsi «Gabriele D’Annunzio del Quarto Ordine». La maniera finì con l’indignare Matilde Serao, la quale conosceva il Poeta per avere a lungo collaborato con lui al giornalismo. «Ma che gli ha fatto – scrisse in Conquista Cattolica nel 1925 – San Francesco d’Assisi a Gabriele D’Annunzio, perché il Poeta si beffi di lui, così crudelmente e oltraggi questo Santo, in tutte le sue impareggiabili virtù di santità?» (cit. a p. 90). E subito dopo il Di Ciaccia giustamente corregge la Serao, là dove scrisse che i tre Ordini fondati dall’Assisiate sono «i Minori Osservanti, i Cappuccini, i Terziari». Nel Libro segreto del 1935 il fantasioso scrittore aggiunse altro ancora; descrisse S. Francesco a cavallo di un elefante in viaggio per apparire «ai testimoni e ai Legislatori del Buddismo, ai mostri della mitologia asiatica!». La divinità tibetana tiene in mano una medaglia ebraica con l’immagine del Nazareno; il Poeta s’avvicina a baciarla, avvertendo «un senso infinito dell’ansia religiosa nei secoli…»; nega di essere un profanatore, bensì dichiara: «Aspiro al dio unico, cerco il dio soprano, e sento come ‘quel che è in me divino’ tenda a ricongiungersi col dio inaccessibile, si sforzi di possederlo» (p. 96). Si tratta di un progetto, o più precisamente di appunti di sincretismo religioso, che possono aver giovato all’uomo D’Annunzio, ma che deprimono la personalità di s. Francesco, e che soprattutto disperdono il concetto di divinità. Non era sfuggito al D’Annunzio che s. Francesco mediante il Terz’Ordine aveva impegnato al rinnovamento spirituale re e regine, cavalieri, poeti, artisti, ricchi, gente del popolo umile, «i quali giuravano di essere fratelli nell’amore di Dio e del prossimo e obbligavansi a non prendere le armi se non in servizio della fede e della patria, diffondendo cosi l’orrore per le violenze e le contese tra città e città, tra fazioni e fazioni» (p. 75); come pure «apprezzava lo spirito dei frati nella loro intima tranquillità, segno di pace interiore e di unione con Dio» (p. 92). E forse l’aspetto sociale di Francesco permise al Poeta pescarese di avvicinarsi maggiormente al Santo di Assisi e di esprimersi con sincerità. Un’azione benefica D’Annunzio la compì quando fin dall’ottobre 1922 s’interessò concretamente affinché lo Stato italiano restituisse il complesso basilicale di San Francesco d’Assisi ai Frati Minori, soppresso e requisito con disposizione del 7 luglio 1866. D’Annunzio non giustificava che lo Stato avesse incamerato i beni degli enti morali e religiosi, non riconoscendo loro, dopo secoli di vita, una personalità giuridica. Egli intervenne, indirizzando lettere a Giovanni Gentile, Ministro della Pubblica Istruzione, al sottosegretario per le Antichità e le Belle Arti, al cardinale Gasparri (1 novembre e 23 dicembre 1922). La restituzione avvenne il 4 ottobre 1927: al Poeta andò il merito di avere svolto un ruolo determinante.
Verso la fine della sua analisi, il Di Ciaccia afferma che la religione del D’Annunzio «non nega l’apporto cristiano, ma… lo trascende inglobando altre fedi, sia quelle di natura orientale, vedica e buddhistica, sia ogni altra credenza religiosa, fino al limite della religione pagana» (p. 99). «Prima ancora di quelle bibliche e francescane, D’Annunzio subì talune suggestioni dei libri Vedici e delle Upanishad» (p. 100). Né suscita meraviglia che egli abbia usato la mentalità orientale per correggere perfino il saluto di S. Francesco di Pax et bonum, unendovi il Malum et Pax.
Come per l’arte, il D’Annunzio passò da esperimento ad esperimento senza fermarsi a qualche cosa di definitivo, altrettanto non si decise ad una scelta definitiva in religione. Ottaviano Giovannetti
Redazionale, Premio Letterario «Nazareno», Edizione 1990, Anno XV, Aprile 1991, pagina 7.
L’Autore, molto garbatamente, mette in evidenza la natura narcisistica del D’Annunzio, che pone se stesso «al di là del bene e del male», e tutto interpreta sotto questa ottica. Il D’Annunzio, veramente, ha avuto un’ampia raccolta di opere su S. Francesco; ma di lui ha soltanto interpretato e visto l’aspetto umano mai mistico. E si è limitato ad imitare soltanto lo stile strutturale ed estetico-sensitivo, mai lo spirito di S. Francesco. Cosa per lui inconcepibile ed incomprensibile. Per questo la semplicità, la gioia, la povertà, la carità sono dal D’Annunzio ritenute qualità soltanto esteriori e strettamente umane, che ammira, ma non traduce in norma di vita.