Pisapia, Gianvittorio, 2016
Gianvittorio Pisapia, Il silenzio delle mani, Aracne, 2016, pagine 66
Copertina: Elaborazione fotografica di Kyhnoord, A hand in the sand
Testo della recensione
Occupandosi della problematica delle mani, delle sue implicazioni a livello sia teorico, sia operativo, Gianvittorio Pisapia è consapevole di compiere un «inizio», l’inizio di un nuovo percorso di indagini e di studio che lo riconduce alle sue basi culturali primigenie. Tuttavia egli, docente universitario in ambito criminologico, trapassa nella nuova sfera di interessi attraverso una riflessione legata all’attività ormai consolidata. L’occasione che gli ha suggerito di riflettere sul significato delle mani discende da un caso di reiterati furti attuati da una donna carcerata ma già collocata in una Comunità che accoglie madri detenute con figli minori. L’ipotesi avanzata dal criminologo è che un soggetto, «riflettendo sulla propria storia attraverso le mani» (le mani che sono lo strumento della maggior parte delle azioni delittuose), possa «pervenire almeno a immaginare un futuro alternativo» alla vita trascorsa nel crimine.
L’autore si pone l’interrogativo del perché la specie umana usufruisca dello strumento naturale, che sembra quasi un privilegio, costituito dalle mani e a che cosa esse servano. Le mani sono strettamente collegate all’intelligenza, così che si può asserire che le mani, «espressione di intelligenza e creatività», hanno «guidato» la specie umana alla scoperta del mondo e costituiscono mediante l’esperienza tattile un fondamentale fattore di crescita del bambino.
L’esplorazione nel più vasto e profondo dominio filosofico è stimolata proprio dal concetto che entra nel titolo del libro: il «silenzio». Ho definito vasto e profondo questo tassello dell’indagine filosofica, perché il concetto di silenzio è già di per sé polivalente – se il silenzio fosse «inafferrabile» come il non-essere, come «sarebbe possibile parlare o scrivere del silenzio interiore che esploriamo quando ci immergiamo nella parte più profonda di noi stessi»? -, ma per quanto riguarda le mani il concetto di “silenzio” è accostabile a un oxỳmoron, cioè contiene i due opposti, perché «le mani sono il loro silenzio» e il silenzio delle mani è esso stesso “parola”, comunicazione. Le mani sono significanti anche nel loro silenzio. Ed è qui che va operata una distinzione tra la parola del linguaggio verbale e la “parola” o comunicazione delle mani: le mani «non rivelano «grandi verità», ma danno vita a verità narrative.
La valenza narrativa delle mani, le quali parlano senza pronunciar parole, sollecita la riflessione sulla problematica tra parola e silenzio, o più limitatamente tra narratore-narrazione (cioè soggetto narrante e contenuto narrato) e ascoltatore-interpretazione (cioè soggetto che ascolta e contenuto recepito). L’autore ne tratta con scorci sintetici ma intensi e interdisciplinari, facendo riferimento non solo a studi sul “silenzio” e i suoi significati e sulla connessione che intercorre tra il pensare e il parlare, ma anche a icastiche espressioni tratte dalla poesia contemporanea, tra le quali mi piace riferire i versi di Jaime Sabines attinenti all’interrelazione tra colui che narra attraverso le mani (le “mani narranti”) e colui che recepisce la narrazione, interrelazione nella quale chi ascolta può arrivare a svelare al narratore qualche piega dell’animo che a costui fino allora sfuggiva o a cui egli voleva sfuggire: «Mi tieni nelle tue mani / e mi leggi allo stesso modo di un libro. / Sai ciò che io ignoro / e mi dici le cose che non mi dico. / Mi conosco in te più che in me stesso».
Le mani sono strumento anche di azione, anzi potremmo dire strumento fondamentale di azione. Le mani, dunque, “parlano” e le mani agiscono. Ma un sottile problema filosofico si insinua nel considerare la fattualità “negativa” delle mani, quando esse non indicano una “direzione” di senso rilevabile. Ed è allora che si affaccia alla coscienza un’apertura gnoseologica a «mondi possibili», se ci si è resi capaci di rinunciare alla pretesa di avere certezze e al contrario di saper «farsi avvolgere dal mistero». Si comprende come questa configurazione delle mani, nella sua valenza del possibile, può rappresentare un’occasione per indagare non solo il mistero nella vita quotidiana «comune» (per riferirmi al concetto di «gente comune» evidenziato dall’autore), ma anche quello, particolare, della vita mistica, nella quale a volte la fissità, o inespressività, delle mani racchiude, nella sospensione di significato per il soggetto che assiste ma forse anche per il soggetto dell’esperienza mistica, un mondo di mistero da scoprire.
La problematica della «mancanza» di senso compiuto e immediato delle mani – e ciò vale per ogni forma comunicativa, quale quella della comunicazione linguistica in generale – coinvolge il concetto del «non detto». Il valore del non-detto assume universalmente, sia in letteratura, sia nella vita quotidiana e nelle interrelazioni comuni – senza dimenticare l’ambito investigativo e giudiziario – un’importanza che, presso diversi critici letterari e diversi artisti e scrittori, è considerata più rilevante del detto: il non-detto sarebbe più significativo. Lungo questa direttrice l’autore indaga sul non-senso, sulla «insignificanza» non solo delle parole o delle mani, ma anche delle azioni o di ciò che si sta vivendo: ciò che porterebbe in alcune circostanze all’esperienza esistenziale della noia – su cui ha fondato la speculazione filosofica e la propria creazione letteraria Jean-Paul Sartre. Ma anche la noia, come il non detto, secondo l’autore può essere veicolo verso una «possibilità», cioè verso un proprio futuro non ancora noto né prefigurato e neppure immaginabile, la via per una scoperta di qualcosa ulteriore di sé, la porta che apre a un angolo ignorato delle proprie potenzialità.
L’atteggiamento di diffidenza verso la pretesa del «certo», verso la mentalità di voler ancorare ogni azione e ogni pensiero alle «certezze» e per contro il convincimento della positività del dubbio, senza fissarsi sulle posizioni teoriche e pratiche consolidate e istituzionalizzate, e inoltre l’idea fondamentale che l’individuo umano sia “mistero” – un unicum non incasellabile entro schemi precostituiti – conduce l’autore ad applicare questa linea di pensiero alla criminologia, per quanto riguarda sia l’ambito e la metodica della criminologia, sia la configurazione della figura del criminologo.
Ciò che particolarmente mi ha interessato, al di là delle erudite esposizioni e delle acute riflessioni che rendono il libro non solo facilmente fruibile ma anche ampiamente utile sull’argomento, è l’idea, tradotta in prassi operativa, di individuare nella «storia delle (proprie) mani» una metodica di autosvelamento di ciò che era nascosto a se stessi e di possibile indirizzamento verso prospettazioni diverse rispetto a quelle concepite nel proprio passato. Già vi ho fatto cenno riferendomi alle aperture verso il possibile e alle considerazioni sulla noia, ma qui voglio sottolineare il valore di “conversione” di questa proposta. Si tratta di far parlare dei propri gesti chi ha compiuto un crimine facendogli con ciò «rivivere» la corporeità delle proprie azioni. Un conto infatti è ripensare le proprie intenzioni e azioni come un qualcosa che appartiene alla sfera della idea, un conto è ripensarle come un qualcosa di così carnale, che ancora puoi vedere, fisici e presenti, gli strumenti dell’azione delittuosa: le mani. Le mani che hai sempre e ancora con te, che ti trovi attaccate alla vita corporea, che le puoi muovere e puoi mettertele davanti agli occhi o puoi nasconderle dietro la schiena, ma che ti seguono sempre, sono parte di te. Così è più agevole coscientizzare che sei stato tu l’autore dell’azione delittuosa: tu come corpo, non solo tu come intenzione, cioè come mente. Ed è poi più facile passare dalle tue mani alle mani di chi ha patito violenza, e riandare ad esse come a qualcosa che ti accomuna con chi è stato vittima delle tue mani. In tal modo non si invita a pensare alla vittima come accomunata a sé nella natura umana, quindi ad un livello concettuale, ma nella realtà corporale.
Pisapia si esprime in termini di (possibile) dis-orientamento da parte di colui che rivive la storia delle proprie mani, cioè di “negazione dell’orientamento (precedente)”, di allontanamento da esso, nel senso di «trasgredire il reato». Io ho immaginato la parola “conversione” come esito conclusivo, in quanto quel processo coscienziale fa vertere il soggetto, cioè lo “rivolge con decisione” (cum, in questo caso particella rafforzativa) verso un altro (possibile) orientamento. [Francesco di Ciaccia]
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