Agosti, G., 1987

Giannantonio Agosti, Nei Lager vinse la bontà, Milano, Artemide, 1987, pagine XII+248, «L’Italia francescana», 4-5 (1987) pagine 574-575.

 

Copertina, Agosti, Lager, 1987

 

 

 

Testo della recensione

Il libro, sollecitato dal card. Schuster alla fine di maggio del 1945 dopo aver incontrato l’Autore di ritorno dai campi di concentramento nazisti, è alla terza edizione (la la nel 1960). L’autore vi narra infatti la storia della sua deportazione, dopo l’incarceramento al San Vittore di Milano, nei campi di Flossenburg (due mesi), di Zwickan (due mesi) e di Dachau (sei mesi), fino alla liberazione del 29 aprile 1945. Storia autobiografica, ovviamente, su quella barbarie, ormai a tutti nota e narrata in tutti i particolari, che solo la degradazione dell’uomo, tra fanatismo e sadismo, tra ideologia e ferinità, conosce e rivela: che è la ragione al servizio dell’istinto, l’intelligenza al carro dell’odio, cioè dell’amor sui accecato.

Non è esorbitante questo proemio: il racconto dell’Agosti è, infatti, diverso dalle mille cronache sull’argomento. Non già perché oratorio: tutt’altro; è scarno; è oggettivissimo, scrupoloso senza essere minuzioso e noioso, nulla cela e nulla enfatizza, né la crudeltà né la pazienza, né la miseria né la nobiltà. Non ha nulla da invidiare alle opere di Primo Levi sullo stesso materiale umano e doloroso. Interviene, nell’opera dell’Agosti, qua e là qualche emozione, sobria tuttavia ed essenziale, cappuccinescamente controllata, dove rinfaccia, nel colloquio personale con il tedesco, maresciallo Kock, la lealtà del proprio comportamento – tra le grinfie, oramai, della bestia, e dopo che lo stesso autore ha rifiutato di salvarsi, avvertito da un confidente, passando dal Duomo alla Curia cardinalizia attraverso un sottopassaggio segreto! -; qualche intervento patriottico, dove fa vergognare, con delicatezza, i lacchè dell’infanzia nazista e dove, nei Lager, parla di qualche italiano; qualche riflessione umana, dove annota il coraggio di uomini onesti – tutto documentato e serio -; qualche gioia sacerdotale, nell’incontro con i preti internati – dove la Chiesa si è fatta viva e santa -; qualche premura spirituale, quando conversa con i materialisti, fattisi pensierosi ai ragionamenti dell’uomo sereno – spogliato del saio di san Francesco -; qualche osservazione sullo spirito alieno dalla vendetta, quando gli aguzzini SS, pazzi e fuorviati, son diventati, dopo la liberazione americana, servi ed inservienti nei loro Lager di morte.

Già, è cosi: questa storia, grezza, fatta di cose, ruvida come un saio, è l’esperienza di un cappuccino, per cinquanta anni penitenziere ufficiale al Duomo di Milano (oltre che scrittore e docente di filosofia). Scritta per accondiscendenza – e solo perché l’autore ebbe il tempo, dopo una frattura casuale, di fare il degente all’ospedale -, non ha nulla di nar-cisistico e nulla di passionale. Non è stata ingigantita dalla pubblicità del mondo e non è stata sponsorizzata dagli interessi economici e politici, perché è l’espressione pura di un uomo che ha sofferto, ma soprattutto di un uomo che ha testimoniato la «vera letizia», il cui episodio assisano è esplicitamente menzionato, trascritto, vissuto e svelato dall’autore.

Senza rancore – come neppure in Levi, per dichiarazione esplicita in prefazione -, essa tuttavia insegna: insegna l’unica forma antagonistica alla macelleria che è il cuore morto, imbastardito, offuscato. Ma, per capire questo insegnamento – sottile, benché decorosamente e pudibondamente elicitato -, occorre seguire le pagine del libro: comprese quelle in cui è dichiarato – a proprio nome o da parte di altri, che nella storia miserabile hanno elevato il canto – che il patire era accolto per amore, e con amore veniva donato: nel pezzo di pane regalato, nella parola donata.

Allora, perché ha vinto la bontà? Nel luogo dell’orrore? nei giorni della pazzia?

Leggete, e saprete.

Ma il problema è che quella stessa attitudine, appunto, continui a vivere.

Come non è morto, questo autore trapassato tranquillamente dal timore del forno crematorio? colpito dalle bastonate inutili e paurose? che ha visto con orrore altri, condotti alle camere a gas, e lui privilegiato dalla vita? che ha testimoniato la gioia della longanimità, per la quale le guardie naziste andarono esenti, in genere, dal linciaggio dei prigionieri il giorno dopo la liberazione?

Senza tragedia. Chiedendo di altri.

E perché, non lui, deve insegnare qualcosa all’umanità, in continuo pericolo di follia ? Follia collettiva e follia privata? [Francesco di Ciaccia]

 

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