Pelosio, Valeria, 2021

Valeria L.C. Pelosio, Una foglia sul cuore, Authorpublishing, 2021, pp. 52, in Literary.it 1/2022.

Foglia dipinta a ricamo, India, XX secolo, Collezione privata

Testo della Recensione

Già le dediche del libro da parte dell’Autrice dicono molto sullo spirito che ha animato la poetessa: la riconoscenza.

La riconoscenza non è solo l’ammissione che si è ricevuto qualcosa da parte di qualcuno, né è solo il ringraziamento per il fatto che si è ricevuto e per quello che si è ricevuto. Ė anche, anzi soprattutto, un con-sentire – sentire insieme – qualcosa che accomuna chi ha ricevuto e chi ha donato; anzi, in radice, è proprio il sentire insieme. Nelle dediche, il caso è chiaro: la mamma, il papà, e tutte le mamme del mondo!

Da quest’ultima lassa: “A tutte le mamme, perché i loro cuori siano vicini”, prendo spunto per un pensiero importante: la gratitudine consiste ultimativamente in ciò, nell’essere vicini, nel sentire insieme.

Già la prima lirica rivela, tacitamente, questo concetto. Essa recita:

“guardo la tua fragilità

perché vorrei curare la mia” (Guardo).

Nulla di più felice per rivelare la comunione: come se – anzi, così è – la fragilità, grazie a questo atteggiamento diventa potenzialmente accomunata, perché si proietta sull’altro misteriosamente come in un rimbalzo di cuore.

La pulsione originaria di questa silloge sta appunto in una tensione verso l’unità degli esseri, e non solo umani, come nel caso del mare (Mare),

“che mi è entrato dentro”( fino a respirare) “con lui”;

come nel caso della farfalla, con le sue

“vibrazioni […]

nel mio cuore […

Inevitabili come la vita” (Inevitabili come la vita).

Questa necessità vitale – come appare nell’ideazione dell’Autrice – si fa vissuto palese nel rapporto concreto, ad esempio con il “grazie” (Grazie) per “la tua gioia nell’avermi vicina”, nel “distendersi” dei “tuoi occhi […] quando tu hai visto che c’ero”.

La comunione universale pare che conduca ad una esistenziale – che non è solo immaginativa o immaginifica – sostituzione dei soggetti. Se si ha nel proprio cuore – e vi si custodisce – il creato, ogni cosa può non già sostituire sempre, ma accompagnare a volte un’esperienza interiore, come quella con i due nonni morti: “E li vorresti qui”, ma

“Una farfalla e il vento sono venuti al loro posto

Mentre il loro amore ancora ti riscalda” (Che cosa ha senso).

E ciò avviene quando “accogli con amore” il vento e la farfalla. C’è dunque una specie di “amorosi sensi” (foscolianamente) tra uomini e cose a immagine di quella che si crea tra gli umani.

Un’altra profonda esigenza che traluce in queste poesie è quella della vita intima, la vita “dentro il mio giardino” (), “giardino” che non è solo un tratto di terreno domestico, ma è anche la propria anima, di cui il giardino di casa è metafora.

Non c’è contraddizione tra la comunione con il mondo e la separazione dal mondo (“quel tanto di mondo / che mi basta”, ): la vita interiore è essa a fondare, promuovere e permettere l’intesa profonda con tutto, umani compresi.

L’attitudine dell’Autrice a scendere nella sua anima capace di profonde immersioni mi appare sfolgorare in una breve poesia che mi piace trascrivere (Giustezza):

“ogni cosa fragile

ha una forza nascosta

ogni sogno giusto

voce

profondissima”.

Questa è come una icona, ma la cifra poetica si rivela comunque in quel “dentro te stesso” cui l’Autrice proietta le possibilità esistenziali in Venerdì 14 ottobre 2016,

“nell’eterno spazio tra un

respiro e

il successivo”.

Del resto, questo “scendere nel profondo”, raffigurato nel “mare”, in Mi disse, per “poter vedere il sole”, è quel “ritorno al centro” (Il Tempo) in cui consiste il fondamento della vita sapiente, additata da sempre dai saggi e dai contemplativi di tutte le culture.

là, dove tutto è iniziato

dove la cultura delle fate ha un senso

dove si sanno leggere i messaggi delle rocce

dove la pace è dentro di te,

dove i capelli sono ad incorniciare un bel volto,

proteggendolo quel tanto che basta

là, nel regno della bellezza

sciolgo le cime,

mi allontano dai preziosi mostri

in fondo al mare,

pronta ad incontrarli ancora quando occorre,

da dove sono venuta ritorno

passando dal fiume sotterraneo

dai boschi invisibili ai più

entrando nelle note

ritorno nella mia casa,

davanti alla mia finestra di scrittrice scrivo

e vivo

dentro al mio giardino e vedo quel tanto di mondo

che mi basta.

                           Valeria L.C. Pelosio

Per terminare questo leitmotiv della presente silloge non si può obliterare il ritorno figurativo e semantico tra lo “scendere” ed il “sole”, come in quest’altra apofantica poesia (Conoscere):

“Scesa dentro di me ho trovato amore per me stessa,

e quindi il sole”

– in cui il “sole” assume la metafora di “amore” per se stessi, cioè pacificazione esistenziale.

I testi di questa silloge tuttavia conoscono anche le circostanze più varie e variegate della quotidianità di ogni tempo e di ogni percorso umano della vita, anche della vita nelle turbolenze (“tra le inquietudini degli eventi”, Sprazzi di colore) e nelle acquiescenze dell’animo.

Ė così che l’Autrice si rivolge ora all’uno, ora all’altro soggetto che con lei cammina nella vita, e allora la poesia si fa realistica, quasi narrativa – ad esempio –,

“con i cuori abbracciati

dentro la nostra coperta bianca” (Rimaniamo così).

Un esempio in questo senso, come ri-presentazione di un brano di vita, intensa e viva, è il riferimento, quasi attualizzato, alla “Prof.ssa Gabriella Cattaneo”, come è puntualizzato nel titolo, ricordata in tratti di vividi pastelli tra il realismo pittorico – “seduta al tavolo / a un metro dalla cattedra / le gambe lunghe accavallate”, senza che si muovesse “mai da quello spazio” – e l’impressionismo lirico – “le mani da pianista / bellissime” e gli “occhi grandi / presenti a noi”, con forte e profonda tensione emotiva, come qui si leggerà e come ben si capirà.

Passeggiata liberty (Alla Prof.ssa Gabriella Cattaneo)

Infinite volte ho ascoltato le tue parole

andavano al cuore

narravano d’arte e di bellezza

di liberty

di canto e di poesia

di vita e d’amore d’ogni giorno

stavi lì

con noi

non ti muovevi mai da quello spazio

seduta sul tavolo

a un metro dalla cattedrale

gambe lunghe accavallatele

mani da pianista

bellissime

i tuoi occhi grandi

presenti a noi

erano la tua voce

mai abbiamo potuto sentirci sole.

E sorridevi vedendoci volare

                           Valeria L.C. Pelosio

Il tutto nella convinzione – anzi no, nell’esperienza e percezione – che tutto viene dal di dentro, da un di dentro al di sotto, per così dire, della coscienza. Ė la dichiarazione in Le reti dell’inconscio, su cui mi soffermerò più sotto.

Quell’amore universale, di cui s’è fatto cenno, ha vasti echi, ma ad una prima e immediata lettura – forse obliabile di primo acchito per la sua disarmante e dirompente dura franchezza – colpisce come una freccia avvelenata la lapidaria domanda irrisolta:

“Delfini insanguinati

ti chiedono

il perché” (Senza amore),

vergato tutto in maiuscolo come su una lapide cimiteriale.

Ė da qui che si deve ripartire per comprendere il senso nascosto – solo perché sprofondato nel mare della vita profonda – di questa silloge poetica. Qui infatti si coglie l’attitudine della scrittrice verso il mondo, il suo sguardo sulle cose, sulla realtà in generale.

Ė uno sguardo di comprensione, che è partecipazione agli eventi della terra, alle opzioni degli umani. Non è infatti tanto né soltanto un atteggiamento da «animalista» (per cui si veda inoltre l’“Uccello ferito / sulla spiaggia”, che “chiama” la pietà umana appellandosi alla sua dignità, Ora). Non lo è, perché questo atteggiamento esistenziale non si circoscrive al mondo bio-animale. Certo, a questo livello è facile parlare della dolcezza espansiva della nostra scrittrice – del resto stampata nella miniaturistica foto in quarta di copertina di Una foglia sul cuore, che illumina lo spazio visibile ed anche invisibile.

Ma non è su questo fondamento che si può dire della tenerissima e fortissima dolcezza della scrittrice e poetessa in questione. Essa è in quella “osservazione pura delle cose” (Il Tempo) per la quale tutto, per l’Autrice, parte dal “centro” (Il Tempo) ed al centro ritorna (“Scesa dentro di me […], Conoscere).

Ed è dunque ora di parlare non di ciò che riluce ma di ciò che stride. Non di ciò che conforta, ma di ciò che tradisce. E fa sanguinare.

Perché solo ora?

Perché era necessario definire, sia pure a volo di gabbiano, la discesa esistenziale nell’intimo di sé e la risalita verso la terra, la terra degli umani.

Ma prima di iniziare, viene qui da ripetere con l’Autrice:

“Non spenderò

Con te

Parole più che necessarie […]”.

Nel mezzo della sofferenza. Anzi nel suo centro.

E qui di nuovo va citata una poesia, in un distico vertiginosamente ossimorico nei suoi concetti, che dà brividi:

“chiamo il silenzio

per ascoltare il suono della vita” (Sono a casa).

Che cosa, più del silenzio, può dire parole che non si pronunciano? Che cosa, più del silenzio custodito tra un respiro e l’altro respiro, può disvelare il pensiero, rivelare il sentimento?

Comunque è su queste basi che si erige la pienezza della dolce anima della scrittrice:

“Ho cercato il Tuo abbraccio” (Madre),

“ti ho ritrovato abbracciandoti” (12 agosto 2008).

Ma chi abbraccia, in questa silloge poetica, Valeria?

Il dolore, la pena.

Non è solo il dolore, non è solo il sangue del delfino, né dell’uccello ferito sulla spiaggia:

“hai guardato nella culla […]

era troppo per te

era troppo per me”,

in cui tutto è ricapitolato nella pena:

“[…] della tua esclusione

che ha portato pena a te

che ha portato pena a me” (Madre a te stessa).

Eppure, dice la figlia alla mamma

“Lontana

Irraggiungibile

Persa nelle tue solitudini” (Madre),

dice: ho cercato

“il tuo abbraccio

Madre mia” (Madre),

mentre

“Ti scrutavo”.

Per capire che cosa? Per cercare di carpire qualcosa. Ma:

“ma sei così lontana”,

persino

“non so ancora il colore dei tuoi occhi”,

non comprendo

“il peso

della tue carezze” (12 agosto 2008). Tuttavia…

Però, prima di seguire quello che poi viene, leggiamo ciò:

“ho paura degli estranei

colei che sei

per me

qui, ora” (12 agosto 2008).

Che cosa sia lei, “qui, ora”, non sappiamo. E non vogliamo saperlo. Siamo degli estranei.

Ella è a casa. A casa del Padre. Ella è con sé, e presso il Padre. Tutto il resto è “l’estraneo”. Siamo degli estranei.

Sono a casa

Sono a casa

nella mia casa

profumata di fiducia

Chiamo il buio

perché i nostri sogni si compiano,

chiamo il silenzio

per ascoltare il suono della vita.

                           Valeria L.C. Pelosio

Padre

Sono tornata a casa

sento l’aria di primavera che mi attraversa

Sulla mia strada rumorosa e silenziosa

Lungo la polvere di

infinite scansioni temporali

                           Valeria L.C. Pelosio

Tutti, sono degli estranei.

Ma rispettiamo la sofferenza. Dicendo, ed è appunto quello che vien dopo:

“sono felice, sai,

perché ci sei”.

Nel silenzio.

E il silenzio chiama il silenzio.

Già s’è detto della discesa nell’anima da parte dell’Autrice: la presente silloge poetica si caratterizza per lo scendere, l’andare nel proprio profondo. Qui vogliamo aggiungere: questa raccolta di poesie si qualifica per il vivere nel proprio profondo.

Vivere nell’anima.

Valeria è nella sua anima.

Quando ella parla di “casa”, cioè di quel luogo o condizione in cui ella vive, parla di una dimora – la “mia” – che non è di possesso ma è di esistenza. Ed è, precisamente, l’esistere nel “buio” di tutto ciò che è contingentemente compiuto, che è il mondo dell’esteriore, il mondo in cui si compiono, si realizzano, si afferrano le attese, i bisogni, le speranze nel passare in mezzo alle cose. Ė quel “buio” – la notte di Giovanni della Croce, per un parallelismo di parziale contiguità esistenziale – nel quale, e solo nel quale, “i nostri sogni si compiano”, con un ottativo che è di speranza sicura. Cito sempre da Sono in casa, per pronunciare una sentenza come una falce affilata: è l’unità con la nostra anima profonda a realizzare il compimento dei sogni nostri.

Noi realizziamo i sogni, in quanto li realizza la nostra anima profonda.

Se non sono inscritti e radicati nella nostra anima profonda, i nostri sogni non sono davvero nostri, sono sogni altrui, sogni dell’ambiente che ci condiziona, sogni delle ambizioni indotte e prodotte, sogni vani della inconsistenza, sogni della fatuità, finzioni della illusione.

Sì: della illusione.

Ė allora, e solo allora, che i nostri sogni si realizzano di necessità: cioè senza alcuno sforzo, senza il nostro impegno. Ma per aderenza all’anima nostra.

La poesia Sono in casa chiama il buio; e chiama il silenzio, due termini che indicano la medesima dinamica: nel vuoto dell’esteriore, il silenzio è ascolto della musica della vita, la musicale vita dell’anima.

Proprio questo, tra l’altro, è l’essere della “giustezza”: l’essenza della giustezza è il sogno – ossia il bisogno realizzabile ma già realizzato (in casa del Padre) – che è detto da “voce / profondissima” (Giustezza).

Se abbiamo già citato questi versi per seguire la discesa dell’Autrice e della sua parola nel profondo, qui li abbiamo richiamati per collegare l’“ascoltare il suono della vita” nella “mia casa” con la “voce / profondissima” di “ogni sogno giusto”.

A questo punto, se si vuole dire qualcosa di serio sul significato delle parole di questa silloge, se si vuole interpretarne il senso, a mio avviso – e lo dice già l’Autrice – bisogna abbandonare il ragionamento.

Bisogna non pensare.

Non bisogna pensare, perché tutto il significato delle parole di questo testo non sono nella mente.

Sono nell’anima profonda di Valeria.

Il dato più semplice dell’origine delle parole di questo testo è il livello dell’inconscio.

Le reti dell’inconscio

Le reti dell’inconscio

hanno pescato

queste mie parole,

venute in superficie

da indistinti luoghi

e non importa

stavano nell’ombranellaluceinaltredimensioni

per essere portate

in mezzo al mondo

lontane dagli eventi

vicino alle radici

della terra

e del mare

                           Valeria L.C.Pelosio

Dico il più semplice, perché di per sé la poesia, se è tale e non un manufatto ad arte, viene dalle zone della psiche che noi non conosciamo, che noi non controlliamo. Se ne è accennato già, peraltro con riferimento a una lirica dedicata all’argomento, Le reti dell’inconscio. Ma qui, poiché si sta entrando, anzi si è entrati nel sacrario della vita dell’Autrice, nella sua casa, andiamo a vedere dove

“le reti dell’inconscio

hanno pescato

queste mie parole”.

Ovviamente, “da indistinti luoghi”, da lì sono

“venute in superficie

[…]

e non importa

stavano nell’ombranellaluceinaltredimensioni”,

ed è del tutto conseguente la finalità:

“essere portate

in mezzo al mondo”.

Portate in mezzo al mondo, per il bene del mondo. Traggo l’idea da un altro testo della scrittrice, postato in Instagram (profilo: @valeriapelosio, Occhi invisibili).

Nel “viaggio” che ella fa, “raccoglie frutti” che porterà alle “creature tutte” – dice rivolgendosi direttamente a tutte le creature. Ora, questa effusione universale e diffusione universale di bene – “per riportare a voi / frutta e carezze” – non ha senso, o meglio non ha giustificazione, se non in quanto ciò che ella porta non è un bene che ella stessa porta: è un bene del profondo dell’essere nel quale ella è scesa e scende. E nel quale ella sta di “casa”.

Prima di addentrarci in quel profondo, un cenno è doveroso su ciò che si è appena detto: la ri-discesa sulla terra e la elargizione del bene in terra. Si può intendere questa elargizione – diciamo pur lodevole ma banale – come generosità. Magari lo è, o lo è anche. Ma non lo è tanto, o almeno tanto quanto nel senso più comune, se si tiene conto di una frase dell’Autrice postata in Instagram, con foto (profilo: @valeriapelosio):

“Grazie ai Maestri che ci insegnano a gioire per la gioia degli altri”.

Allora, quella elargizione non è beneficenza. Quella elargizione è una particolare forma, anzi no, è una esperienza di soddisfazione per l’autorealizzazione. Il che sarebbe egoicità, se non fosse che questa autorealizzazione consiste nel gioire per la gioia altrui. Ed è la comunione!

Oh beata, oh dolcissima comunione tra il respiro degli esseri venuti al mondo!

Allora noi, qui, comprendiamo il viso dell’autrice postato in Instagram. La comunione è beatitudine, quando è intima e profonda.

Più esattamente: la comunione è la beatitudine dell’essere, e la sua immagine è il riso beato e beatificante.

Ciò appunto esprime quel volto di Valeria: un beato riso che richiama l’angelo in Filippo Lippi della Madonna col Bambino, o l’angelo del Bernini in Santa Maria della Vittoria a Roma e ancor prima l’angelo che sorride alla Certosa di San Lorenzo a Padula nel Vallo di Diano.

Ho detto beato e beatificante: perché a vederlo ci si sente bene.

La beatitudine è il bene che fa bene a tutti.

Già da qui si comprende che la discesa dell’Autrice nell’anima profonda e la sua dimorazione in essa – per usare un arcaismo, che mi piace – non ha caratteristica egoica: la casa dell’anima è la vita stessa dell’essere, ossia il suo viversi, e il vivere nell’anima è vivere nell’essere che è universale. Allora si comprende – qui procedo con il pensiero logico ma verrà il momento in cui anche noi dovremo abbandonarlo e abbandonarci alla percezione nuda di musica e di immagini – come “queste mie parole”, scrive l’Autrice, sebbene siano “portate / in mezzo al mondo”, lo sono, sì, ma “lontano dagli eventi”.

E fin qui è espressa l’idea che la parola profonda, il messaggio di bene è recepibile fuori dal frastuono delle contingenze.

Ma il trovarsi “vicino alle radici / della terra / e del mare” sta a indicare la dimensione dell’anima il cui profondo sta fuori della dimensione egoica. Né al di là, né al di qua: ma fuori e dentro. Fuori e dentro!

Una poesia postata in Instagram (il 16 agosto 2007, profilo: @valeriapelosio) è significativa, laddove esorta:

“dai un posto

alla tua anima”, magari

“mentre sorseggi il tuo caffè al bar”.

Ciò sta a indicare che non si dà delimitazione di confine esistenziale tra l’anima profonda e il contingente: l’anima è fuori dal contingente perché vive di sé, e sta dentro il contingente perché lo fa suo, illuminandolo.

A questo riguardo non voglio obliare una spiegazione che ha offerto l’Autrice circa il senso di “anima” – senso e significato derivanti dal proprio esperire, come è nella attitudine degli artisti, quindi non sillogistici e teoretici. In un’intervista, concessa a distanza e rilasciata per iscritto all’autore della presente recensione saggistica e in seguito consegnata regolarmente all’Archivio per la catalogazione d’ufficio, l’Autrice ha così spiegato:

«Percepisco [l’anima] come quella parte che ci abita e che ci porta le ‘istruzioni’ per la nostra vita, per la nostra evoluzione. Ci dice chi siamo e di che cosa abbiamo bisogno, per diventare quello che siamo.

“Altrimenti, perché dovremmo darle un posto in ogni momento della nostra vita? Quando prendiamo un caffè al bar e siamo dediti alle attività più semplici, e quando siamo impegnati in quelle più elevate “… sulle nuvole / nel cielo / accanto all’orizzonte…”» (Valeria Pelosio, 16.8.07, profilo: @valeriapelosio).

Quando noi evolviamo, anche la nostra anima evolve. Per cui ella esorta:

“Dai un posto

alla tua anima.

l’unico dovere

che ti compete

sulle nuvole

nel cielo

accanto all’orizzonte

(mentre sorseggi il tuo caffè al bar)

L’immagine che ci si presenta dell’anima dell’Autrice è comunque un fuoco che illumina, purifica e risana, come quando “l’abbraccio di una madre”, portato da “un alito di vento [che] / accarezzi il tuo cuore”, “T’alleggerisca dai putridi pensieri” (Purificazione). Si riscontrano anche altre circostanze di questo genere, e tutte, in sostanza, per il risultato che ci si senta bene. Il fine di Valeria, il bene per Valeria è far sentirsi bene.

Ė gioia.

La gioia che ha, la gioia che si dà.

Questo suo volere e obiettivo interiore, essenza della sua anima, è deducibile da vari versi poetici di questa silloge. Prima però mi riferisco ancora a un post su Instagram (profilo: @valeriapelosio), Dignità, laddove la ricerca, anzi l’esortazione e la speranza di far star bene arriva alla disponibilità della rinuncia di qualcosa di sé,

“ed io cancellerò le mie [parole],

quelle sbagliate”,

proponendo di

“pronunciare le parole

che ti faranno

sentire meglio”.

Il fulcro di tutto ciò si colloca esattamente in questo obiettivo: far sentirsi bene.

In questa tensione non si può non riscontrare, oltre alla disponibilità a lasciarsi morire – nel senso della rinuncia di qualcosa di sé come sopra accennato –, il senso del perdonare.

La equanimità allora sembra fondarsi su una semplice ma tanto raramente reperibile dinamica interiore: la reciproca comprensione e disponibilità nel reciproco perdono: perché anche la sofferenza interiore altrui – “la tua / personalissima rabbia” – si disciolga e la pace sopraggiunga, la dissonanza interiore si dissolva e ci si senta bene! (Equanime).

Per tal motivo, e in questo senso, la scrittrice ha sollecitato, in un post in Instagram sulla “sconvolgente solidarietà” (profilo: @valeriapelosio), di essere disposti, coraggiosamente, anche a “modificare i nostri piani”, se necessario, a “rinunciare ad ospitare dentro di noi quello che non vogliamo vedere fuori”, negli altri, e “volgere lo sguardo verso di noi” appunto per capire dentro di noi il bene per noi, il bene per gli altri. Questo atteggiamento di amorosa e giusta disponibilità verso la verità altrui e la verità di noi stessi è la base per compiere il bene per noi, il bene per gli altri.

Questa tensione si respira anche laddove sembra che non ci sia redenzione dai “pensieri” degradanti, quando sembra che si tratti solo di rimproveri duri e recisi nei confronti di chi non si ravvede dalle scelte sbagliate, ossia, così l’Autrice, “sbavate”. Sbavate, appunto: nonostante l’accusa secca ed implacabile, l’Autrice di La sbavatura dei tuoi pensieri si esprime con un termine che sa di misericordia.

Non è questo, però, il traguardo estremo della pietà dell’Autrice. Esso si trova allora, quando non è il singolo individuo a rovinare, ma lo è una collettività, quando lo sono “facce incattivite” e l’Autrice, dopo averle ascoltate “ad occhi chiusi”, trasforma il penetrante dolore per la rovina altrui

“in pianto

e poi il pianto

in un sorriso aperto

e ad occhi chiusi canto” (Ad occhi chiusi).

Ed anche qui quel riso, ed anche qui è gioia.

Alla fine di tutta la lettura della silloge ci si sente perciò leggeri: alleggeriti del peso delle contraddizioni e lacerazioni. E ci si sente come farfalle.

Farfalla è l’altra immagine che ci si presenta della Autrice, dopo quella del fuoco che illumina e purifica. Ed è conseguenza “inevitabile”. Farfalla leggera e libera, le cui “vibrazioni d’ali” rallegrano e non disturbano, pulsano “nel cuore” senza rumore, vibrano e non svaniscono, come si esprime la lirica Inevitabili come la vita e come esse sembrano posarsi dolcemente in un post in Instagram (profilo: @valeriapelosio) creato dalla scrittrice. Dico: “sembrano”, perché sono farfalle di stoffa, bellissime, posate dalla mano familiare che le ha confezionate.

A questo punto vogliamo accostare i testi dell’Autrice con un approccio che miri alla risonanza interiore dei segni linguistici, più che al loro significato, per una visione, quindi, non contenutistica ma esperienziale.

Esperienziale, però, in che senso?

Le parole, se pur gravide di significati e, oltre ad essi, di risonanze esistenziali, come fin qui si è focalizzato, possono anche sgorgare nell’animo poetante, o anima lirica, come un mistero: parole che, alla prima impressione e alla prima valutazione, appaiono ir-relazionate e ir-relazionabili, perciò in-significanti per un potenziale fruitore.

Sono, queste, le parole che vanno al di là della coscienza razionale e anche del sentimento cosciente, cioè della sfera psicologica. Se vogliamo giungere al livello della mente profonda, dobbiamo accostarci alle parole per seguire il flusso interiore senza tener conto del loro rapporto con il reale – in cui rientrano i sentimenti in quanto transeunti, il vissuto psicologicamente inteso, le idee del transitorio, le concezioni razionali, e tener conto della dimensione extra-mondana, al di fuori del vissuto psicologico e del pensiero logico.

Proviamo a seguire l’Autrice in questo percorso. E ci troviamo, “questa notte” (Sedicesimo Respiro), con un “Guerriero” – cito sempre dal medesimo componimento – che non è quello di una potenza distruttrice, prevaricatrice, soffocante; è la potenza del liberante, della forza potente che difende e protegge, radica e conferma stando “con me” a liberare dal disordine delle confliggenze – un mio termine inusitato – e dalla sporcizia della impermanenza, o contingenza.

Strana cosa può sembrare che questo esito della compagnia (“essere con me”) del Guerriero sia racchiuso, come in uno scrigno, nel “tempio della sacra musica” – ma sottolineo sacra – invece che nel tempio della filosofia greca. Potremmo dire: nello spazio dionisiaco invece che nello spazio apollineo. Questo esito è nella “musica”, perché la musica è la voce che non rompe il silenzio. Ma non rompe il silenzio esattamente quella musica che è, appunto, “sacra”.

Qui non ci riferiamo alle categorie della quotidianità mutevole e modificabile e della classificazione razionale (apollinea), quella per cui sacro e profano sono un binomio di differenze stabilite dalla ragione; qui ci riferiamo a quel sacro per cui è diverso da esso tutto il resto, tutto il mondano, cioè tutto ciò che è racchiuso nello spazio razionale, sia la musica configurata come sacra, sia la musica configurata come profana. Non è dunque questione né di codici contenutistici, né di generi artistici. Ė questione di andamento dell’anima che oggettiva e si oggettiva in un andamento sonoro. Anzi, sonico.

In questo senso è “sacro”, perché al di fuori di ogni forma di musica mondana, nel senso suddetto, appunto: è la musica della vita profonda di sé, cioè della propria identità, ma insieme della vita del tutto, dell’essere universale in cui il e il tutto s’incontrano. Anzi: si coinvolgono. (Deliberatamente non dico: si fondono).

A questo punto si comprende perché non ho più

“voglia di prevaricare

desiderio di mentire

un bisogno impellente di divorziare,

necessità di cambiare sesso.”

Non ne ho bisogno, perché non hanno più senso.

Non ha più senso il mondano.

Non hanno più senso, non per apatia intervenuta poco a poco o d’improvviso; non per atarassia epicureicamente (da “epicureico”, arcaicamente) sublime. Non hanno più senso, perché sono fuori dal sé e dal tutto, quando il sé ed il tutto hanno composto una armonia universale. Allora – continua la lirica Conoscere – “ho trovato amore per me stessa”, una volta “scesa dentro di me”. Quell’amore per se stessi non è quindi egoismo e neppure egoità: è la voce dell’essere, dell’essere che è in se stessi e che è in ogni fibra dell’esistere.

Non è strano che proprio in questa lirica, Conoscere, l’Autrice precipiti in una sfasatura contraddittoria dei tempi verbali: “Quando scenderò dentro di me / non ho trovato / voglia di […]” ecc.

Proprio qui, perché siamo in un flusso d’esperienza in cui si è già fuori della temporalità, dei rapporti transitori in cui si dà un venire prima e un venire dopo, tali per cui il prima non è prima del dopo e il dopo non è dopo del prima: ma tutto è unitario. Tutto presente!

Ci vuole proprio, qui, un punto esclamativo. Ma il punto esclamativo non basta, e non dice tutto, perché si dà un altro motivo per cui il passato (“ho trovato”) viene dopo il futuro (“Quando scenderò”): appunto, perché nell’essere universale – di cui si ha qui ed ora esperienza – ciò che avviene quando si scende nel proprio profondo – senza spazio e senza tempo – già si è saputo, già si è saputo ciò che nel proprio profondo si trova.

Ė qui la potenza, la forza, l’altezza e la profondità della vita spirituale senza confini e senza termine (per non riferirci, addirittura, a chi parlando di sé ha dichiarato: “non so se vivo, non so se morto”! Ciò, vale a dire, quando si sperimenta che non c’è più morte, e non c’è più vita, non più morte nel tempo e nello spazio e non più vita nel tempo e nello spazio, perché l’una e l’altra sono – anzi, è, perché non c’è più distinzione – nell’unità dell’essere, la cui esperienza è quando si è già scesi). E qui basti questo.

E qui vorrei parlarti anch’io (Parlarti):

“[…] poterti

dire grazie”

Ma non si può.

Parlarti

Vorrei poterti

dire grazie

ma le parole così pulite

ancora non ti giungono

sento il tuo cupo oscillare

tra l’amore e il pianto

tra un’idea di bene

perfezione e santo

e la brama della sofferenza

Manca la sincronia

manca la sincronia

in questa notte

di mezzo autunno

di scarse teorie

in mezzo al cinguettare

di notte

inspiegabilmente chiaro

di novembre

all’ora dei delfini

                           Valeria L.C.Pelosio

Non si può, perché il destinatario del “grazie” non è raggiungibile con “parole così pulite”: “dire grazie”!

Parole strane: non recepibili, perché troppo “pulite”. E ciò che è “pulito” non entra in ciò che è sporcato. Ciò che è sporcato è ciò che vive nel “cupo oscillare” della contingenza, fagocitato dalla turbolenza

“tra l’amore e il pianto

tra un’idea di bene

perfezione e santo

e la brama della sofferenza”,

com’è detto sempre in Parlarti.

Non si tratta che di una circostanza in cui è richiamata l’esperienza per la quale, ormai trascesa la contingente temporalità, si entra nella gioia piena dell’unità con sé e con il tutto e il cui contrario è appunto la “brama di sofferenza”, desiderio di ciò che muta e che non sazia.

Il riferimento culturale e filosofico è palese, ma a noi, qui, dicevo, non interessano le concezioni, interessano le pulsioni profondissime, o meglio le non-pulsioni della trascendentalità.

Del cammino verso la trascendentalità colpisce un dato che ci sembra dichiarato: la quasi repentinità della consumazione di questo cammino, appunto: “tutto in una notte” (Tutto in una notte).

Anch’io ho passato – perché l’Autrice fosse compresa ed inseguita – una notte a meditare. Ma non si è “consumato il sonno”.

Ecco dunque che non è vero quello che è dichiarato; anzi no, è vero perché “in una notte” si consuma “il sommo sapere / di antichi sacerdoti / e sagge dame” che è stato seguito, tampinato, respirato e sussurrato per giorni e giorni, minuto per minuto, per lunghi anni, mentre “roteanti pensieri / crudelmente attaccano”, si oppongono o meglio contrastano con il “sonno” del sapere supremo, eterno, immobile; ma non senza, anch’essi, una funzione costruttrice, non senza una benefica consistenza, poiché nulla accade ad uno spirito che viaggia verso la consapevolezza suprema della inconsapevolezza dell’effimero, nulla accade, che non conduca e giovi alla sua salute definitiva ed ulteriore. Allora è vero:

“sorprendono nel sonno

e preparano la via”.

E questo, anch’esso, è per la via della beatificante gioia dell’essere, in se stessi, completi e completati. Questa beatitudine è percepibile – cioè non solo la si comprende, ma la si vive con l’Autrice – in un breve testo postato in Instagram (profilo: @valeriapelosio): “mi sono ritrovata”, piena e “degna”, “di ogni amore e di ogni compimento”.

La discesa “nel profondo dell’essere del mondo” di Occhi invisibili, testo già citato, è appunto per completezza di sé, completezza che porta gioia, anzi che è gioia in se stessa, ma che richiede non qualche mortificazione, qualche rinuncia, qualche mutilazione o inibizione: richiede l’illuminazione della verità. Ella dice:

“Illumino ogni parte di me, anche quelle più nascoste, dimenticate nel tempo” (Non sono ancora libera?, testo in Instagram, profilo: @valeriapelosio).

A che cosa serve questa luce, e che cosa è questa luce? Serve per “compie[re] una profonda operazione di verità”, e questa luce consiste “nell’essere sincera con me stessa” (Non sono ancora libera?). La verità profonda di sé richiede la sincerità con se stessi, poiché la verità profonda di sé coincide con ciò che si è veramente, con la natura primigenia di sé, con l’io profondo, e tutto ciò – verità e sincerità – si consegue soltanto e semplicemente con la totale adesione a se stessi.

In cui consiste appunto sincerità e verità.

Verità e sincerità sussistono e consistono, dunque, in parallelo. Anzi, intrecciate.

Che cos’è la verità di se stessi, se non la comprensione di quello che magari non sappiamo, che magari non vogliamo, che magari neppure vorremmo, ma che è in noi, che è in noi ma che non sappiamo per il fatto di aver seguito le coordinate raziocinanti, la bussola dei transitori impulsi, le risonanze in noi di sirene passeggere? Ciò che è in noi sono le modalità d’essere in vista delle quali esistiamo, aderendo alle quali conseguiamo il compimento di noi stessi bevendo la gioia con la gola illuminata dai raggi del sole. Ripetiamo, però:

“comincio dall’essere sincera con me stessa, e illumino ogni parte di me, anche quelle più nascoste, dimenticate nel tempo”.

Ripetere, perché? Perché non si può cominciare adesso, e finire domani. Bisogna incominciare adesso e domani, e poi ogni giorno adesso e domani. E non si può incominciare e finire in tre quarti d’ora: s’incomincia per tre quarti d’ora dopo tre quarti d’ora e poi tre quarti d’ora.

Sana il tempo passato

Ricomponi le tue ossa prima

cammina verso il cielo

poi

                       Valeria L.C. Pelosio

Ed è sempre all’inizio.

Essere sinceri con se stessi è un cammino che si percorre fino alla morte.

E oltre la morte.

Non sfugge poi, avendo sotto gli occhi le poesie e i testi di Valeria Pelosio, che il cammino della sincerità ci porta non solo dentro di noi. Ci mette davanti agli occhi anche ciò che è fuori di noi, davanti a noi, di fianco a noi, o contro di noi. Vero è che la “sincerità”, di cui qui trattasi, è quella con noi stessi; ma è anche quella con la quale noi stessi ci confrontiamo – o ne siamo sollecitati – con le cose e con gli altri. Qui allora si snoda la fenomenologia delle situazioni della vita. Qui si fa la storia del cammino di sincerità di ciascuno.

Il cammino interiore si accompagna al cammino della vita esteriore. Allora non è più insignificante ciò che accade fuori di noi, accanto a noi. Essere sinceri non è solo, e non tanto, non dire agli altri “bugie”; è questione di non mentire a se stessi, di non compiere una cortesia facendo credere che compiamo una cortesia mentre facciamo un nostro interesse – magari senza volerlo. Ecco dunque perché il rigore della investigatrice: “ogni parte”, le nascoste, le obliate (per dir con il poeta)! Ecco perché: perché non ci si può fermare alle risultanze della coscienza, che è coscienza modellata, già e ormai, sugli stampi delle progettazioni mondane, sui binari del riconoscimento, del successo, ma anche degli stili di vita accreditati e osannati, delle scelte di vita fissate sulla base di regolamenti e regole sociali.

Per raggiungere la verità nella sincerità di noi stessi occorre andare oltre, anzi fuori la coscienza. S’è già detto. Ed ora si stava dicendo che questo cammino s’intreccia per necessità con la vita che si sviluppa nel mondo, con le cose, con le persone. “Conto le tue bugie”, e vedo le mie (Guardo)!

Quali bugie? I “tradimenti che ho fatto a me stessa” (Guardo). Ecco! La sincerità della vita profonda è seguire la propria natura primigenia, e non cercare strade bugiarde che pronosticano miraggi, piaceri potere interessi che mortificano le doti più radicali di cui siano stati dotati. Sono questi i tradimenti che poi costano, “non trovano pace” (Guardo), perché sono le perle date ai porci, i talenti gettati nel vuoto, i doni nascosti sotto il moggio.

La vita andata a male e marcita come un frutto senza frutto.

Ma attenzione: il rapporto relazionale con l’altro non è di antagonismo. L’altro, il vicino, non è segnalato perché sia giudicato, condannato. L’altro, cioè le “bugie” altrui, che magari hanno pure ferito e angustiato, che hanno fatto soffrire, sono guardate (“guardo”, di Guardo) perché siano l’occasione – quindi perché sono grazia – per cui io migliori me stessa, cioè io guardi me – così l’Autrice di Guardo – per giudicare me, per conoscermi meglio e vedere come sanarmi.

Che cosa c’entra tutto questo discorso con quello della sincerità, con quello della libertà, ossia con quello della sincerità che rende liberi? Per vedere che cosa c’entri, dobbiamo spingerci dove non vorremmo.

Dobbiamo spingerci dentro la morte.

Non lo vorremmo. Ma non c’è vita che non nasca dalla morte e con la morte.

Arriviamoci però con rispetto. Camminiamo con delicatezza. Anzi dolcezza. Camminiamo infatti sopra un cuore.

Il cuore di lei.

“La tua bellezza

La buona fede dell’inizio

I tuoi passi che si allontanano” (La buona fede dell’inizio).

Qui siamo solo all’inizio.

Forse è da questo allontanamento – vedete: siamo proprio nel mondo, siamo nel greve fenomenico, nella realità terrestre, quale è quella della realità umana – l’origine per cui

“ritorno nella mia casa,

davanti alla mia finestra di scrittrice scrivo e vivo

dentro al mio giardino”

accostandomi al resto del mondo quanto è necessario?

Non sappiamo se sia questo il processo. Però una cosa è certa e da ricordarci: si è detto di viaggio nel profondo, si è detto di visioni trascendentali, di profondità d’anima – che è la sottile consistenza dello spirito –, ma s’è detto poc’anzi anche del confronto di sé con le cose e le persone, della commistura di anima e di corpo. Soprattutto di come lo spirito non abolisca la carne, ma come lo spirito risolva i colpi sordi della carne: come risolva la morte.

Ma intanto continuiamo il cammino con lei. E

“Rimaniamo così, ancora per un po’, solo noi due,

coi i cuori abbracciati,

dentro la nostra coperta bianca” (Rimaniamo così).

Ricordo, qui, di nuovo, che in quest’ultimo brandello della mia visitazione della presente silloge non andiamo a considerare le parole nel loro contenuto, nel loro valore semantico, ma con esse proviamo a seguire l’erlebnis profondo dell’Autrice, i flussi interiori, e allora più non ci riguarda se “dentro la nostra coperta bianca” ci sia qualcuno, oppure non ci sia qualcuno. Qualcuno c’è: ed è il suo amore, Personificato. Dentro la coperta – bianca, cioè nell’armonia interiore, come il fiore bianco postato dall’Autrice e nostra scrittrice in Instagram (profilo: @valeriapelosio) – sussistono insieme due pulsioni che si espandono all’unisono.

Ancora per un po’: siamo nel pieno della terrestrità transitoria, ma importante è proprio anch’essa, importante perché senza di essa non potrebbe venire la morte e dalla morte la vita trascesa.

La vita trascesa!

Ma prima di trascenderla, seguiamo ancora lei

“Lungo la polvere di

infinite scansioni temporali” (Padre).

Di nuovo il ritorno a casa. Abbiamo considerato, all’inizio di questa visitazione, la casa come simbolo dell’anima profonda; e qui lo è anche, ma qui ci interessa cogliere la risonanza esistenziale della casa nella sua dimensione di rinascenza – “primavera” – dalle cadenze della temporalità.

Le cadenze temporali, gli episodi della vita, dunque, non sono affatto vani e inutili. L’anima profonda scandisce le sue aspirazioni – i suoi respiri! – in contiguità con le circostanze. Con gli eventi. Anzi, con gli attimi.

Non c’è episodio della terra che non accompagni il silenzio dell’anima, malgrado – ed è questa la dimensione fuori dal raziocinio – l’anima profonda viva nel silenzio assoluto del mondo e della terrestrità, poiché è fuori.

Fuori da ogni cosa, perché in ogni cosa.

Spiritualmente.

Anzi sono gli eventi che

“Passando

Puliscano il mio cuore

Ed io faccia

ritorno al centro” (Il Tempo).

Il flusso interiore quindi, quello del “centro”, corre parallelo con il flusso delle contingenze.

Ciò non si comprende come possa essere e soprattutto su quale fondamento questo parallelismo poggi, se non andando ad un principio – che in realtà è un vissuto della profonda interiorità – che vede tutto unificato.

Allora si comprende perché l’Autrice non chiede agli eventi, ma dagli eventi si fa richiedere: già chiedere agli eventi è forzare gli eventi, è farli essere come li si vuole, modellarli a proprio piacimento, mentre scivolare con gli eventi è come obbedire ad essi.

Debolezza, fatalismo, destituzione di sé, atarassia esistenziale. Certamente, ma non in questo contesto, in questo contesto che è quello per cui l’anima non gioca con il mondo, quello in cui l’anima è nel mondo, ed è nel mondo come già fuori dal mondo in quanto vede tutto già compiuto!

L’anima profonda sa già che tutto è compiuto.

E sa che è già tutto compiuto.

Per approfondire il concetto in una dimensione esperienziale più vasta che abbraccia un livello di interiorità totale che perviene proprio al suo centro – un termine che tornerà –, andiamo ad un testo dell’Autrice-scrittrice postato in Instagram (25 aprile 2021, profilo: @valeriapelosio), che è poesia e prosa in una unificazione di genere letterario che supera i confini tradizionali come supera i concetti consueti l’esperienza che vi è esposta: Iniziazione.

“Un amore portato a lungo nel mio cuore

ed anche non lo sapevo,

onorato se non nel sonno;

e poi,

vestita d’arancio come di tramonto,

immersa nell’acqua fredda del mare d’inverno,

le onde hanno ripulito con forza il mio

cuore dai falsi draghi dell’ego

e il mio viso dalle maschere.

Sinuosamente degna, mi sono ritrovata,

di ogni amore e di ogni compimento.

Credendo fossi il tuo tesoro,

nei tuoi occhi belli mi sono specchiata.

Ritrovando, allora, i tesori

nelle mie viscere e nella mia anima celati.

Parole sincere e semplici hanno

disegnato se stesse e senza chiedermi il

permesso hanno parlato a te, che non mi

hai mai amato, liberando me, oltre la

porta azzurra.

Per sempre e sempre e ancora sempre”

La scrittrice ne ha rilasciato la spiegazione per iscritto in un’intervista a distanza, poi regolarmente consegnata all’Archivio per la catalogazione d’ufficio, all’indirizzo dell’autore della presente recensione saggistica.

Prima tuttavia di riportare il suo testo, mi soffermo su un movimento interiore di questo meraviglioso transito al rinnovamento di sé, alla propria rinascita, un movimento interiore che è la morte.

Questo accadimento interiore è desumibile o appena accennato dalla scrittrice, ma è molto importante. Appena accennato, perché il nucleo di Iniziazione, anzi la sua essenzialità e il suo senso consistono esattamente nella esperienza che viene dopo la morte, l’esperienza che presuppone la morte ma oramai la trascende, la oltrepassa, proprio passa oltre per dimorare in altro. Sì: dimorare nella gioia, anzi direi nella piena gioia del possesso di sé, nella rinascita del proprio io pulito e fortificato, la rinascenza di sé confermata!

Così è, e così sempre sarà.

Vediamolo.

La morte di cui qui trattasi è la morte non di qualcosa; non già di un pezzo di sé, non di una sporadica erba nociva, di una male intesa, ad esempio, autoaffermazione, di una qualche maschera che ci si è cucita addosso, in una parola di un’attitudine dissonante con la nostra personalità reale, ma è la morte delle ambizioni o frustrazioni cui altri ci hanno fatto aderire – che ci hanno appiccicate addosso.

Si tratta in una parola della morte di sé come io vecchio, un io concretato per anni con una determinata pasta – con conseguenti e connesse abitudini, aspirazioni pulsioni costrizioni ambizioni determinazioni sogni ed attese – e la nascita dell’io nuovo, nato da quella morte.

La perdita della propria vita – nel senso della fulminea e trafiggente coscienza che tutto era fasullo, inautentico, estraneo e contrario alla propria natura reale – è terribile, ma, ripeto, appena partorito l’io nuovo – anche se solo nella visione specchiata della propria realtà – è come quando il bimbo è appena nato, nato appena, ma nato.

Ed è gaudio.

Gaudio immenso.

Ed è l’ora già della festa.

La pace e la gioia hanno inondato, si sono riversate nell’anima come un turbine dolce e sereno, un’ondata di tranquillità, flusso d’aria pulita, ossigenata, vitale, vivente, la morte si sente oramai – cronologicamente è passato un decimo di minuto secondo – come il maroso che è alle spalle e che ha portato da un mare di lacrime di ambascia mortale – perché è viva e vera, questa morte, reale, soffocante fino al rantolio, non stiamo mica poetando per aria! – ad un mare di lacrime di gioia, stille di pace che scendono accarezzando sfiorando rinfrescando le gote.

Non è tutto. Il processo investe anche lo specchiante. Chi fa da specchio, è qualcuno o qualcosa che è definibile – attenzione: non si scherza – come ciò di cui io sarei il suo “tesoro”: nei cui “tuoi occhi belli” ci si è rispecchiati.

Nulla di più prezioso del mio tesoro, nulla di più bello degli occhi belli!

Nulla!

Ho detto che non stiamo scherzando: quel tesoro e quegli occhi sono a morire anche loro, anche essi, ed io – l’io vecchio – muoio con essi ed essi con me.

Ma adesso è il momento che lasciamo, anche noi, il sudore che ci si appicca addosso – poiché questa è morte viva e vera, ho già detto, è morte con sudore di sangue raggrumato – per farci portare, cullati, dalle parole della scrittrice che commenta il suo stesso brano di prosa poetica o di poesia in prosa.

Leggiamo.

«In certe circostanze di quiete e di centratura scaturiscono da noi stessi parole vere. Parole di verità, e quindi semplici, perfette, come il respiro: tanta aria entra, tanta aria esce e così via. Sono parole al servizio della nostra essenza, sgorgano senza chiedere l’autorizzazione alla nostra parte razionale, alla personalità.

«Questo è ciò che è accaduto e che racconto nella poesia Iniziazione.

«“hanno disegnato se stesse”: è l’immagine che ho “visto”. Le parole si sono collocate nell’aria, creando un disegno. Mi sono accorta di loro quando le ho viste, ma già manifestate attraverso la voce. Dopo che hanno occupato il loro posto nello spazio, e acquisito un certo significato, si sono rivolte all’interlocutore, parlandogli. La mia presenza di Valeria come personalità era quasi superflua. Il suono delle parole è stato più veloce delle immagini e della comprensione razionale da parte mia.

«Qui, è la parte nostra autentica che comunica in modo spontaneo e si rivolge direttamente all’altro, senza filtri e senza filtri dell’ego.

«Tali parole escono dopo che è stato compiuto il processo di iniziazione: di pulizia dai “falsi draghi dell’ego”, che dimorano nel cuore, e di liberazione dalle maschere che nascondono/modificano il viso.

«L’inizio della poesia parla di una sorta di “germe” di risveglio. Dal nulla arriva un barlume di consapevolezza:

«“Un amore a lungo portato nel mio cuore

«“ed anche non lo sapevo…”.

«Giunge un barlume di consapevolezza circa un amore a lungo portato nel mio cuore (potrebbe trattarsi anche di una passione per un’arte o qualsiasi altra cosa). E proprio appena questa consapevolezza affiora, emerge la necessità di un salto, di un incremento evolutivo. “ed anche…”. Pronunciando la “d” si sale con la voce, e poi, pronunciata la dentale si cade, quando si cade sulla “a” di anche. Tutto questo per dire che si intuisce la necessità di un cambiamento di “lunghezza d’onda”, di un salto dentro di sé. Ci vuole un cambio di scena.

«Il cambio di scena è quindi introdotto da: “e poi”.

«Perché quando arriva questo “e poi”, tutto cambia. Per accedere alla totalità della consapevolezza di un amore custodito nel proprio cuore, si scende dentro di sé, attraverso un rito esteriore, che è anche sacrificio (l’acqua gelida del mare d’inverno).

«Il colore dell’indumento con il quale ci si immerge è evocativo del sole al tramonto, che muore. Nel processo di iniziazione qualcosa di noi muore: in questo caso potrebbe trattarsi del nostro essere vanagloriosi e non autentici e delle maschere che indossiamo.

«Tolto l’inutile e il falso, rimane l’autentico, ed emerge la dignità.

«“Sinuosamente degna mi sono ritrovata,

«“di ogni amore e di ogni compimento…”: “sinuosamente” evoca la morbidezza femminile, che ritrova se stessa, dopo questa purificazione necessaria, e si ritrova degna di ogni amore dato e ricevuto – anche a e da noi stessi. Si parla di compimento, che è più legato ad andare verso le cose, quindi, alla parte maschile presente in ognuno di noi. Tolti i “falsi draghi dell’ego” che ostacolano un percorso di ricerca e realizzazione di obiettivi, il soggetto entra nella dimensione del compiere.

«A questo punto giunge anche la comprensione sui propri “tesori”, forse i talenti o le nostre qualità.

«“Credendo fossi il tuo tesoro,

«nei tuoi occhi belli mi sono specchiata.

«Ritrovando, allora, i tesori

«nelle mie viscere e nella mia anima celati…”.

«Credendo di essere amata da te e, quindi, il tuo tesoro, ti ho guardato negli occhi. E mi hai fatto da specchio. Rileggendo queste parole, anche se non è esplicitato, percepisco un senso di fiducia in questo specchiarsi, probabilmente perché è del tutto indifferente amare o essere amati. E grazie a questo specchiarsi nell’altro è possibile ritrovare i propri tesori, ben nascosti dentro.

«Ed ecco che torniamo alle parole che hanno disegnato se stesse. Dicevo sopra che sono perfette, e lo sono perché dialogano con l’interlocutore in modo autonomo ed equilibrato tra qualità del femminile e della parte maschile. Perfette, forse, perché amorevoli con chi, pur non amandoci, ci ha consentito di andare oltre i nostri limiti, fiere come un cavaliere che non teme di parlare di un amore a lungo custodito nel proprio cuore. Queste parole, avendo noi compiuto il viaggio “iniziatico”, ci liberano. Ed è liberazione duratura. Dalla consapevolezza della nostra capacità di amare, alla libertà che questa capacità di amare ci dona.».

L’esperienza del già compiuto, del tutto compiuto non è disgiungibile dall’esperienza della propria anima profonda nello spirito.

In una condizione nella quale l’anima arriva al proprio centro in cui nessuno può entrare perché esso è in tutto e in tutti e tutto e tutti sono in esso, lo spirito non ha che il proprio specchio, tutto risolto in unità, al punto che, per davvero, non sussiste più alcuno che “ti ami” e alcuno che “non ti ami”: non sussiste che lo specchio di te.

L’essere specchio di te stesso fa sì che chi fa da specchio riflette te a te stesso, per cui attraverso lo specchio tu ami te stesso: l’amore di sé, a questo livello e a questa condizione dinamica extra-introiettiva, ti rende gratificato pienamente.

Sei arrivato a possederti.

Ma non possiedi te come te, singolarità parcellizzata, come un separatum: sei invece nella pienezza. Pienezza di che?

Prima di vedere di che sei pienezza, una avvertenza essenziale, discriminante: la gratificazione totale, l’amore di sé totalizzante, ossia ciò che è attuato a questo livello di esperienza interiore, è davvero l’opposto della condizione narcisistica, perché l’atteggiamento sopra indicato è quello in cui il soggetto non è più una solitudine, individualità divisa a quolibet alia, non è una personalità singola, ma è la persona spirituale, congiunta nel tutto e quindi con tutti.

L’anima che si è congiunta con il proprio profondo, nello Spirito, vive in tutti e tutti in essa, perché è unita per davvero nel Padre.

Ed ora rispondiamo a: “Pienezza di che?”.

Pienezza di essere.

E persino respiri con pienezza!

Nella pienezza d’essere non c’è, appunto, singolarità: c’è totalità.

E nella totalità tutto è e tutto è già.

Questa pienezza non è, non dico parola; non dico pensiero; né dico concetto. È esperienza interiore in cui tu ti senti completo, ti senti pieno, ti senti così riempito che sei beato, così riempito che anche il torace si espande perché i polmoni aspirano tutta l’aria di cui sono capaci, senti la beatitudine da cui sei avvolto e in cui tu risiedi, in quell’attimo fuori dal tempo, sì, attimo fuori dal tempo, e in quell’istante e in tutti gli istanti successivi senti che sei nella realizzazione compiuta, non hai bisogno più che di restare in quella plenitudine che ti riempie il corpo come l’anima, né hai più neppure la vista delle manchevolezze, delle storture tue e quelle altrui, procedendo con sicurezza di te e con fiducia, perdendo le tue paure, le insicurezze, le tue incertezze, i tuoi autoinganni in quella pienezza di beatitudine.

Ecco perché vai a perdere le maschere. Vai a perderle, in questa modalità chiara e precisa, come puntualizzato dall’Autrice nella medesima intervista, di cui sopra. Ella ha scritto:

“Le maschere sono cadute come naturale conseguenza, non previsto, del nostro impegno, come una sorta di dono non immaginato e non voluto; dono sopraggiunto perché si è entrati in uno stato di grazia”.

In effetti non hai più bisogno di nasconderti perché non hai più paura di quello che sei, delle miserie tue, delle miserie altrui, neppure le miserie altrui più ti spaventano, perché non ti sporcano, né le miserie tue, perché hai il coraggio della verità e allora non ti nascondi ma addirittura ti offri, offri tutto te stesso, ti metti davanti a tutti e a tutti dai amore, a tutti quella pace che porti dentro e che ti esplode, e poiché hai la pace non piangi se non di tenerezza, e non ti affligge neppure più il male che hai fatto, il male che hai patito, la disastrosa tua vita, ormai ami e nulla più altro t’interessa ormai.

Questo è l’apice dell’altruismo: il dono di sé a sé e agli altri, perché si è ricevuto il dono di sé per sé e per gli altri!

Questo avviene, anzi già è avvenuto, quando ami te stesso dopo che hai raggiunto quel vertice contemplativo, l’apice spirituale, l’unità con il Tutto nel Padre, dopo che sei “sprofondato nel punto centrale dell’anima”, come si esprimeva Meister Eckhart.

Sono cadute le maschere.

E spazzi via gli autoinganni.

A che servono gli autoinganni?

Servono molto, anzi tantissimo, sono essenziali. Servono a mentire a noi stessi. Gli inganni tentano di disequilibrare gli altri, metterli in difficoltà o in scacco strategico; gli autoinganni servono a mentire a se stessi, perché abbiamo bisogno – lo crediamo e lo attuiamo – di pervenire ad un fine che tuttavia non è per noi, non è quello che si addice alla nostra natura profonda, alla vera realtà di noi stessi, di ciascuno di noi, intendo dire, ma noi vogliamo a noi stessi far credere che ci riguardi e sia proprio per noi.

Per tal motivo e in tal senso la scrittrice ha sollecitato, postando in Instagram tre pensieri sulla “sconvolgente solidarietà” (profilo: @valeriapelosio), la solidarietà “verso noi stessi, i nostri bisogni autentici”, ad un fine semplicissimo e fondamentale, ineludibile e necessario, validante ed assoluto – che spesso è obliterato e persino ignorato –:

“diventare umani”.

L’autoinganno serve a convincerci che ciò che è un falso per la nostra persona, sia verità; ciò che per noi, intendo dire, è un miraggio insolvente, sia la soluzione di autenticità, cioè corrispondente alla nostra realtà.

L’autoinganno nasconde la dicotomia rispetto alla conoscenza di sé e comporta l’amore falsato di sé.

Giunti al pieno e vero amore di sé, più bisogno non c’è di autoinganno e non c’è più bisogno neppure di spingerci verso un fine che stabiliamo. Non c’è più bisogno, non già per apatia, non per disinteresse, non per viltà, non già per debolezza; bisogno non c’è più perché ci spinge ormai quell’amore che ci riempie, ci stimola e conduce – come per mano, anzi proprio per mano, mano nella mano! –, l’amore che ci sorpassa, la pienezza che tende al compimento continuo, la forza dello spirito che è gioia e gaudio che ostacoli non conosce perché gli ostacoli sono per il cammino in un sentiero non suo; non c’è più bisogno di inganni e di autoinganno, perché l’amore che abbiamo e che abbiamo per tutti a tutti offre ciò di cui si ha bisogno e di cui ha bisogno ciascuno.

Perché l’amore limiti non ha.

Questa esperienza interiore invece che individualistica è dunque universalistica, immette lo spirito di un essere umano, e con esso la vita di un essere umano, la sua vita concreta, circoscritta, limitata, nella totalità della vita nel Padre. Così che all’umano non conta se non essere tradotti dal Padre verso il termine che nel Padre già è.

Quindi dimoriamo nella pace. Sempre. Per sempre. E ancora sempre. [Francesco Di Ciaccia]