Assini-Fontana-Panizza-Portone, 2014

Alfonso Assini, Paolo Fontana, Gian Maria Panizza, Paolo Portone, a cura di, La causa delle streghe di Triora. I documenti dei processi, 1587 – 1618, curatore delle riprodizioni fotografiche Gianluca Ivaldi, Triora, Pro Triora Editrice, 2014, pp. 408, in Literary.it, 1 (2016); in «Quotidiano della provincia di Imperia», sanremonews.it/leggi-notizia/argomenti/altre-notizie/articolo/la-causa-delle-streghe-di-triora-i-documenti-dei-processi-1587-1618-recensione-di-francesco-di.html.

la_causa_delle_streghe_di

Testo della recensione

Il volume contiene immagini fotografiche dei documenti relativi ai processi giudiziari contro le streghe, processi che ebbero inizio nel territorio di Triora dipendente in ambito ecclesiastico dalla diocesi di Albenga e in ambito civile dalla Repubblica di Genova, poi subordinati al Sant’Ufficio romano – anticamente, Sant’Uffizio -, da quando il medesimo avocò a sé il giudizio definitivo sulle cause riguardanti la fede, in cui rientrava anche la stregoneria diabolica. Il corpus documentario del volume ne costituisce la parte più corposa (pp. 45-403), sia come riproduzione fotografica dei documenti, sia come loro trascrizione diplomatica, con una appendice iconografica che mostra tra l’altro, immortalata su una parete affrescata della chiesa di San Bernardino di Triora, la connessione tra streghe e catari, cioè tra stregoneria ed eresia (“fatucerie” e “gazari”).

La sezione documentaria – costituita non da verbali giudiziari, andati generalmente perduti, ma da lettere intercorse tra i soggetti istituzionali in causa – riveste un valore di fondamentale importanza storica, ma di notevole interesse sono anche i saggi introduttivi dei curatori che offrono puntuali chiavi di lettura degli avvenimenti in causa.

Paolo Fontana, Tra Repubblica e Inquisizione. Nota per una lettura della documentazione (pp. 7-12), illustra la complessità della burocrazia penale nel ‘500 e avverte che con Pio IV (1559-1565) le competenze giudiziarie furono progressivamente avocate all’Inquisizione papale, per cui i rappresentanti della Repubblica di Genova si ridussero a una funzione di supporto dell’Inquisizione romana – di cui un esempio emblematico è il processo contro il calvinista Bartolomeo Bertoccio, estradato da Genova e bruciato vivo a Roma (25 maggio 1569). L’autore del saggio espone le cause del processo e i suoi sviluppi in una ricostruzione storica e documentaria che immette in piacevoli particolari da suspense: piacevoli, ovviamente, per il lettore, che arriva ad avere l’impressione di leggere un buon romanzo giallo, anzi nero, sia narrativo, sia giuridico-processuale – compreso l’episodio dell’esorcismo per cui il parroco impone la stola ad una incriminata, perché costei si rifiuta di fare il nome del “Diavolo suo Signore”.

Alfonso Assini, Streghe delle montagne e palazzi dei Poteri (pp. 13-18), spiega tra l’altro la pluralità degli aventi diritto al processo contro le streghe in base alle diverse tipologie di reato: reato comune, quale l’infanticidio, di competenza del tribunale laico; reato morale, quale l’unione carnale con i demoni, di competenza del tribunale vescovile; reato di eresia – in cui fu fatta rientrare la consueta orgia col demonio in quanto ritenuta apostasia dalla fede -, di competenza dell’Inquisizione papale gestita dal clero di Ordini religiosi. Le streghe erano sottoposte a tutti questi tribunali, e tutti questi tribunali usavano la tortura: sempre devastante, a volte mortale. Non era un bel vivere. Anzi, non era un bel morire.

Per ovviare alle complicanze procedurali in cui si registravano eccessi giudiziari della Curia vescovile di Albenga e dell’Inquisizione episcopale genovese, fu inviato a Triora un nuovo Commissario di giustizia. In effetti, tra le altre enormità giuridiche rammentiamo che tutte le donne che fossero “nominate” da quelle già inquisite e torturate erano, a loro volta, inquisite e torturate immediatamente, senza che fossero praticati riscontri seri, e ciò accadeva con tale continuità, che praticamente quasi tutte le donne del circondario erano diventate “streghe”, a iniziare dalle plebee per finire con quelle di più alto livello socio-economico. Ma il peggio doveva venire: caso volle che il nuovo Commissario, Giulio Scribani, sul quale si nutriva grande fiducia per competenza e rettitudine, fosse misogino e totalmente imbevuto del “pregiudizio fondante la caccia alle streghe, cioè l’appartenenza delle donne accusate ad una setta che esercitava la stregoneria tramite il patto con il Diavolo”. Il rilievo è di Gian Maria Panizza, Streghe sulla carta. Spunti per la ricerca dai documenti sui processi per stregoneria a Triora, 1587-1618 (pp. 19-30), il quale sviluppa la ricostruzione sulla linea dei più recenti orientamenti della ricerca storiografica secondo cui l’accentramento inquisitoriale a Roma garantì la salvaguardia del diritto e “portò con molta probabilità alla liberazione di diciotto detenuti”, pur non riuscendo “a risparmiare la vita a nove donne, alcune morte sotto tortura e altre di stenti durante la loro reclusione nelle carceri di Triora, di Badalucco e di Genova” (Paolo Portone, p. 36).

Faccio un cenno alla linea giuridicamente ineccepibile dell’Inquisizione centrale romana. Vi erano donne inquisite che accusavano se stesse o donne inquisite che accusavano altre di infanticidi o di procurati aborti dovuti all’azione diabolica compiuta con filtri, o toccamenti, o persino sguardi stregoneschi. Dai tribunali locali, sia laici, sia ecclesiastici, le donne che di ciò si autoaccusavano (o che accusavano altre) erano ipso facto sottoposte a processo. Per fare un esempio, la cancelleria del Sant’Uffizio obiettò ed avvertì che si dovesse rinvenire il corpo del delitto in base alle dichiarazioni rilasciate (“reperiantur corpora delictorum in conformitate confessionum”, 15 marzo 1589, p. 319); in altra circostanza, il prefetto del Sant’Uffizio, Giulio Antonio Sartoro cardinale di Santa Severina, notò che erano stati “ecceduti i debiti termini della giustizia, et si [erano] usate molte immanità et crudeltà ad alcune delle dette pouere donne” (2 dicembre 1588, p. 303) – lettera all’indirizzo della Repubblica di Genova, per l’inoltro d’ufficio ai tribunali periferici.

Su questo percorso storiografico muove il suo saggio Paolo Portone, Il giudice zelante e l’inquisitore tollerante: perché a Triora non si bruciarono più le streghe? (pp. 31-44), cioè che, “dal tardo Cinquecento, la Congregazione del Sant’Uffizio (l’Inquisizione medievale riformata da Paolo III nel 1542) si orientò, nei casi di stregoneria diabolica, a principi di prudenza e moderazione, a partire dal divieto di procedere contro i complici del sabba delle presunte streghe”, per cui, “lungi dall’essere la negazione del diritto, avrebbe prefigurato, con le sue scrupolose procedure, la moderna prassi giudiziaria”, procedure quali la registrazione degli atti processuali a difesa dell’imputato, le rigide norme circa l’uso della tortura che ad esempio non doveva “procurare mutilazioni permanenti, né mettere in pericolo la vita agli accusati” (pp. 31-32), mentre il furore misogino e demonopatico sarebbe stato caratteristico del mondo laico, in particolare del popolo ignorante e superstizioso. Paolo Portone, addentrandosi con serrata lucidità nelle controversie tra personalità ecclesiastiche in tema di lotta alle varie tipologie di devianza – quelle teologico-dottrinali e quelle folklorico-popolari -, conclude che, in Italia, la diminuzione o la cessazione di abbruciamenti di streghe fu a causa non tanto “di un’anacronistica tolleranza del Sant’Uffizio”, ma del “sostanziale mutamento di indirizzo delle strategie di controllo e di repressione dell’eterodossia folklorica all’interno di un quadro religioso ‘tradizionale’: […] ‘paternalisticamente’ dialogante con il sostrato precristiano presente nelle credenze e nelle pratiche superstiziose popolari” (p. 40).

Paolo Portone ribadisce dunque l’idea, già ampiamente esposta nel suo libro del 2008, La strega e il crocifisso, che il cristianesimo ha di fatto recepito le tradizioni della religione antica (la religio antiqua o religio patrum) e poi di quella cosiddetta barbarica e le ha inserite nel tessuto configurativo della nuova religione confezionando un prodotto nuovo con elementi immaginifici anteriori – elementi che sono in realtà antropici, cioè intrinseci nella loro fondamentale valenza all’essere umano.

Uno degli esiti della strategia dialogante dei vertici romani con il “magico” connesso con l’immaginario stregonesco – ché in effetti di immaginario si tratta – è nel fatto che il Sant’Ufficio sottrasse il sortilegio al foro secolare iscrivendolo tassativamente, sotto pena della scominica, tra i reati ereticali, di esclusiva competenza ecclesiastica. “In tal modo la Chiesa riuscì a mantenere il controllo ‘magico’ della società del tempo, conservando intatta l’implacatura demonologica senza tuttavia ricorrere allo sterminio di maliarde e sortiere” (pp. 41-42). La pesante repressione della Chiesa romana si mantenne in vigore nell’ambito della “sincretistica commistione propria della tradizione folklorica tra ‘magico’ cattolico e magico ‘superstizioso’”, come nel caso degli usi blasfemi dei sacramenti e dei sacramentali da parte di fattucchiere e maghi (p. 43).

Paolo Portone ritiene che il motivo di quell’efferata repressione stregonesca, spesso senza fondamenti fattuali, di cui si tratta nel presente volume, affondi le radici nel sec. XV, quando nel chiostro alpino si formò “lo stereotipo della strega diabolica, adepta di una nuova setta ereticale”, legato alla “rielaborazione in chiave diabolizzante di alcune credenze ‘pagane’” e conseguente alla massiccia lotta ecclesiastica, sotto il vessillo antidiabolico di inquisitori e demonologi, intesa a reprimere la dissidenza religiosa, quale la catara, la valdese, la dolciniana (p. 44), ed imporre il pensiero unico a suon di stiramenti di corpi e di abbruciamenti di carni.

Di questa “piccola caccia” alla streghe, come la qualifica Paolo Portone (p. 35), voglio offrire qualche elemento ricavandolo dalla documentazione di cui è costituito il volume in oggetto, perché, secondo me, il problema di fondo non è se siano stati messi a morte esseri umani né quanti ne siano stati messi a morte – poiché, se vigeva la pena di morte e se c’era chi meritasse la pena di morte, era giusto che fosse comminata la pena di morte a chi meritasse la pena di morte. Il problema di fondo, a mio avviso, è il motivo per il quale i soggetti erano ritenuti inquisibili e condannabili: un motivo che si può estendere – ma che è escluso nella presente circostanza di Triora – anche a chi coltivasse idee differenti rispetto al “pensiero unico” dominante, un “pensiero unico” intrascendibile, pena l’incorrere nel giudizio penale.

Il problema di fondo all’origine di tutta la questione relativa al diritto e alla prassi giudiziaria relativa alle streghe è nella concettualizzazione di una fantasia proiettiva, quella che oggettiva in ipostasi individue le pulsioni soggettive rimosse.

Un indizio di ciò, ad esempio del fatto che intrugli di erbe confezionati da contadine per ogni evenienza di disturbi fisici fossero identificati come composti demoniaci grazie ad un patto stipulato dalle donne con i demoni; un indizio di ciò, ad esempio che il semplice sguardo mettesse a morte bimbi e feti (p.149); un indizio di ciò, ad esempio che le streghe volassero in groppa a demoni (p. 56); un indizio di ciò, ad esempio che le streghe avessero il potere “di far tempestare con gragnole, et altre tempeste, dove a queste scellerate par e piace” (p. 56) o determinassero siccità per più anni di seguito (p. 61); un indizio che tutto ciò fosse invenzione è deducibile, nel contesto geografico e storico di cui ci occupiamo, da dichiarazioni di soggetti del medesimo contesto geografico e storico – gli Anziani di Triora all’indirizzo del Doge e dei Governatori della Repubblica di Genova -, quali le seguenti, che riporto osservando la grafia dell’edizione da cui cito: “sommamente si dubita, cioè che le fussero bugie” (p. 71); “si dubita che tutte queste cose non sijno sogni […] et si vede chiaro che qualcaduna di esse [donne] che gia sono tenute per convinte [dai vicari episcopali della diocesi di Albenga], per li tormenti ha confermato cose che si vede chiaro che cossì non esser […]” (p. 62); ovvero che è “stato dato d’intendere” al “populo facile”, al popolo credulone che “molte carestie” per diversi anni sono state volute da “simil streghe” (p. 61).

Indubbiamente, c’era una cultura diffusa a riguardo dell’universo stregonesco e demoniaco, a parte coloro che esercitavano la ragione o godevano di buon senso; poi, una volta che sia stata accolta l’oggettivazione della fantasia in reali entità esterne all’animo – oggi sappiamo che le stesse donne inventavano cose immaginarie in quanto assumevano erbe e funghi allucinogeni -, tutto diventa possibile. Diventa possibile, ad esempio, che se una donna, dopo aver sperimentato le atrocità della tortura, riesce a fuggire dal carcere, la fuga è compiuta “con l’aggiuto del Diauolo” (p. 282); o, se una donna incarcerata e torturata non è riusciuta a suicidarsi, pur avendoci provato con il legaccio delle scarpe a sua disposizione, “pare impossibile che il Diauolo non l’habbi suffocata” (p. 282); e se un’altra, invece, è riuscita a suicidarsi, con il medesimo lacciolo a sua disposizione, ciò è opera del demonio, poiché l’ha strangolata proprio il diavolo, di persona: “dall’istesso Diauolo strangolata” (p. 194).

La conseguenza derivata dal Commissario di giustizia: quanta fatica, “hauere ogn’ora a Combatter con diauoli, et loro astutie” (p. 292).

In effetti, se le cause non sono viste in ciò che la ragione ed il buon senso impongono – la tentata fuga da parte della carcerata, per sfuggire a torture invalidanti, come nel caso (si veda alla p. 62 e alla p. 282); il soffocamento, o il mancato soffocamento, in base alla solidità del lacciolo delle scarpe; la morte degli infanti, per morbi non diagnosticati, e così via, allora non resta che vedersela con il diavolo, cioè affrontare l’impari lotta con oggettivazioni dell’animo, impari perché le oggettivizzazioni sussistono in quanto sussistenti in forza dell’animo stesso – o dell’incoscio.

È comunque vero che la distorsione del diritto è stata immane. Un solo esempio, che traggo da una indicazione, ritenuta esemplare in quel contesto, dell’Uditore della Rota Criminale Pietro Maria Caracciolo scrivendo al Doge ed ai Governatori della Repubblica di Genova: “[…] si usi ogni maniera di esquisiti et inusitati tormenti per trouare una volta la uerità et così mutando di fuoco o di altro si faccia nuove esperienze”, cioè applicando il fuoco o altri tormenti in modalità raffinate, mai usate prima, praticando torture nuove, mai usate per l’addietro, “che cosi facendo ouero si trouerà la uerità” (p. 249).

Poi, se l’inquisita si contorce, sbraita e confessa, è rea confessa, è strega convinta; se si mostra forte e impavida, è da ritenere “che ciò proceda da malie et arte magica” (p. 249), quindi è da condannare in quanto strega, poiché non temere le torture è “chiarissimo inditio” di arte diabolica, “come vogliono tutti i Dottori Theologhi canonisti e legisti” (p. 245).

E qui ci avvicianiamo all’apice della storia e della documentazione: il tutto per la “laude e gloria di Sua Divina Maestà” (p. 181).

Mi sembra infine utile e proficuo riferire quanto si legge in una intervista fatta a Sandro Oddo, dell’Associazione Turistica Pro Triora, sia per un motivo estrinseco, nel senso che il volume è stato pubblicato proprio per i tipi della Pro Triora Editrice, sia per un motivo intrinseco, in quanto Sandro Oddo vanta un’approfondita, e direi anche appassionata, conoscenza della questione. Egli, affermando che la “leggenda” delle streghe di Triora ha un fondamento di realtà, quanto meno quello del processo contro le streghe, procede a partire dalla carestia che sull’onda di dicerie diffuse tra la popolazione era stata attribuita alla malvagità di donne “demoniache”. Ed egli prosegue:

“[…] dato che non si sapeva a chi dar la colpa [della carestia], si pensò di accusare quelle povere donne che vivevano ai margini della società, nei casolari dove praticavano magari qualche aborto, un po’ di medicina popolare, questi riti un po’ strani. E [le autorità trioresi n.d.a.] sono andati in piazza, hanno istigato la popolazione e hanno deciso di stanziare addirittura 300 scudi per questo processo. C’è però da dire una cosa: la causa ufficiale è la carestia, però probabilmente il processo è stato fatto per celare cose molto più serie, come erano magari la falsa monetazione, l’alchimia, il tradimento contro la Repubblica ecc. E loro, per soffocare queste cose, hanno montato ad arte questo processo contro queste povere donne, che non davano fastidio a nessuno, anzi, io penso che facessero anche cose positive, conoscevano questa medicina popolare che è stata tramandata fino a noi. Erano persone senz’altro positive, più che streghe. Magari poi c’erano anche persone che facevano del male, ma queste non erano di certo in quel numero come sono state accusate. Io penso, e ci sono anche delle prove, dei documenti che lo dimostrano, che il processo è stato fatto per celare qualcosa di molto più serio” (Intervista a Sandro Oddo, in esclusiva per thexplan.net, in http://www.thexplan.net/Misteri/tri_intervista.htm).

Il pensiero, qui riferito, di Sandro Oddo getta una chiara luce – chiara e lucida secondo il convincimento che io mi sono formato studiando l’universo mentale del demoniaco negli scritti di Federico Borromeo e di teologi di diverse epoche -, su che cosa si fondi l’ipotesi demoniaca.

Oltre questo orizzonte ermeneutico, trovo che il pensiero di Sandro Oddo – con tutta la storia e la documentazione del processo alle streghe di Triora – sia estremamente valido nel confronto con la storia e la documentazione relative al processo agli untori che Alessandro Manzoni ha ricostruito nella sua Storia della Colonna Infame. Io ne terrò conto, per l’appunto, nel mio prossimo studio sulla peste nell’opera manzoniana. [Francesco di Ciaccia]

Lascia un commento