Martellini, G. – Pichetto, M.T, 1990

Giorgio Martellini – Maria Teresa Pichetto, Massimo D’Azeglio. Vita e avventure di un artista in politica, Milano, Camunia, 1990, pagine 289, «Il Ragguaglio Librario», 7-8 (1991) pagina 239.

 

Copertina, Martellini-Pichetto

In copertina: V. Demarchi, Ritratto di Massimo d’Azeglio, foto di Mauro Raffini, grafica di Arcoquattro

 

Testo della recensione

La biografia delineata da Martellini-Pichetto mette in luce, fra le trame della vita ufficiale e obiettiva, quella quotidianità e soggettività in cui emergono le inflessioni caratteriali del D’Azeglio, la difficoltà di rapporti stabili con il partner, la profonda e leale passione politica e il distacco nei confronti del “potere”. Artista e avventuroso per natura, D’Azeglio visse, da adolescente, proteso soprattutto a liberarsi dai vincoli aristocratici, e vi riuscì quando si trasferì a Roma a ventidue anni. Inopinatamente appassionatosi alla letteratura, solo per euforico amor di gloria scrisse altri romanzi, finché non scoprì, con il fallimento dei moti liberali del 1845, la vocazione di pubblicista. Ma soprattutto nella sfera sentimentale d’Azeglio mostrò il suo atteggiamento avventuroso e insieme realistico: deciso a sposare Giulietta Manzoni, probabilmente per interesse, seppe far presa su Giulia Beccaria, madre autorevole in casa Manzoni; e, mentre Giulietta versava ormai in condizioni di “salute dissestata” – così egli stesso a Cesare Balbo (marzo 1834) -, stringeva una solida amicizia con Luisa Blondel Maumary, che sposò (24 agosto 1835) alcuni mesi dopo la morte di Giulietta. Poi, non sostenendo più la patologica gelosia della consorte, la tenne il più possibile lontano, tanto che, quasi in punto di morte, gli venne da rivolgersi alla moglie, accorsa al suo capezzale, con una delle sue facezie: “Al solito, Luisa, quanto tu arrivi io me ne vado”! Oltre che una potenza di “seduzione” – come di lui disse il Manzoni -, aveva lo humor nel sangue.

E lo dimostrò anche nel difficile mondo politico, “pregando Dio” – così scrisse al figlio Emanuele -, perché coloro i quali gli avevano reso la vita difficile e alla fine lo avevano allontanato dalla Presidenza del Consiglio, “vivessero cent’anni”.

D’altronde, neppure in campo affettivo D’Azeglio si dimostrò ingeneroso, come potrebbe far credere il suo disinvolto realismo: amò profondamente la figlia Bice, nata da Carolina Morici, fu affezionatissimo ad Alessandrina, nata da Giulietta, ed assistette alla morte di Enrichetta Blondel con squisita partecipazione emotiva. Quanto al suo sentimento verso Giulietta, ebbe a confessare al Cantù: “[…] quando sento queste brezze mattinali, mi corre al pensiero e quasi alla bocca: che freddo sentirà la mia Giulia là in piena terra”. A spiegare in parte gli insuccessi matrimoniali di D’Azeglio, mi piace ricordare l’avvertenza di Guido Bezzola (Massimo D’Azeglio e i Manzoni nel primo volume dell’epistolario manzoniano, in «Annali Manzoniani», 1990, p. 62): pur “sotto apparenze apertissime”, egli non aveva un carattere facile. Fondamentalmente uomo “d’arte”, sopportava male le limitazioni dell’affettività.

Se nella vita pubblica dimostrò, con finezza da umorista, il suo distacco dal fascino del potere, si rivelò invece incondizionatamente appassionato degli ideali politici senza cercare il proprio vantaggio economico, fino a rasentare l’idealismo psicologico: rifiutò persino la cospicua pensione propostagli dal re, scusandosi col dire che avrebbe potuto vivere col proprio lavoro. Ma soprattutto nella modalità esistenziale di affrontare le rivalità con i politici il D’Azeglio si distinse per un istintivo senso di generosità, che lo spinse a sostenere il “rivale” Cavour con maggior linearità e senza lasciarsi prendere da comprensibili sentimenti ostili.

Molto scalpore fece all’epoca l’opposizione di D’Azeglio alle imprese garibaldine e alla “presa di Roma”. Non so se anche in questa circostanza possiamo applicare al D’Azeglio il merito, riconosciutogli da Vittorio Emanuele II, di “veder sempre giusto in politica”; ma mi pare indiscutibile il suo senso giuridico a proposito della spedizione dei Mille condivisa “segretamente” dal Governo: “far guerra” a Napoli poteva anche essere ammesso, ma non “mantenervi un rappresentante diplomatico e contemporaneamente mandare fucili ai Siciliani”!

Nelle singole prese di posizione sulle importanti questioni politiche, mi pare che gli autori facciano risaltare molto bene il temperamento da “idealista” romantico del D’Azeglio, sempre più convinto che il “fondamento della vera unità del Paese” fosse la “morale pubblica” da consolidare, più che la “geografia”. In definitiva, dal quadro biografico delineato da Martellini e da Pichetto emerge una figura che dovette far ricorso a tutto il suo oculato realismo e alla sua tendenza a sdrammatizzare, per vincere gli avversi casi della vita; sul piano pubblico, una personalità capace di gesti generosi che ce lo fanno immaginare come l’ultimo dei “romantici” della generazione risorgimentale. [Francesco di Ciaccia]

 

 

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