Jacobelli, M.C, Risus paschalis, 1991

Maria Caterina Jacobelli, Il Risus paschalis e il fondamento teologico del piacere sessuale, Brescia, Queriniana (Nuovi Saggi Queriniana 54), 1991, pagine 158, «L’Italia francescana», 4 (1991) pagine 307-308.

 

Copertina, Jacobelli, Risus paschalis, 1991

In copertina: foto di Luigi Corbò

 

Testo della recensione

Come ha detto il teologo Severino Dianich presentando il libro in un convegno a Milano, al quale ho partecipato personalmente anch’io, le affermazioni della Jacobelli «non sono nuove»: cioè, a suo dire, la dottrina contenuta nel libro era risaputa, e Tommaso d’Aquino – su cui del resto si fonda la riflessione teologica dell’autrice – è lì, pronto, a dimostrarlo. Tuttavia, non si può non riconoscere alla scrittrice, laureata anche in teologia morale e studiosa di francescanesimo, una novità: quella di averne ripreso il discorso oggi, ed ovviamente di averlo fatto portando la teoria oltre il livello astratto della teologia speculativa; in concreto, nel dominio antropologico-culturale – nel quale è pure laureata. A me l’autrice è parsa convincente, perché non soltanto il suo punto di vista è giusto – l’Aquinate fa cenno d’acconsentire! -, ma anche perché le sue argomentazioni e la sua prospettiva, oltre ad essere rigorosa, sono anche, a mio avviso, molto equilibrate. Non è affatto da equivocare che venga messa in ombra la necessità del dolore e venga misconosciuto il valore della mortificazione motivata dalla gioia – ovviamente è solo la gioia, è solo il «gaudio» dello Spirito che può fondare l’autoflagellazione, altrimenti non si darebbe virtù cristiana e dono dell’amore, ma autolesionismo e frustrazione, utili a pochi fini, ma certamente, fra questi eventuali pochi fini, non quello evangelico. Quello che l’autrice vuol promuovere è la «riscoperta» della gioia e dell’amore non già come effervescenza puramente esteriore, fisica, epidermica: ma come forza propulsiva dell’uomo e come valido strumento – anzi, inesorabile – della lode di Dio da parte dell’uomo. Ella vuol sottolineare, senza negare la verginità come scelta d’amore, che l’essere «uomo e donna» non è, per la specie umana e per la «specie» – mi si permetta l’uso – cristiana, una «concessione» accordata da chissà quale «comprensivo» signore, che chiude un po’ l’occhio per non apparire troppo cattivo: è la struttura della psichicità. Esattamente: della psichicità, prima ancora che della fisicità.

Ed è tanto vero che la sessualità non si circoscrive affatto alla sfera materiale, in questa visione – che non è «nuova», ma che va ribadita, dopo sècoli di preoccupazione «fisicistica» dei rapporti umani -, che la relazione tra due persone (uomo e donna) innamorate costituisce l’«imago princeps», tra le realtà terrestri, della intercomunione compenetrativa trinitaria. E consta evidentemente che, a questo livello di impostazione del problema, «amore» tra due persone in tensione sessuale non significa semplicemente «piacersi». né soltanto «sentirsi bene accanto l’una all’altra», e neppure vivere una vita insieme con cristiana rassegnazione.

Tutt’altro che questo, «amore» vuol dire sentirsi – cioè «vivere esistenzialmente» – l’una nell’altra, «riconoscersi» nell’unità del rapporto affettivo: quell’unità affettiva che si fonda sulla compenetrazione («unità») intuitivo-intellettiva e che da essa discende e che in essa si conclude. È vedersi «uno» nell’altro pur in quanto «altro». Ed allora è logico e conseguente che ogni altra fenomenologia di «unione» sta fuori da questa visione: non basta «volere» unirsi, per essere uniti ad «immagine della Trinità».

Come si capisce, le conseguenze di simile impostazione sono importanti, e sono molto gravi. Non intendo segnalarle in una breve nota recensoria. [Francesco di Ciaccia]

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