d’Alatri, Mariano, 1984-1986

I conventi cappuccini nell’inchiesta del 1650, a cura di Mariano d’Alatri, 3 voll., I: L’Italia Settentrionale, pagine XXX+417; II: L’Italia Centrale, pagine XVIII+427; III: L’Italia Meridionale e Insulare, pagine XXIV+305, Roma, Collegio San Lorenzo da Brindisi, Istituto Storico dei Cappuccini, 1986-1984-1985, «L’Italia francescana», 4-5 (1987) pagine 569-571.

Idem, «Studi e Fonti di Storia Lombarda. Quaderni Milanesi», 15 (1988) pagine 221-224.

 

      Copertina, d'Alatri, Conventi, 1               Copertina, d'Alatri, Conventi, 2               Copertina, d'Alatri, Conventi, 3

 

Testo della recensione

Con la pubblicazione del tomo – il I – che completa la trilogia sull’inchiesta di Innocenzo X, Mariano D’Alatri ha condotto a termine un lavoro imponente, di notevole prestigio e di grande utilità storico-documentaria, mettendo a frutto la sua matura esperienza di studioso a favore, con questa opera, dei Monumenta Historica Ordinis Capuccinorum – di cui i tre tomi costituiscono i volumi XV, XVI, XVII.

Il primo tomo accoglie, come fase di riferimento storico, i documenti ufficiali riguardanti l’inchiesta innocenziana: il breve pontificio Inter caetera e il questionario, predisposto dalla Congregazione romana sullo Stato dei Regolari, per la relazione sulla situazione materiale, oggettiva dei singoli conventi, case, ospizi, ecc.: ubicazione, fondazione, numero degli abitanti e risorse economiche. Altri documenti rivelano l’accoglimento, da parte dei frati, di questa operazione, e al contempo le loro preoccupazioni. Sono molto interessanti le lettere del Procuratore Generale dell’Ordine ai cardinali e prelati incaricati della questione.

Il breve pontificio, datato il 17 dicembre 1649 e pubblicato il 22 successivo, imponeva che nelle case dei Regolari – «compresa la Compagnia di Gesù» – dimorassero, e anche in futuro osservassero il medesimo criterio, tanti membri quanti potessero con facilità («commode» e «competenter») sostentarsi economicamente, vuoi con proventi fissi, lavorativi e fondiari, vuoi con redditi da elemosina. La proibizione di ricevere novizi e di ammettere alla professione era subordinata alla compilazione dei dati anagrafici e patrimoniali e al loro inoltro presso il Procuratore o il Generale di ciascun Istituto. Il dettato normativo era teso ad impedire che nel frattempo, cioè nell’arco dei quattro mesi prescritti per l’adempimento da parte delle singole case, e poi degli altri quattro riservati al riscontro ed al controllo da parte dei «revisori» nominati d’ufficio, il numero dei Regolari aumentasse, mutando così la situazione.

L’analisi dei redditi per i Cappuccini fu semplice poiché essi non possedevano beni economici: le risposte si limitarono a garantire «che le elemosine ordinarie erano sufficienti per assicurare la sussistenza di un determinato numero dei frati» (Introduzione, I, p. XIV); si rivelano inoltre precisissime nell’individuare gli eventuali proprietari dei beni in uso. Circa il computo del numero dei frati, l’Autore nota tutte le discrepanze tra quello segnalato ai revisori – nominati il 24 giugno 1650 – e quello registrato nel Capitolo Generale del giugno 1650: le relazioni erano già state compiute, generalmente, tra il gennaio e l’aprile (Introduzione, I, p. XI). Mariano D’Alatri offre la spiegazione di ciò all’inizio di ogni tomo; più analiticamente, nella «premessa» alle singole Province cita i dati, evidenziando le discrepanze. Inoltre, in nota ad ogni singola relazione egli riporta il giudizio di accertamento dei revisori – ms. 746, ora S.C. Stat. Regul. Relationes 10, dell’Archivio Segreto Vaticano -: molto utile soprattutto per i ventisette casi in cui il testo delle relazioni è mancante.

Fra gli altri documenti, il V riguarda i criteri generali fissati dai revisori per la valutazione delle relazioni (23 agosto 1650): per i conventi piccoli si prevede un minimo di dodici frati. Altri documenti importanti (VII, VIII, IX) fanno conoscere lo spirito di obbedienza dei Cappuccini verso la volontà pontificia, considerato anche che l’Ordine non aveva proprietà alcuna sui conventi, ma fa anche comprendere la stima di cui essi erano consapevoli di godere presso i «signori» dei vari domini e l’attaccamento del popolo nei confronti dei frati. Un segno della disponibilità cappuccina è l’elenco, del Procuratore Generale, di alcuni conventi individuati come sopprimibili, nel solo caso, però, che la Sede Apostolica volesse proprio farlo. Mariano D’Alatri sottolinea che il Procuratore cappuccino fu l’unico, tra quelli dei vari Ordini, a compiere questo passo conciliante, dissociandosi dai Procuratori e dai Generali degli altri Istituti. Circa il velato o implicito malcontento, che il D’Alatri suppone ragionevolmente sollevatosi per questa «profferta», accusata a quel tempo d’essere stata il presupposto per la chiusura di certi precisi conventi, vorrei notare che la strategia del Procuratore non fu affatto inaccorta. Capirlo è semplice, per cui non occorre spiegarlo.

La coscienza dei Cappuccini d’essere utili alla gente è dimostrata dal fatto che l’Ordine, tramite il Procuratore, si premurò al contempo di notificare che ogni soppressione si sarebbe realizzata solo per l’autorità papale, e non già per decisione propria.

Dell’intera faccenda non tutto è chiaro, tiene a precisare il D’Alatri. Il decreto pontificio Ut in parvis, del 10 febbraio 1650, dichiarava legittima l’esistenza di case con almeno sei membri; tuttavia, nonostante quelle cappuccine rispettassero perfettamente la norma, fu richiesta dalla Commissione pontificia la chiusura di alcune di esse. Da ciò, vertenze, contestazioni e polemiche che richiesero interventi superiori: poiché, in forza dell’Ut in parvis, le case soppresse, nel caso che il numero dei componenti fosse sceso al di sotto di quello decretato, passavano sotto la giurisdizione episcopale.

Il materiale edito da Mariano D’Alatri, dunque, costituisce una base essenziale e includibile per ulteriori indagini storielle, come egli giustamente avverte. Occorrerebbe scandagliare, oltre a quanto già emerso dagli studi svolti, la politica complessiva della Chiesa in quel frangente e le implicazioni di particolari interessi: in qualche caso, sembra che il Pontefice non sapesse nulla di quanto, a suo nome, era ingiunto a questo o a quel convento (cfr. documento X, in I, p. 18).

Più ancora, però, la presente edizione è un’eccezionale «radiografia» storica dell’Ordine nel 1650. È inoltre interessante scoprire la peculiare mentalità delle varie Province e dei vari luoghi: poiché, nonostante !e relazioni fossero compilate su uno schema precisissimo prestabilito, ciascuna riflette una « realtà concreta » diversa (Introduzione, I, p. XVIII).

Qui, solo una curiosità, del tutto superficiale e, se vogliamo, ludica: si va da una prosa scarna, magari con sviste materiali (un convento distante un certo tratto dal convento medesimo, invece che dal «borgo»: cfr. I, p. 163), anche in calcoli numerici semplicissimi, comunque con descrizioni ridotte all’osso, ad una prosa che, pur nell’essenzialità burocratica, acquista vivacità, stile arioso, con quel tanto d’intonazione retorica che basti a sottolineare il prestigio dei santi titolari, la nobiltà dei fondatori, la munificenza dei benefattori o, con intendimento an-cor più persuasivo ai fini sottesi, la dipendenza verso la cittadinanza ospitante (ad es., nel caso di Ascoli Piceno: II, p. 70). Il convento di Camerino, invece, cronologicamente sede principale dell’Ordine, pur potendone vantare, non lascia trapelare alcun segno di distinzione: era del tutto improbabile che fosse soppresso. La relazione delle Carcerelle di Assisi, al contrario, forse in «odore» di soppressione, annota non solo che il luogo è «aperto» – un dato obiettivo, d’altronde ricorrente -, ma anche che è «allegro e di molta devozione», come a difenderlo; e anche la nota dei revisori ha un particolare infrequente, aggiungendo che «bastano» i frati che vi dimorano già (II, p. 136). Mariano D’Alatri ammette invero che i frati umbri «avevano cercato di salvare» l’antico convento delle Carcerelle (Introduzione, I, p. XVII). Poi, fu soppresso.

A parte la chiusura di questo o di quel «conventino» – non molti, quelli cappuccini, poi alla fin fine tutti recuperati «in tempi più o meno lunghi», eccetto quello delle Carcerelle (cfr. Introduzione, I, p. XVII) -; a parte le interferenze e i maneggi poco limpidi, messi in atto da qualche avido cercator di beni facili (cfr. documento XIII, in I, pp. 21-22); a parte gli equivoci nell’applicazione dell’Ut in parvis – che, come ogni atto normativo, non poteva tener conto di tutte le svariate e mobili circostanze fattuali – (cfr. documenti XI e XII, in I, pp. 19-21); a parte, infine e soprattutto, la sorte negativa occorsa a conventi magari più preziosi, storicamente, di altri e, al contempo, a parte la metodica stabilita, fondata sulle condizioni di natura esclusivamente economica e giuridica, sarebbe comunque interessante indagare più a fondo, con uno studio comparato tra le relazioni dei vari Ordini, e tra queste e la situazione storico-ecclesiastica del tempo, sulla prudenza che guidò la Sede Apostolica nel pervenire all’Inter caetera: poiché l’autorità romana non addiviene, senza sapienza e senza avvedutezza, a provvedimenti così gravi. [Francesco di Ciaccia]

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